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Veronesi:medici full-time
10.1.07

n.zoller@trentinoweb.it
INFO SOCIALISTA 10 Gennaio 2007
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
tel. 338-2422592 – fax 0461-944880
Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it
Quindicinale - Anno 4°


SOMMARIO:

• UN LIBRO, per cominciare: Pino Donghi, SUI GENERIS
• TRA BAGDAD E PIAZZALE LORETO
• BOSELLI SU NAPOLITANO: "MI SAREBBE PIACIUTO UN ESPLICITO IMPEGNO PER LO STATO LAICO"
• Nicola Rossi: OSSERVAZIONI CRITICHE
• IL SOGNO DI VERONESI: MEDICI FULL-TIME E MENO OSPEDALI
• SCIASCIA, IL CORAGGIO DELLE VERITÀ SCOMODE



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UN LIBRO, per cominciare (“Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges)

• Autore: Pino Donghi
• Titolo: SUI GENERIS
• ed. Laterza, 106 pagine, 14,00 euro


La ricerca scientifica non è più confinata nei laboratori, sempre che lo sia mai stata. Oggi il sempli-ce annuncio di una scoperta può influenzare il mercato borsistico, animare il dibattito pubblico e mettere in crisi governi. Per questo l'informazione scientifica è diventata una priorità nella vita delle democrazie. Mosso da questo proposito illuministico, Pino Donghi suggerisce modi accattivanti per divulgare la conoscenza scientifica, che attingono a piene mani alla tradizione dei generi letterari. Fermo restando il principio guida di Albert Einstein, secondo cui le informazioni scientifiche devo-no essere rese più semplici possibili, ma non più semplici.

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TRA BAGDAD E PIAZZALE LORETO

• da La Repubblica del 2 gennaio 2007, pag. 1
di Adriano Sofri

Il Governo iracheno ha replicato allo “sgomento” di Prodi per l'impiccagione di Saddam Hussein. L'ha fatto rinfacciando l'atto simbolicamente fondante della nostra storia repubblicana: "Mussolini è stato processato per un solo minuto.

Il giudice gli ha chiesto il suo nome e alla risposta "Mussolini" gli ha detto: il tribunale vi condanna a morte, e la sentenza è stata eseguita immediatamente”.
Al Maliki oppone l'esecuzione sommaria del duce al processo di Bagdad. Non ha ragione: ma la sua protesta è meritevole di riflessione, ben più che la guerra civile di carta italiana. A Piazzale Loreto non c'è più posto. Perché Maliki fraintende? L'uccisione di Mussolini, condannato dal Clnai, cattu-rato mentre fuggiva travestito da militare tedesco, fu un atto di guerra, come sarebbe stata l'esecu-zione sommaria di Saddam. La cattura che salvaguardi la vita e assicuri un processo non è più de-gna della giustizia sommaria? Certo, purché il processo (regolarità a parte) escludesse dal suo statu-to la pena di morte.
Questo crediamo di aver capito: che il furor di popolo è barbaro, ma l'uccisione distillata che viene dopo anni, dopo le foto del tiranno in ciabatte che fa il bucato della propria biancheria, è imperdo-nabile e sbagliata, simula la giustizia e compie una fredda vendetta. Ma non presumiamo di averla vinta così facilmente su al Maliki. Abbiamo impiegato un tempo lunghissimo ad arrivare al nostro stato d'animo. E se oggi pensiamo che sarebbe stato più giusto catturare vivo Mussolini e processar-lo in una Norimberga italiana – lo disse un anno fa D'Alema e ne nacque uno scandalo superfluo, perché parlava del senno di poi, né si spingeva a rinnegare la storia nel suo contesto - dobbiamo ri-cordarci che una Norimberga italiana, a somiglianza della tedesca e giapponese, avrebbe contempla-to essa stessa la pena di morte. Perfino un ordinario tribunale italiano l'avrebbe ammessa.
Ci sono tempi diversi, nella storia di un mondo che pure pretende di farsi uguale: non solo così da farci credere in anticipo su un cammino lungo il quale gli altri prima o poi dovranno raggiungerci (era l'idea carezzevole del progresso), ma da farci temere retrocessioni sconvolgenti, degli altri e nostre. La pena di morte va indietro, benché infierisca in luoghi cruciali come Cina e Usa. Dai tri-bunali internazionali, che la escludono dal proprio statuto, il ripudio della pena capitale la morato-ria, che è la forma ragionevole dell'abolizione deve trasmettersi alle Nazioni Unite e da lì agli Stati.
Tuttavia neanche questo impegno ci rende paghi di una superiorità verso la legge iracheno-americana. L'uccisione di Mussolini e di altri gerarchi è una cosa, altra cosa l'uccisione di Claretta Petacci e la gogna di Piazzale Loreto. Il furor di popolo retaggio di quel populismo che non era an-cora diventato sinonimo di demagogia caudillista, come in Mazzini: “Quando il popolo si desta/ Dio si mette alla sua testa/ le sue folgori gli dà” - non segnò l'esecuzione, bensì la sfrenatezza di Piazza-le Loreto. Ci costringe a riguardarla proprio l'esempio iracheno, perché dopo la pubblicità circense del cappio, il cadavere del tiranno e stato consegnato, in una calma singolare, alla tomba di fami-glia, alla sua Tikrit, alle devozioni dei suoi.
In Italia, seppellita in segreto e trafugata, la salma di Mussolini restò occultata, e solo molti anni dopo consegnata al culto di Predappio. Sergio Luzzatto, Il corpo del Duce (Einaudi 1998) ha rico-struito la sua tortuosa utilizzazione postuma per il revisionismo della indulgente Italia da operetta secondo Montanelli, o il priapismo secondo Gadda.
Quel Piazzale Loreto era stato nell'agosto del 1944 teatro dell'eccidio di quindici antifascisti, trasci-nati fuori da San Vittore, trucidati, ammucchiati. Bisogna ricordarsene, anche se non per giustificare il secondo Piazzale Loreto. Da tempo, salva qualche sortita che ha più dello sfogo o del puntiglio, a Piazzale Loreto non c'è più posto. Non si può dire che si sia preferita la rimozione. Del resto, a im-pedire che la comprensione del contesto di quell'aprile sconfini nel giostificazionismo stanno i giu-dizi contemporanei di protagonisti come Sandro Pertini "a Piazzale Loreto l'insurrezione si è diso-norata” - o Ferruccio Parri – “esibizione di macelleria”. La gonna della Petacci fermata alla meglio sul corpo appeso a testa in giù per limitare lo sconcio, e insieme la furia speciale di donne contro i cadaveri, non si ricordano senza vergogna.
Tuttavia, si scusi l'apparente paradosso, per quelli della mia età e della mia storia c'è qualcosa di più inspiegabile della furia del 1945, è più necessario da spiegare. Ed è che noi stessi, che proviamo quel raccapriccio, ristampammo, a distanza di due generazioni, l'immagine dei cadaveri scempiati e appesi come un manifesto di giustizia”. C'è ancora tanto posto”. Ne eravamo soli, noi “estremisti”. Anche questo bisogna ricordare quando si parla all'Iraq, che non esce da una guerra civile, ma le precipita dentro. La reciproca disumanizzazione, che faceva coincidere l'umanità con l'inimicizia inflessibile - invocava l'antifascismo, ma è stata il segno di tante scelte ideali nella preistoria umana, in cui continuiamo a brancolare – non poteva avere che una rottura radicale, il sentimento che non si potessero rimettere assieme i cocci di una corazza umana. La nonviolenza è stata spesso erede di quella violenza, e non un opportunismo da voltagabbana o peggio una messinscena.
Il tirannicidio - quello vero, la risoluzione intrepida di un suddito, non di un tribunale di Stato spal-leggiato da una potenza militare - era l'ideale magnanimo della vecchia storia, salvo l'effetto che tradisse i fini. La nonviolenza non risolve il dilemma, nè del fine, né dei mezzi, perché la natura umana resta esosa: permette bensì di guardare il dilemma con occhi nuovi. Un giorno, forse, noi ci riaffezioneremo alla pena di morte, e ci sbarazzeremo dell'orpello di Beccaria: siamo già tentati di farlo perfino con la tortura. Un giorno, forse, in Iraq ci si vergognerà del cappio legale, come noi ci vergogniamo di Piazzale Loreto.
Lasciatemi chiudere con una pagina de La Storia (1975). Ho scritto fin qui dello sguardo di chi ha visto cose opposte nella stessa immagine, e deve renderne conto. Di chi ha voluto stare dentro la Storia, e in fondo vuole ancora starci. Al contrario, Elsa Morante volle guardare alla stessa Storia con gli occhi incantati e offesi del piccolo Useppe. In quella primavera del ‘45, un giorno sua madre lo ritrovo "che osservava certe riviste illustrate, appese sul fianco di un'edicola. Sulla più bassa il foglio era occupato da due fotografie d'attualità, entrambe di gente impiccata. Sulla prima si vedeva un viale alberato... Da ogni albero pendeva un corpo, tutti infila, con la testa inchinata su un orec-chio, i piedi un poco divaricati. Erano tutti giovani, e tutti malvestiti. Su ognuno di loro stava appe-so un cartello con la scritta: PARTIGIANO". E tutti erano maschi, salvo un'unica donna, la quale non portava nessuna scritta, e a differenza degli altri non era impiccata con una corda, ma appesa per la gola a un gancio di macelleria. La si vedeva di schiena, però dalle forme, ancora in fiore, po-teva giovanissima, sotto i vent'anni... Nella seconda fotografia si vedeva un uomo vecchio, dalla te-sta grassa e calva, appiccato per i piedi con le braccia spalancate, sopra una folla fitta e imprecisa. La rivista più in alto, in copertina, mostrava un’altra fotografia recente, senza impiccati né morti. Una donna giovane, dalla testa rasa a nudo come quella di un pupazzo, con in braccio un bambino avvolto in un panno, procedeva in mezzo a una folla di gente d’ogni età, che sghignazzando la se-gnavano a dito e ridevano sconciamente su di lei…Useppe, con la testa in su, stava lì a scrutare que-ste scene…Pareva interrogasse un enigma, di natura ambigua e deforme, eppure oscuramente fami-liare…”.

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"MI SAREBBE PIACIUTO UN ESPLICITO IMPEGNO PER LO STATO LAICO”
Intervista ad Enrico Borselli sul discorso del Presidente Napolitano

• La Stampa del 2 gennaio 2007, pag. 3
di A.L.M.

Enrico Boselli si sarebbe aspettato qualcosa in più dal presidente della Repubblica. Da quel discorso di Capodanno, l'esponente della Rosa nel Pugno sperava che arrivasse una maggiore difesa della laicità dello Stato di fronte all'«offensiva del Vaticano». Una «campagna quotidiana che non riguar-da soltanto i temi etici o religiosi», ma anche le unioni di fatto che «con l'etica non c'entrano nulla». Ora però la parola passa al governo che «dovrà mantenere l'impegno di presentare in Parla­mento un disegno di legge» sulle coppie di fatto.

Dunque, il discorso del presidente Napolitano l'ha delusa?

«No. Napolitano ha fatto un buon di­scorso. C'è un punto dove mi sarei at­teso una parola in più, un richiamo più forte al principio della laicità del­lo Stato perché siamo di fronte ad una messa in di-scussione di questo principio. Noi abbiamo difficoltà a fa­re una legge sulle unioni di fatto co­me c'è in tutti i Paesi europei. Noi non riusciamo a dare a quasi 2 milio­ni di italiani che si amano e si rispet­tano, quei diritti minimi che non li facciano sentire cittadini di serie B.
Io spero che il ministro Pollastrini e i1 governo tutto tengano fede alla promessa di presentare entro fine gen­naio un disegno di legge. Le leggi civi­li non hanno come obiettivo quello di difendere una morale religiosa ma di garantire i diritti cittadini».

Napolitano invita gli schieramenti al dialogo e a fare insieme le grandi rifor­me. Ma l'opposizione punta subito l'in­dice sul governo che avrebbe abusato del voto di fiducia. Come se ne esce?

«E' un'accusa ingiustificata, perché il voto di fiducia sulla Finanziaria è stato un atto obbligato dal-l'atteggia­mento ostruzionistico della Cdl. Ora è giusto pensare alle grandi riforme, ma per me la priorità fondamentale è cambiare ì regolamenti parlamenta­re. Ci si dimentica spesso che sareb­be sufficiente cambiare questi rego­lamenti per fare dell'Italia un Paese moderno. Accade solo in Italia che il governo presenta una Finanziaria che viene approvata tre mesi più tar­di dopo migliaia e mi-gliaia di emenda­menti».

Cosa dovrebbe fare la maggioranza per raccogliere l'invito al dialogo che è venuto dal presidente della Repubbli­ca?

«Non è facile dialogare con questa opposizione che predica bene ma raz­zola male. Berlusconi la mattina de­nuncia l'illegalità del governo e so­stiene che Prodi non ha vinto le elezioni, poi la sera manda Bondi o Cicchitto in tv per dire che è la maggio­ranza a non volere discutere. Ma di cosa do-vremo parlare, di quante schede false ci stavano nelle urne elettorali? Il centrodestra deve deci­dere quale strada imboccare: se quel­la del dialogo su alcune riforme fon­damentali oppure continuare con questa storia dei brogli elettorali».

La riforma della legge elettorale la ritie­ne una priorità?

«Non la considero un elemento fon­damentale. Francamente l'Italia ha davanti a sé nel 2007 pro-blemi più se­ri come la riforma profonda dello Stato sociale e della previdenza».

Ma Prodi dice che non c'è fretta.

«E io invece penso che sia assoluta­mente indispensabile se vogliamo cambiare il volto del Paese. Comun­que non dovremo fare quello che ha fatto la Cdl quando fece una legge elettorale pessima, pensando di po­ter vincere, a colpi di maggioranza. Sulle regole del gioco bisogna essere tutti d'ac-cordo. Non è possibile che ogni cinque anni, a seconda di chi vin­ce, si cambi il sistema elettorale».

Quale sistema preferisce?

«Resto convinto che il sistema eletto­rale dei comuni, quello del "Sindaco d'Italia" per intenderci, sia il migliore. Però su questo tema l'indicazione al dialogo che viene da Napolitano è sacrosanta».

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Nicola Rossi: OSSERVAZIONI CRITICHE

• Corriere della Sera del 8 gennaio 2007, pag. 1


Conviene partire dalla sera dell'ultimo dell' anno. Conviene partire dalle parole del Capo dello Stato sulla distanza fra la politica e la società e dal suo invito agli italiani a colmare quella distanza, a tor-nare a guardare alla politica non più come altro da sé. E dal corrispondente invito alla politica a dare di sé un'immagine tale da giustificare una ritrovata fiducia da parte dei cittadini. Parole sante, come si dice. Ma, sia detto con il massimo rispetto per chi le ha pronunciate, forse anche parziali. Perché il punto non è tanto - a mio modestissimo parere - quello del rumore della politica (che, sia chiaro, c'è ed è spesso molto sgradevole) ma quello, assai più serio, della qualità della politica che quel ru-more sottende. Una qualità che porta oggi gli italiani non già all'irritazione e all'invettiva ma all'in-differenza. A considerare la politica come un peso di cui non è possibile liberarsi ma che, appunto, è solo un peso. Fastidioso e spesso ingiustificato. Maprima di affrontare quel punto, una premessa è essenziale, a scanso di equivoci. Chi scrive pensa non solo, come si dice con una punta di retorica, che i partiti sono uno strumento essenziale della democrazia, ma che la politica si fa, in primis, den-tro e con i partiti. Comprendendone il ruolo, interpretandone i rituali, rispettandone le forme, ricor-dandone la storia, percorrendone tutte le articolazioni. Tutte attività non sempre gratificanti e a volte anche un pochino noiose ma senza le quali non si comprende, al tempo stesso, la durezza e la ric-chezza della politica.
E chi scrive ne è tanto convinto che nel 2001 - memore della indicazione di Mitterrand ad un noto intellettuale francese del suo tempo - non ha chiesto di essere candidato a Siena o a Modena (nessu-no si offenda, per favore, ho fatto solo due esempi) ma in un collegio meridionale saldamente tenuto da parecchi anni dagli avversari. Ciò detto, torniamo alla qualità della politica. Allentatosi il vincolo della ideologia, la politica è oggi più di tante altre cose, credibilità. Credibilità della classe politica nel suo insieme e credibilità dei singoli che fanno politica. E una politica credibile è quella che cre-de in quello che dice ed in quello che fa, o che cerca di fare. E' tutto qui il dibattito sul riformismo che andiamo facendo da qualche tempo o, meglio, da qualche anno. Non riguarda solo i risultati - che pure sono piuttosto magri - ma la convinzione che dovrebbe animare i protagonisti di quel di-battito. Cosa pensereste di un grande manager che oggi indica nel mercato cinese una opportunità da non mancare e promette, di lì a qualche tempo, di sbarcarci in forze e poi, qualche tempo dopo, vi dice che sì, poi, in fondo, il mercato cinese non è così importante? E cosa pensereste di un leader politico che a novembre annuncia urbi et orbi che per marzo il paese avrà messo un punto fermo sui temi della riforma previdenziale e poi a gennaio conclude che, in La citazione fondo, la cosa non è poi così urgente? Non pensereste quello che pensano molti italiani? E, gentilmente, non si tiri fuori l'argomento francamente un po' deboluccio relativo alle difficoltà entro le quali quotidianamente si muove la politica. Alla fatica - che c'è, lo sappiamo - della costruzione politica. Alla incertezza de-gli esiti: sappiamo anche questo, si può vincere e si può perdere. Il punto è un altro: da una classe politica si chiede - avrei voluto scrivere, si pretende - che spenda il proprio tempo a pensare come evitare o superare quelle difficoltà. La politica - mi si perdoni la franchezza - non è pagata per rac-contare ai cittadini gli ostacoli che incontra giorno dopo giorno ma per superarli. Se ne è capace. E se non ne è, per lasciare ad altri la possibilità di provarci. Le difficoltà in cui si dibatte, giorno dopo giorno, l'odierna azione di governo sono il frutto malato di cinque anni di opposizione in cui - anche grazie a qualche editoriale domenicale non sempre illuminato - non un solo giorno è stato speso per costruire la cultura e le condizioni che sarebbero servite a governare e non è lecito, oggi, usare quel-le difficoltà come un'attenuante. (E l'argomento vale, mutatis mutandis, per il governo della passata legislatura.) Si è seminato male e quindi si raccoglie poco. E si è seminato male perché non si cre-deva fino in fondo in quel che si diceva di voler fare. Una politica credibile è una politica che ri-schia e che si assume responsabilità. Che si espone al pericolo di perdere perché solo così si vince.
Che non trasforma un grande progetto politico come quello del Partito democratico - evidentemente difficile e rischioso - in un piccolo espediente tattico. Per quel pochissimo che capisco di politica mi sembra di poter sommessamente dire che non si costruisce un partito con un solo punto nell'agenda: consolidare gli equilibri esistenti. Politici e di potere (benedetti intellettuali! continuo a non riuscire a non tenere separate le due cose). Vedere per credere come, a livello locale, si vanno preparando i prossimi congressi. In molte regioni d'Italia (almeno una la conosco piuttosto bene) l'attività politica oggi prevalente è quella relativa alla attenta allocazione delle tessere ed al relativo "traffico". Perché il congresso non comporti il minimo rischio. Perché tutto sia noto e definito in anticipo. Perché le minoranze non manchino e le maggioranze siano definite per residuo. Nulla di nuovo e tanto meno di sorprendente. Lo si faceva anche negli anni d'oro della Prima Repubblica. Per quel che ricordo, spesso con più stile e certamente con più fantasia. Il punto grave è che tutto questo accade non già in vista di congressi di routine ma addirittura nella prospettiva di scelte che dovrebbero cambiare il modo stesso di essere della politica italiana. Che dovrebbero chiudere una transizione (che, ovvia-mente, non a caso è infinita). Come si può - lo chiedo a Michele Salvati - contemplare senza battere ciglio una abdicazione della politica di questa portata? Come si può, con il sorriso sulle labbra, e-sporre il sistema politico italiano - prima ancora che alcune sue parti - a pericoli fin troppo evidenti, perché partiti così sono costruiti sulla sabbia e possono scomparire al primo risultato elettorale non troppo esaltante, lasciando dietro di sé - e nel migliore dei casi - solo macerie? Come si può non ve-dere che l'Italia cresciuta, economicamente e socialmente, nell' ultimo quindicennio di un partito co-struito su basi culturali e politiche così fragili non saprebbe che farsene e cercherebbe altrove le ri-sposte alle proprie domande?
Se il Partito democratico fallirà - mi rivolgo ancora a Michele Salvati - non sarà a ragione di subdo-le ed infide iniziative trasversali (e, sia detto per inciso, è più subdolo ed infido discutere con Bruno Tabacci di pensioni o trattare sulla legge elettorale con Roberto Calderoli?), ma sarà a causa della mancanza di coraggio di chi pensa che il rischio sia pane quotidiano per le famiglie e per le imprese ma non per la politica. Una politica credibile è una politica che rispetta le regole. Che non si limita, giustamente, a chiedere giornalmente ai cittadini di rispettare le regole ma che rispetta essa per pri-ma le regole che alla politica si applicano. E ce n'è una, in molti paesi e soprattutto in quelli che il maggioritario ce lo hanno da tempo, che non è nemmeno scritta: chi perde abbandona il campo. De-finitivamente (salvo straordinarie eccezioni). Sia che perda elettoralmente, sia che perda politica-mente (chiedere, per ulteriori dettagli, a Margaret Thatcher). E non è una astruseria. Ma una sempli-ce - rozza, lo ammetto - norma di garanzia. Intesa ad evitare che chi c'è usi del proprio indubbio po-tere per rimanere. E, gentilmente, si eviti a questo punto di alzare il dito per osservare che nuove classi politiche all'orizzonte non si vedono. Perché non sappiamo se l'impresa entrante ci offrirà prodotti di qualità migliore e a un prezzo inferiore, ma consideriamo un bene pubblico il fatto che possa provarci e lo tuteliamo come tale. La politica italiana - credo di averlo detto e scritto in tempi non sospetti - è oggi guidata (al di là dei meriti o dei demeriti dei singoli) da due leadership entram-be sconfitte. E quindi automaticamente, inevitabilmente, al di là della loro volontà e delle loro capa-cità, non più credibili. Della politica non possiamo fare a meno. Quindi, quel che fa la differenza è la qualità della politica. Si può fare politica per una vita intera senza mai farla veramente e farla per un giorno solo mettendoci la passione di una intera vita.

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IL SOGNO DI VERONESI: MEDICI FULL-TIME E MENO OSPEDALI

• da Repubblica del 8 gennaio 2007, pag. 1
di Umberto Veronesi

Sporcizia e rischio infezioni in corsia, edifici fatiscenti, inadempienze del personale medico sono parole che scandalizzano la gente, richiamano l'attenzione dei politici, ma soprattutto terrorizzano i malati, che si chiedono che cosa pensare di ciò che per loro è veramente fondamentale: l'efficacia della cura. Va detto subito che, in generale, il nostro sistema sanitario è, fino ad oggi, fra i più ap-prezzati dall'Organizzazione mondiale della sanità e i nostri medici sono molto considerati a livello internazionale.
Va anche sottolineato, però, che l'ospedale è effettivamente il nostro punto debole, un'area che non si è evoluta di pari passo con la scienza. Gli ospedali italiani hanno una media di 60-70 anni: quasi il 60% di essi è stato costruito tra la fine dell'800 e il 1940. Se, come credo, il modello ospedaliero è lo specchio della sanità di un Paese, è necessario allora rinnovare con urgenza tutto il sistema e non limitarsi a risanare alcune situazioni. È tempo che l'ospedale italiano si trasformi e il cambiamento deve essere radicale: strutturale e culturale.
Per cominciare bisogna ridurre il numero degli ospedali. Da un'indagine che effettuai nel 2000 co-me ministro della Sanità è emerso che in Italia ci sono 1400 ospedali: almeno 400 andrebbero chiu-si. Si è calcolato che in un Paese moderno siano sufficienti 2-4 posti letto ogni mille abitanti. In Ita-lia negli anni Novanta ce n'erano mediamente, tra pubblico e privato, quasi il doppio. È necessario abbandonare la logica dei posti-letto come indice di qualità: la struttura ospedaliera ideale è quella che non supera i 500 posti letto, mentre nel nostro Paese ci sono 140 ospedali che hanno più di 700 letti.
La medicina è cambiata: oggi un letto ruota in un anno da 100 a 150 malati, mentre 10 anni fa, con degenze media di oltre 10 giorni, ne ruotava al massimo 50. L'ospedale è diventato, con il progresso tecnologico e scientifico, un luogo di terapia e non più di diagnosi, e tantomeno di convalescenza e riabilitazione: il paziente deve restare in ospedale solo per i pochi giorni necessari ai trattamenti. Questa trasformazione deve riflettersi anche nell'organizzazione. Riducendo il tempo di degenza ospedaliero, effettuando analisi e esami prima del ricovero e accelerando le dimissioni.
Certo, questo presuppone due elementi: che ogni ospedale abbia accanto una struttura residenziale dove il malato, anche accompagnato dai famigliari, possa trascorrere il periodo di convalescenza e che esista sul territorio una rete di centri diagnostici. Questo è, del resto, il trend che vediamo nei paesi più avanzati: una rete limitata di ospedali, ognuno con massimo 500 posti letto, ad altissima tecnologia, altissima specializzazione e rapidissimo ricambio, e una estesa rete diagnostica il più possibile capillare sul territorio.
All'interno dell'ospedale il medico deve lavorare a tempo pieno. Non è concepibile che un chirurgo guardi l'orologio perché deve scappare in casa di cura e abbia pazienti di serie A in clinica privata e di serie B in ospedale. Viceversa, poiché il malato ha il diritto di conoscere e scegliere chi lo cura, l'ospedale deve attrezzarsi perché il medico svolga al proprio interno la libera professione. Così co-me non è più concepibile che il medico non concentri tutta la sua attività clinica e di ricerca in un unico ospedale.
Il luogo di lavoro, soprattutto sanitario, deve essere un luogo di sviluppo di cultura, di ricerca scien-tifica e di aggiornamento professionale. Un sogno rispetto alle immagini del degrado in questi gior-ni su tutti i giornali? No, un progetto molto concreto invece. Lo ha disegnato Renzo Piano cinque anni fa, pensando, insieme a me, alla nuova generazione di ospedali italiani. Esiste un dettagliato progetto architettonico e organizzativo, ed anche un decalogo dell'ospedale modello che ha come primo punto l'uomo.
L'ospedale di domani deve ruotare intorno alle esigenze del malato e non a quelle dei medici. Solo chi ha provato a essere ammalato davvero può capire perché è vitale che si vada oltre l'allarme e che si continui a migliorare. E chi ha passato tutta la vita a fianco degli ammalati sa che non si può a-spettare il prossimo scandalo in ospedale. Ecco perché spero che il governo affronti davvero questa emergenza, ma che non si fermi al Policlinico di Roma.

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SCIASCIA, IL CORAGGIO DELLE VERITÀ SCOMODE

• L'Opinione del 5 gennaio 2007, pag. 7
di Gualtiero Vecellio

Leonardo Sciascia amava molto uno scrittore, Giuseppe Antonio Borgese; e di Borgese aveva fat-to sua una frase: "Aspiro, per quando sia morto, ad una lode: che in nes­suna mia pagina è fatta pro-paganda per un sentimento abietto o malvagio".
Chiunque sfogli e legga le tremila e passa pagine della produzione letteraria di Sciascia può verifi-care se questa aspirazione sia stata legitti­ma; se sia rimasto fedele a quello che possiamo definire una sorta di codice di vita: la ricerca della verità, per quanto aspra e scomoda potesse essere. Lui una volta confidò di essersi sentito per tutta la vita come il pesce volante di cui parla Voltaire: un ani­male che quando si innalza un poco dalle acque viene divorato dagli uccelli che lo aspettano al varco; se si immerge sott'acqua ecco che però se lo mangiano gli altri pesci più voraci. Una con-di­zione, aveva aggiunto Sciascia, "bellissima, ma anche tremenda"; e poi con una punta di malin-conia, si era domandato: "Quanti sono oggi, in Italia, gli uomini di lettere disposti ad accettarla e viverla?". Lo vediamo: nessuno, si può dire. Appena Sciascia è morto è stata una gara nel dire che era un gran­de: un "maestro", una guida. Un "profeta", addirittura: etichetta che in vita aveva sem-pre rifiutato, sostenendo che lui si limitava a vedere, laddove gli altri guardano. Profittando del fatto che non si poteva più difendere, gli hanno poi infetto le ultime offese, l'estremo oltraggio, lo sfre-gio-definitivo: l'omologazione. Non essendo pos­sibile inquadrarlo da vivo, si è tentato così di in-ghiottirlo da morto. Da quegli stessi che quand'era vivo lo aveva­no definito un "codardo"; da colo-ro che lo avevano bolla­to "iena dattilografa"; lo ave­vano accusato - la fantasia non ha limite quan-do si cerca di offendere qualcuno - d'es­sere un venduto trotzkista...
Esiste un dovere della memoria. Per questo vale la pena, letterale, di ricordare una parte dei giudizi som-mari, liquidatori, ingiusti, che gli vennero rovesciati addosso: "In lui lo sdegno non fa il salto dal fegato al cervello, e non si tramuta in una passione creativa capace di prefigurare una meta, ma-gari oscura, ma comun­que posta al di là del nostro fronte visivo. La fredda iro­nia di Voltaire ve-deva la rivoluzione francese. Quella di Sciascia un'Italia perbenista che non è mai esistita" (Angelo Guglielmi).
"E' precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese, per non dire qua­lunquista" (Giovanni Raboni).
"Il nuovo Sciascia ci fa una gran pena... A me pare che Sciascia si è messo a combattere con Scia-scia. Sciascia contro Sciascia. Impegnato a demolire arti­colo dopo articolo, l'imma­gine di se stes-so" (Giampaolo Pansa).
"Leonardo Sciascia, ormai travolto dagli anni e da antichi livori..." (Claudio Fava). "Ci ho pensato a lungo, e sono giunto alla conclusione che... 'Il Giorno della civetta' di Leonardo Sciascia è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia" (Nando Dalla Chie­sa).
La verità, indubbiamen­te, rende la vita scomoda a chi la dice; e Sciascia nel corso della sua vita ha detto troppe, e insopportabili, verità. Un tipo di impegno che si paga duramente. Il prezzo è la soli-tudine, l'iso­lamento. Ha dovuto perfino patire la volgarità di una polemica meschina e postu­ma accesa da Pino Arlacchi: il sociologo ha atteso che Sciascia morisse, per scrive­re su "Repubblica" che Sciascia non può essere conside­rato un "maestro", perché gravissimi furono i suoi silenzi, men-tre altri sfidava­no le cosche; e perfino che "II giorno della civetta" in realtà fa l'apologia di Cosa Nostra. Testuale: "Una storia ben narrata della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappre-sentanti di fronte a un delitto di mafia".
Ma era quello che in questi anni accadeva. Richiamarne l'attenzione, denunciare e descrivere il fat-to, per Arlac­chi diventa esserne compii­ci. E, infatti: "Dei due mag­giori personaggi del raccon­to, il capitano dei carabinie­ri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce e sovrasta". Conclusio-ne: "Sciascia stregato dalla mafia". E' vero: altri hanno dato a Sciascia del mafioso tout court, del quaquaraquà; però, anche nella polemica dovrebbero esserci dei limi­ti.
Per mettere le cose a posto basta citare Tullio De Mauro, il fratello di Mauro De Mauro, il giornali-sta de "L'Ora" impegnato in inchieste di mafia, scompar­so un giorno del 1970 e mai più tornato e ritrovato. Dice De Mauro: "I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la ma-fia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposte in prima persona. Io sono stato coin­volto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove in-se­gnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequenta-vano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di in-numerevoli circostanze. Un sociologo (Arlacchi, ndr.) dovrebbe valutare que­ste cose, come do-vrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rappor­ti con il mondo della politi­ca". Sono trascorsi vent'an-ni dalle polemiche solleva-te da un articolo di Sciascia sul Corriere della Sera, "I pro­fessionisti dell'antimafia". Sciascia pone-va una questio­ne di metodo e di legalità; la questione che anche l'anti­mafia può essere agitata a scopo di demagogia; e di come le regole debbano essere osservate sempre: se non le si ritiene più adatte, vanno cambiate, non disatte­se.
E' utile, al riguardo, ricordarci di come la pensa­va Giovanni Falcone. Nero su bianco, Su un libro, "I disarmati", di Luca Rossi (Mondadori editore): "Il fatto è che il sedere di Fal­cone ha fatto como-do a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. Per me, invece, meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la dif-ferenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un'epopea, non siamo superuomini; e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfetta­mente ragione. Non mi rife­risco agli esempi che faceva in concreto, ma più in gene­rale. Questi personaggi prima si lamentano perché ho fatto carriera; poi se mi presento al posto di procura­tore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t'impe­gni, hai il tempo di criticare. Guarda che cazzate fa que­sto, guarda quello che è pas­sato al Pci, e via dicendo. Basta, questo non è serio. Lo so di essere estremamente impo­polare, ma la verità è questa...".
Polemiche che Sciascia aveva ben previ­sto. Sul Corriere della Sera del 26 gennaio 1987, annotò: "...Diceva Pirandello: 'beato paese, il nostro, dove certe parole vanno tronfie per via, gorgogliando e parando a ventaglio la coda, come tanti tacchini '. Ma lascian­do da canto 1 ' ironia (il cui linguag-gio non sempre riesce deci­frabile ai più), si può dire - e posso ben dirlo, dopo trent'anni di pole-miche - che il nostro è un tremendo paese, dove basta ci si attenti a toccare il picchiotto, per bussare alla porta della verità, che si viene procla­mati untori anche da chi sa che le unzioni non esistono e che chi bussa non ha niente a che vedere con la peste...". Il segno dei tempi che ci tocca di vivere (e patire) è dato da quanto abbiamo avuto occasione di leggere sul sito internet "II Barbiere della Sera" che ha pubblicato il testo integrale dell'in­tervento di Raffaele Fiengo, giornalista-sindacalista, in rappresentanza dei giornali­sti del Corriere della Sera, all'assemblea Hdp del 2 maggio 2002. Vi si legge, tra l'altro, che numerosi sareb­bero i segnali preoccupanti che farebbero presagire una minac-cia all'autonomia e all'indipendenza del giorna­le e dei suoi redattori. Tra questi segnali, testualmen-te: "In queste ore una ristampa di un’opera poco apprezzata dai critici di un autore discusso (per vi-cende del passato che hanno gravato sul Corriere della Sera senz'altro in modo pesante), è l'occasio-ne in assenza dun­que di un'autentica 'notizia', per dare forse un segnale di 'nuovi corsi'... ". La ri-stampa dell'opera "poco apprezzata dai critici", è "II giorno della civetta". L'autore discusso è Leo-nardo Sciascia. E' proba­bile che lui ne sorriderebbe. Noi no. Almeno fino a quan­do non verrà chiesto scusa per queste scempiaggini e autentiche corbellerie.

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