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n.zoller@trentinoweb.it INFO SOCIALISTA 25 Dicembre 2006 a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei socialisti e del centro sinistra tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it Quindicinale - Anno 3° SOMMARIO: · UN LIBRO, per cominciare: Walter Micheli, “IL SOCIALISMO NELLA STORIA DEL TRENTI-NO” – Commento di Marco Battisti · PINOCHET, ARROGANTE FINO ALL’ULTIMO COME MILOSEVIC E SADDAM · IN MORTE DI WELBY · Finanziaria IL COLPO DI SPUGNA SCUOTE L’UNIONE · BASTA TECNICI RISERVE DELLA REPUBBLICA, TORNI LA POLITICA · BOSELLI: A MARZO LA CONVENZIONE NAZIONALE DEI SOCIALISTI @@@@@@@@@@@@@@@ UN LIBRO, per cominciare (“Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges) · Autore: Walter Micheli · Titolo: “IL SOCIALISMO NELLA STORIA DEL TRENTINO” · Il Margine ed., 340 pagine, 15,00 euro “Mi sono sentito offeso per tanti anni a causa delle diffamazioni. Il PSI non era Ali Babà con intorno i qua-ranta ladroni”- Giuliano Amato, 7 dicembre 2006, Corriere della Sera, p.13 di Marco Battisti “Il socialismo nella storia del Trentino” di Walter Micheli, è un gran bel libro che ricostruisce con forza e orgoglio la storia di cento anni di impegno politico dei socialisti trentini, la natura forte del loro messaggio, il contributo generoso per la crescita della nostra terra e della democrazia italiana. Si restituisce l’onore ai socialisti e, colmando un vuoto di storia e memoria, si offrono alla comunità trentina idee e strumenti per costruire gli scenari del futuro. Alla presentazione del libro, in una sala colma all’inverosimile, si sentiva la complicità di sguardi ed emozioni tra i tanti socialisti presenti, che da lungo tempo non si incontravano, e tra questi e molti antichi avversari o alleati politici. In questo clima emotivamente intenso, ad un certo punto, Ulisse Marzatico ha chiesto, a sé e agli altri, come mai questa grande storia dei socialisti si sia potu-ta improvvisamente dissolvere, una dozzina di anni fa. Alla sparizione dei dinosauri dalla terra si dà una spiegazione scientifica, ma perché i socialisti, ancora oggi presenti e protagonisti in tutti i paesi europei, in Italia non ci sono più? Nel libro di Micheli questa questione non viene affrontata, si ac-cenna in più occasioni alla “questione morale” e nell’introduzione del libro, Renato Ballardini parla della “crisi degenerativa causata dal craxismo”. In questi anni molti studiosi, oltre a protagonisti politici sia socialisti che riformisti postcomunisti hanno scritto su quel periodo storico e la sostanza della questione è venuta alla luce. Si può dire che storia del partito socialista dal 1945 al 2003, è coincisa con lo sforzo della società italiana di liberarsi dai vincoli imposti dall’accordo tra le potenze vincitrici della guerra che sanciva la divisione del mondo in blocchi: quello americano e quello sovietico. In questo accordo, fu deciso di non dividere territorialmente l’Italia in due parti, come era avvenuto in Germania, ma di dividere tacitamente il paese in due aree di influenza politica, una tutelata dalla Democrazia cristiana e l’altra dal Partito comunista. La conseguenza è stata la nascita una democrazia bloccata, impossibilitata ad organizzarsi secondo le regole dell’alternanza di governo: la Dc obbligata a governare e il Pci ob-bligato all’opposizione. Da qui ha origine, in un paese in cui lo scontro politico interno è parte di uno scontro di livello mondiale, la questione della spesa enorme per finanziare la lotta politica, i flussi di denaro di provenienza estera per gli uni e per gli altri, il ruolo pressante e continuo dei ser-vizi segreti sulle vicende italiane. Da allora ha preso corpo il fatto che l’attività politica fosse finan-ziata in nero, quindi in violazione della legge. Dal finire degli anni ’50, il Psi inizia una battaglia su due fronti, da un lato sganciarsi dall’egemonia e dalla pressione del Pci e, dall’altro, rafforzare sempre più il proprio ruolo di alleato e allo stesso tempo di competitore con la Dc per la guida del paese. Nasce il centro sinistra di Nenni e Lombardi che come, ricorda Ballardini, portò a termine importanti riforme. Ma ancora di maggiore rilievo è stato il ruolo dei socialisti alla fine degli anni ‘70 e per tutto il decennio successivo quando seppero dare una sterzata al quadro politico italiano, uscendo da una posizione difensiva che relegava il Psi alla marginalità e proponendo un disegno di modernizzazione complessiva del paese che, come si vide, il paese mostrava di condividere. La sfida era il superamento del rapporto consociativo tra Dc-Pci, nelle sue varianti di governi di unità nazionale e di compromesso storico, che metteva una camicia di forza alla evoluzione politica del paese e lo poneva in forte ritardo rispetto a quanto accadeva nel mondo. Occorreva rompere queste logiche e portare l’Italia alla normalità, cioè in sintonia con quanto accadeva nei paesi euro-pei dove esisteva un rapporto dialettico tra uno schieramento socialista e uno moderato o conserva-tore. Lo scontro politico è stato allora furibondo tra grandi personalità politiche, non mezze cartuc-ce. Berlinguer arrivò a sostenere che il Psi era una minaccia per la democrazia; De Mita sosteneva di preferire un accordo sottobanco tra Dc e Pci, piuttosto che l’ ipotesi di una alternanza tra modera-ti e riformisti alla guida del paese. Quello che mancò è stata la capacità di costruire un’intesa tra Psi e Pci. Se, ad esempio, Berlinguer avesse dato il via libera alla Cgil di Lama per l’accordo sulla scala mobile, che gli altri sindacati a-vevano sottoscritto, si sarebbero create le premesse per una evoluzione verso l’unità della sinistra riformista; e il Pci avrebbe evitato una disfatta elettorale clamorosa. Riferendosi a quel periodo, nel suo libro “Per passione”, Piero Fassino scrive: “Sono anni molto difficili. Il Pci è su un binario mor-to: l’esaurimento della strategia del compromesso storico non ha portato all’elaborazione di una al-ternativa. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l’impatto con la crisi della sua strategia politica”. Nei governi a guida socialista, senza nascondere mancanze, errori gravi e buoni propositi andati per aria, il bilancio è positivo. In particolare il ruolo esercitato sulla scena europea e internazionale, la forte coscienza dell’autonomia e dell’interesse nazionale, l’autorevolezza acquisita. Non a caso, come emerge dalle pagine di Micheli, i migliori risultati dei socialisti trentini coincidono con quel periodo. Ma perché allora il Psi si è dissolto? C’è stato un tempo, nel massimo splendore di Manipulite, che solo avere in tasca la tessera socialista poteva far configurare l’ipotesi di reato. Entra in scena una valanga mediatico-giudiziaria di tale intensità e con un tale effetto sull’opinione pubblica da far pensare che non sia stata estranea una volontà politica di distruggere un’intera classe dirigente. Non vi è dubbio, oggi, che prevalse uno spirito giustizialista, emersero spinte antipartitiche e contro la politica in generale, populismi e appelli alla piazza su cui alcuni costruirono la loro fortuna politica ed altri, invece, pensando anche loro di trarne profitto, finirono per perdere la metà del loro elettora-to storico. Proviamo a pensare cosa sarebbe successo, nel clima della giustizia mediatica di allora, se si fosse verificato che un imprenditore accusa il vicesindaco di Trento di avergli promesso, e poi non man-tenuto, il cambio di destinazione di un’area da agricola a industriale. Avremmo assistito a un gran tintinnar di manette, carcerazioni preventive, chiamate in correo, pubblici ministeri indaffarati a ri-lasciare interviste, articoli a nove colonne e folle a lanciar monetine sul malcapitato di palazzo Thun. La sua immagine politica ne sarebbe uscita per sempre distrutta, prima ancora di un eventuale processo. In effetti, l’intero sistema politico italiano era finanziato in modo illecito, e questo era il suo tallone d’Achille perché lo rendeva di fatto, in ogni momento, perseguibile. Tale situazione di illegalità è esplosa quando è caduto il muro di Berlino: veniva meno il pericolo comunista e i cittadini chiede-vano un cambiamento politico profondo; in tutta Europa venivano sconfitti i partiti di governo. In una situazione degenerata, Craxi, senza sottrarsi alle sue personali responsabilità, denunciava il si-stema del finanziamento illecito chiamando in causa tutti, ma le sue parole sarebbero cadute in un ambiguo, assordante silenzio generale. A quindici anni di distanza, si possono tirare le somme di Manipulite ed è evidente che i risultati ot-tenuti sul piano politico -eliminare con la distruzione dell’immagine un’intera classe politica- supe-rano di mille miglia i risultati ottenuti sul piano giudiziario. L’accanimento giustizialista nei con-fronti dei socialisti è stato particolarmente intenso: comune per comune, sindaco o assessore, mi-rando a tutti quelli che rappresentavano il tessuto connettivo di una comunità politica di milioni di italiani. A conclusione, la stragrande maggioranza di queste persone è uscito indenne dall’indagini e quella condannata è un quota marginale. Una ricostruzione storica di quelle vicende, anche riguardo il Trentino, è importante per dimostrare che le accuse sommarie non corrispondevano alla realtà e per riconoscere quello che il socialisti hanno dato e potranno dare al loro paese e alla loro terra. L’onore ai socialisti ed a Craxi viene ancora da Fassino che scrive: “Craxi è uomo profondamente di sinistra. Autonomista, anche all’epoca del Fronte popolare, ha uno spiccato senso dell’identità socialista rispetto all’area maggioritaria della sinistra italiana, quella comunista. Certo, Craxi non esita a fare della competizione a sinistra, puntando ad accrescere le difficoltà del Pci, inducendoci a reagire nel modo peggiore, con un più alto livello di conflittualità. Ma resta il fatto che il Pci non appare capace, negli anni ’80, di affrontare il tema della modernizzazione dell’Italia, spingendo così ceti innovatori e produttivi verso chi, come Craxi, dimostra di comprenderli”. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ PINOCHET, ARROGANTE FINO ALL’ULTIMO COME MILOSEVIC E SADDAM • Corriere della Sera del 11 dicembre 2006, pag. 8 di Christopher Hitchens Vicino a casa mia, a Washington, c’è il monumento in memoria di Orlando Letelier, l’esule cileno ed ex ministro degli Esteri qui assassinato con un’autobomba il 21 settembre ’76. Si capì subito che quell’atrocità senza precedenti (allora) sul suolo americano, e che costò pure la vita a un americano, era stata commessa su ordine di Pinochet. Abbiamo, a riguardo, la testimonianza del capo della sua polizia segreta, il generale Contreras. Il Dipartimento della Giustizia americano aveva aperto un procedimento contro Pinochet, sotto la gestione di Janet Reno. Ma l’atto d’accusa non è mai stato reso pubblico. La morte di Pinochet è l’occasione, tra l’altro, per ricordare le vittime del suo terrori-smo (che fu di Stato e internazionale). Pinochet ha fatto la fine di Franco, con una serie di addii sul letto di morte oscenamente protratti. Alla fine i cileni si sono stancati di come Pinochet s’ammalava appena gli atti della giustizia si avvicinavano ai suoi archivi o ai suoi conti bancari. Come Franco, peraltro, è sopravvissuto al suo stesso regime e ha visto il Paese affrancarsi dalla tutela che gli ave-va imposto. E, come Franco, s’è guadagnato un posto nella storia come traditore della Costituzione che aveva giurato di difendere. L’aver abbattuto la democrazia civile nel Paese sudamericano dove questa aveva la più lunga tradizione resterà come uno dei crimini più sconvolgenti del ’900. Il suo golpe — 11 settembre 1973, per chi nelle date scruta presagi — è stato un crimine in sé, ma ne ha implicati molti altri. Nel decennio scorso, specie dopo il suo arresto in Inghilterra nel 1998, questi crimini hanno cominciato a portare a lui. Pinochet si era organizzato un’immunità a vita e un seggio al Senato per una graduale uscita di sce-na. Ma a Madrid un magistrato aveva ottenuto un mandato di cattura per la sparizione di cittadini spagnoli. Il mandato di Garzón trovò attuazione a Londra e fu l’inizio della fine. Tornato in Cile, il generale si trovò di fronte a una società civile posseduta da un’altra consapevolezza. Io stesso andai a testimoniare davanti al giudice Guzmán, il magistrato che lo accusò e di fatto gli prese le impronte digitali: mi raccontò che all’inizio lui stesso era stato un sostenitore del golpe e che proveniva da una famiglia di militari che riteneva Pinochet un salvatore. Fu solo quando studiò gli incartamenti giudiziari— tanti e incontrovertibili, con uccisioni, torture e rapimenti — che capì di non avere scelta. Probabilmente crimine peggiore fu l’Operazione Condor, coordinamento tra le polizie segre-te di Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Ecuador, Brasile. La rete arrivò a uccidere anche a Roma nel caso del democristiano Bernardo Leighton, e Washington. Ma il Cile era pieno di terrificanti ca-si di ammazzamenti extragiudiziari, carceri segrete e centri di tortura come la famigerata Villa Gri-maldi, in un contesto generale di repressione e terrore. Questi decenni furono un incubo che per mi-lioni di persone è ancora ieri. C’era chi sosteneva come Pinochet avesse tolto i ceppi all’economia cilena e lasciato spirare la brezza monetarista alla Friedman. Tuttavia i paladini del libero mercato probabilmente non credono che per attuare quelle politiche si debba torturare, uccidere o fare i dittatori. Ho sentito recentemente Isabel Allende dire che nessuno oggi tenterebbe il programma statalista di Unidad Popular dello zio. Ma Allende non ha mai ordina-to di far sparire nessuno, ed è morto con coraggio al suo posto, e tanto basta per fare la differenza. D’altro canto, l’attrazione di Pinochet per le privatizzazioni è stata spiegata quando i conti della fal-lita Riggs Bank di Washington hanno mostrato ingenti depositi segreti a suo nome. Questo, combi-nato con il cinismo dei suoi temporeggiamenti, ha reso fetido il suo nome. I cileni hanno restaurato la democrazia senza violenza e hanno applicato questa condotta anche a Pinochet. Ma c’è un prezzo per la lentezza e l’accuratezza di questi procedimenti. Molti cileni non sanno nulla dei loro cari spa-riti. Mai che Pinochet abbia dato un’informazione o abbia dimostrato pentimento. Come Milosevic (un altro che si è fatto beffe della giustizia sino alla morte) e Saddam è stato arrogante fino all’ultimo. Il Cile e il mondo se ne sono sbarazzati. Che almeno la sua rozza battaglia di retroguar-dia ci aiuti a dar vita ai tribunali internazionali che stanno nascendo. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ IN MORTE DI WELBY “La morte è il solo luogo dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro” Piergiorgio Welby parafrasando Leopardi La questione è se siamo oppure no padroni del nostro stare al mondo • Il Riformista del 22 dicembre 2006, pag. 2 Conversazione con Giulio Giorello. di Luca Mastrantonio Il primo pensiero di Giulio Giorello, che approva il testamento biologico e più che di eutanasia par-la di “libertà di suicidio”, è alle sofferenze di Welby. Aggravate dalla spettacolarizzazione della sua vicenda politico-mediatica: «Mi dispiace che la vicenda si sia conclusa in questo modo, con una tensione psicologica e fisica molto pesante, che si è riverberata anche sui familiari. Detto questo, sono contrario all’uso dei casi personali come bandiere. Nessuno ha diritto di sindacare sulla vita delle persone, entrando nel loro cuore. La vicenda è stata un po’ troppo spettacolarizzata, l’ho detto ai Radicali. Ovviamente rinnovo l’iscrizione alla fondazione Luca Coscioni, ma sono contrario a usare le sofferenze delle persone come vessillo. Come filosofo morale, sono portato a discutere e migliorare gli argomenti a sostegno di certi diritti che riguardano le nostre scelte future. Clienti dell’istituzione medica siamo tutti. Non stiamo parlando di Welby. O almeno non di lui soltanto. Stiamo parlando di noi». Giulio Giorello, ordinario di Filosofia della scienza all’università degli studi di Milano, rilancia e sviluppa alcuni concetti già espressi nel libro scritto con Veronesi, La libertà della vita: «O noi pen-siamo che non siamo padroni di noi stessi e del nostro corpo, e allora in questo caso rimettiamoci alla volontà dell’Onnipotente. Oppure, se siamo padroni del nostro corpo, non è una questione di legislazione. Il diritto a morire non è questione di legge. Non è che gli altri possano decidere per noi. Io questo diritto me lo prendo. Su questo punto differisco da Veronesi. Ovviamente ben venga-no legislazioni eventuali. Mi auguro che in questo Parlamento approvino il living will, ma nessuna legge ci può espropriare una nostra decisione. Lo stato non ha il diritto di impicciarsi di come vo-glio vivere e morire. Io e solo io sono il giudice delle mie azioni. Come diceva l’irlandese John Mi-tchel, se io ho saldato i miei debiti e provveduto ai miei figli, posso fare quello che voglio». Giorello torna su alcune critiche che gli sono state mosse da Avvenire. «Sostengono che io abbia teorizzato la libertà assoluta, ma non è vero. C’è un forte vincolo di rispetto verso altri. Dopo tante letture, battaglie culturali e politiche, ho ritrovato il mio eroe in un vecchio signore: Thomas Jeffer-son, il ribelle della Virginia, poi divenuto terzo presidente Usa. Questo per sgombrare anche il cam-po da quanti, a sinistra, prendono con il contagocce la grande democrazia americana. Jefferson di-ceva che un vicino di casa può credere in chi vuole e agire di conseguenza, purché non mi azzoppi o derubi. Ecco questo è il grande messaggio del libertarismo americano. Dico libertarismo e non libe-ralismo perché in Italia oggi si dicono tutti liberali. Le persone devono essere responsabili del pro-prio destino. Lo stato è come il guardiano notturno di Locke, deve controllare che non entrino i ladri in casa, ma non deve impicciarsi negli affari miei. I credenti obiettano che i diritti devono essere fondati su principi divini, ma io sono stanco di fondare o ridondare norme o codici morali, penso che si debbano migliorare quelle che ci sono». A Giorello non piacciono le battaglie vetero-anticlericali: «Purtroppo questa è una battaglia di re-troguardia, la difesa di un cittadino di uno stato, siamo costretti a combatterla perché siamo di fronte a un montante neofondamentalismo. Non so se sia peggio, a questo punto, quello islamico o quello papista. Io non ce l’ho con i cattolici ma, diciamo, con i papisti. Sia destra che sinistra fanno a gara per andare appresso al papa. Ratzinger teme che gli esseri umani decidano in base alle loro voglie, che io chiamo preferenze, come scrivono i teorici dell’economia del benessere come Stuart Mill e John Harsanyi». L’esempio negativo portato da Giorello è la Binetti, «è sconcio il discorso dell’obiezione di coscienza, ci sono ospedali laici dove una donna non può interrompere la gravi-danza perché sono tutti obiettori di coscienza». Per Giorello, Welby ha dato una «grande lezione» con il suo libro e le lettere, quella a Napolitano e quella ai direttori. «Sono state azioni ammirevoli, perché penso alla sofferenza, fisica e psicologica, che ha avuto. Mi sento schiacciato dall’idea di quanto deve essergli costata». Tornando alle leggi, Giorello sostiene la posizione di Giuseppe Pisapia sul living will, ossia il te-stamento biologico, andando oltre alcuni rischi dell’eutanasia, fermo restando che considera il dirit-to al suicidio inalienabile: «Un living will potrebbe eliminare alcune perplessità anche legittime sull’eutanasia. Mi riferisco al rischio dell’abuso eventuale dell’eutanasia su coloro che non sanno esprimere in modo chiaro la propria volontà. Non amo l’eutanasia passiva e l’idea che qualcun altro decida per me. E poi ci sono casi di minori, bambini malformati e simili». Una legge con il living will «liberalizza» il paese, continua Giorello, è «una buona prospettiva ri-formista. Ma non basta. Quando si ha a che fare con uomini e donne adulte, lo Stato non ha il diritto di mettere le sue zampacce. Anzi, come diceva Cromwell, non deve mettere le sue adunche unghie nella coscienza dell’individuo. Chi è religioso e vede la vita come un dono di Dio, come un affitto, scelga pure di soffrire, anche stoicamente. È un diritto sacrosanto, come è sacrosanto e inalienabile il diritto di scegliere diversamente. Non c’è burocrazia della morte che tenga, la scelta del vivente è libera. La modernità si apre con una battuta del filosofo ebreo e olandese Spinoza: a nulla pensa meno che alla morte l’uomo saggio, ma la sua è una meditazione non della morte bensì della vita. E Welby ha lottato per la vita, con coraggio, non possiamo che riconoscerglielo, con grande affetto e solidarietà. E soprattutto rispetto». @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ Finanziaria IL COLPO DI SPUGNA SCUOTE L’UNIONE • La Stampa.it del 20 dicembre 2006 di Amedeo La Mattina Le tracce partono dal Senato e arrivano a Palazzo Chigi. «Ma a Palazzo Chigi mi giurano e spergiu-rano che è stato un errore materiale. Io però so per certo che quell’emendamento Fuda uscito dal portone di Palazzo Madama è entrato dalla finestra del governo. Chi è stato? Se lo sapessi lo stroz-zerei con le mie mani». Talleur nero con bordini rossi, Anna Finocchiaro è persona informata dei fatti: forse sa ma non può dire perchè sospetti e sospettati portano al gruppo dell’Ulivo che lei pre-siede. Non si dà ancora pace la Finocchiaro su come sia finita nel maxi-emedamento della Finanzia-ria quella norma che retrodata la prescrizione per i reati contabili e amministrativi commessi da pubblici amministratori. E non è l’unica ad essere infuriata. Anche il Presidente della Repubblica ha puntato la sua attenzione sul caso. Lunedì ha ricevuto al Quirinale Romano Prodi e oltre a sollecita-re che venisse subito annunciata la seduta del consiglio dei ministri nella quale sarà licenziato il de-creto che pone riparo al «pasticcio», ha chiesto al premier chi ne fosse stato l’autore. Prodi ha tergi-versato, evitando una risposta diretta. «Anche il sottosegretario Micheli - racconta il capogruppo dell’Udeur alla Camera, Mauro Fabris - è fuori dalla grazia di Dio. Ce l’ha con il ministro Padoa-Schioppa, che fa tanto lo scienziato, e poi gli passano sotto il naso cose del genere». Più che un giallo, sembra una vicenda pirandelliana, con uno, nessuno, centomila indizi che rimbalzano dai Ds alla Margherita e viceversa, senza una rispo-sta definitiva. E c’è chi invita a guardare dentro il suo stesso partito. «Chi è stato? Io lo so: è stato “Zorro”», dice il senatore Manzione, della Margherita. E chi è «Zorro»? «Luigi Zanda che si è mos-so su mandato dei senatori calabresi della Margherita e dei Ds». E il nome di Zanda rimanda a quel-lo di Rutelli tirato in ballo dai leghisti che parlano di norma «salva-Rutelli», suscitando una sdegna-ta reazione del vicepremier. Ma Zanda, vicecapogruppo margheritino dell’Ulivo, è così potente da inserire una norma che era stata cassata dalla cabina di regia del Senato? «Urca, è un uomo di Ru-telli e dell’Opus Dei! Figuriamoci - dicono gli informatori dei Ds - se non ha amici nelle alte sfere ministero dell’Economia! Chissà se Paolo De Ioanna ne sa qualcosa...». Ecco chiamato in causa via XX Settembre. In effetti, risulta che il capo di gabinetto di Tps, De Ioanna si sia rivolto al sottose-gretario Enrico Letta per fargli presente che Zanda stava insistendo molto: «Che dobbiamo fare?». «Quella norma deve rimare fuori», è stata la risposta di Letta. Ma nella notte di lunedì, 11 dicembre, quella norma una manina l’ha infilata là. Il punto rimane: chi sarebbe stato il terminale di Zanda al tavolo di Palazzo Chigi. Il venticello caldo delle insinuazioni fa volare in aria il nome di Gianpaolo D’Andrea, sottosegretario ai rapporti con il Parlamento. Ma D’Andrea, con la fedina penale pulita, insiste sulla teoria dell’errore materiale. «Non avete idea con quale concitazione si scrivono i maxi-emendamenti, fino a notte fonda, con una montagna di carte sui tavoli. Magari un funzionario, sbagliando, ha messo quell’emendamento, che è diverso da quello originario di Fuda. E alla fine, in mezz’ora, chi si legge tutta quella roba per vedere se c’è qualcosa che non va? Si sta montando una tempesta in un bicchiere d’acqua». Ecco, ritorniamo al senatore calabrese Fuda. Si era ipotizzato l’interesse di amministratori calabresi, del quale si era fatto latore il governatore Agazio Loiero. Il presidente della Regione, qualche gior-no prima di quella notte, era andato da Romano Prodi: il veleno delle supposizioni riporta la voce di un pressing sul premier affinché quella norma venisse inserita. Anche perché, se così non fosse sta-to, Fuda non avrebbe votato la fiducia sulla Finanziaria. E la crisi della giunta calabrese non si sa-rebbe risolta. Andiamo da Fuda. Chi è stato? La prende alla larga. Dice che a volere una nuova re-gola garantista per i reati contabili sono «decine di migliaia di amministratori locali». «Secondo voi l’Anci è estranea a tutto questo?», lascia cadere lì il senatore calabrese. L’Anci di Domenici? La palla ora è dall’altra parte del campo: i calabresi lasciano filtrare il sospet-to su ambienti Ds. Dicono che anche il ministro Vannino Chiti o perfino il viceministro Vincenzo Visco potrebbero essere i colpevoli. «E se qualcuno del governo ha voluto mettere la versione “col-po di spugna” per affossare definitivamente la versione garantista di Fuda?», si chiede il sottosegre-tario ai Rapporti col Parlamento Naccarato. Il giallo si infittisce, il colpevole non salta fuori. E il Capo dello Stato aspetta ancora una risposta. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ BASTA TECNICI RISERVE DELLA REPUBBLICA, TORNI LA POLITICA Perché le parole di Napolitano possono essere il riferimento per una svolta. • Il Foglio del 22 dicembre 2006, pag. 2 di Enrico Cisnetto Non c'è la melensa retorica ciampiana, né tantomeno il rischio di un rigurgito di antipolitica, nelle parole usate da Giorgio Napolitano per sanzionare un sistema politico capace di produrre un mo-stro come la Finanziaria 2007. Il suo allarme per la tenuta delle istituzioni, per il paese spaccato a metà, per la logica della contrapposizione applicata sempre e comunque, per un declino che non trova argine è stata fin dal suo insediamento la cifra che il capo dello stato ha voluto dare al setten-nato, non semplicemente esecrando e auspicando, ma assumendo il dato come uri problema poli-tico da risolvere. Già, perché di Napolitano si possono avere opinioni le più diverse, ma su una sua caratteristica occorre convenire: trattasi di un uomo politico. Ed è proprio di personalità politiche di rilievo, oltre e prima ancora che di classe dirigente di qualità, che l'Italia difetta da ormai qua-si,una generazione. Nella fase di transizione tra la Prima e la Seconda Repubblica ci siamo decisi a bere quella pozione magica che si chiama "governo dei tecnici" - il desiderio della quale ardeva negli italiani da almeno un decennio prima - e che si è puntualmente rivelata una medicina pallia-tiva, quando non un potente veleno. Pur non avendo nulla di "tecnocratico", la stessa "discesa in campo" di Silvio Berlusconi - come anche la sua "permanenza in campo" - assomiglia al genere, non fosse altro per la reiterata negazione della politica (il "teatrino"). Ma lo stabilizzarsi del bipo-larismo -purtroppo nella versione "bastarda" all'italiana - dovuto alla metamorfosi dello stesso Ca-valiere da soggetto transitorio a dato permanente (fino a quando?) del sistema politico, e il falli-mento dei tecnici prestati al governo - last but not least il ministro Tommaso Padoa-Schioppa - sembravano in qualche modo aver seppellito le illusioni dell'esistenza di una "scorciatoia". Certo, Carlo Azeglio Ciampi ha fatto il ministro, il premier e il presidente della Repubblica senza mai es-sere passato al vaglio elettorale. E infatti, a quel limite della sua parabola istituzionale è corrispo-sto una "fragilità" che gli ha sempre impedito di incidere politicamente, tanto che quando si ascri-veranno le responsabilità della "maledetta" Seconda Repubblica, a lui ne toccherà una fetta non pic-cola. Le polemiche intorno a LCdM Tuttavia, si sperava che il capitolo "riserve della Repubblica" si fosse definitivamente chiuso, mentre si potesse riaprire quello delle palestre - sempre più in disuso - formative di classe dirigen-te. Invece, le polemiche intorno al "mai dire mai" di Luca Montezemolo circa l'ipotesi di "entrare in politica" (espressione orrendamente qualunquista) - polemiche ridìcole, visto che sono state ali-mentate da un ministro dell'Economia che nessuno ha mai votato - e il ripetersi a scadenze sempre più ravvicinate del "toto Monti" (che fa l'ex commissario Ue, "scende in campo"?), hanno ridato fiato al tormentone sull'arrivo di un possibile "cavaliere bianco" per la malconcia politica italiana. Viceversa, le nomine con cui Mario Draghi ha definitivamente chiuso con il passato prossimo e remoto di Bankitalia fanno pensare che l'opera di "supplenza" svolta dalla banca centrale fin dagli anni Sessanta, con Guido Carli, delle scelte politiche e di governo, non sia più attuabile. Si dirà: bene, trattavasi di anomalia. Peccato, però, che con l'attuazione del principio di Cari Schmitt, se-condo cui "è sovrano chi decide nello stato di necessità", Bankitalia poteva permettersi - avendo le leve della politica monetaria, una dirigenza di grande levatura anche culturale, la vigilanza crediti-zia, la leadership della ricerca economica e un'indipendenza universalmente riconosciuta - di con-correre a far sì che questo paese vivesse i suoi anni migliori. E peccato che di quel tipo di supplen-za - una consulenza "affidabile", non una surroga - l'Italia abbia ancora estremamente bisogno, certo più di prima. Ma se si tende a considerare la Bce come "altro" e non come la somma delle banche centrali nazionali, svilendo così Bankitalia, se si consente che il legislatore e le corti di giustizia le tolgano la discrezionalità tecnica (non arbitrarietà) in materia di vigilanza creditizia, se la si lascia trasformare in un authority qualsiasi, e se infine la si priva per regole assurde (e qualche scoria i-conoclasta verso il passato) di uomini come Pierluigi Ciocca, che da intellettuale di razza ha con-tribuito a farne una "grande scuola", allora è del tutto evidente che si sarà gettata la supplenza "buo-na" (quella di un'istituzione) a favore di quella cattiva (quella del potente, del riccastro, del-l'accreditato mediaticamente) o, peggio, a favore del vuoto assoluto. Allora, riassumendo, l'Italia per riscattarsi necessita di leadership politiche e di competenze tecni-che. Le prime devono nascere e misurarsi nell'agone della lotta politica e delle idee, che ha come corollario il consenso popolare, paesaggio del tutto inadatto per signorini con la puzza sotto il naso e disabituati a rischiare. Le seconde, perché tali rimangano e non ingenerino pericolose confusioni di ruoli, richiedono luoghi e istituzioni capaci di farsi rispettare per la loro forte credibilità e asso-luta autonomia di giudizio e azione. Insomma, non abbiamo (più) bisogno di politici, magari trave-stiti da tecnici, costruiti nelle botteghe della comunicazione, ma di leader e di statisti che siano ma-turati in partiti fortemente identitari. La Politica con la maiuscola, per capirci. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ BOSELLI: A MARZO LA CONVENZIONE NAZIONALE DEI SOCIALISTI "Questo nostro confronto sul futuro – ha detto il segretario dello Sdi, Enrico Boselli, aprendo i lavo-ri del comitato esecutivo del partito all'Hotel Palatino a Roma - deve coinvolgere tutta l'area sociali-sta e aprirsi alla partecipazione di tutti i soggetti interessati al liberal socialismo. Noi non pensiamo affatto di chiuderci in noi stessi, coltivare unicamente la nostra importante tradizione, discutere solo sulla nostra storia. Manterremo, innanzi tutto, un rapporto politico speciale con i radicali e seguite-remo a mantenere vive le idee guida della Rosa nel Pugno. C'impegneremo a realizzare una piattaforma di obiettivi per le prossime elezioni amministrative che costituiscano un forte richiamo per nuove energie. Lo faremo con una Convenzione Nazionale che convocheremo nella prossima primavera e che dovrà essere anche l'occasione per rafforzare il grup-po dirigente nazionale del partito. Le liste dello SDI dovranno essere aperte a tutta la famiglia socia-lista, ai radicali che vorranno parteciparvi, a tutti i liberal socialisti. Noi siamo comunque interessati a qualsiasi processo che tenda ad aggregare i riformisti e non abbiamo mai puntato a isolarci nella pura difesa della nostra identità socialista. Nel perseguire un'aggregazione delle forze riformiste, noi non abbiamo mai perso di vista il problema della riunificazione della famiglia socialista. Più volte abbiamo detto che ciò deve e può avvenire solo con una chiara scelta a sinistra. Non è possibile, in-fatti, avere un partito socialista di nome e di fatto che sia alleato con le destre. È arrivato però il momento di chiudere antiche rivalità, vecchie polemiche e divisioni artificiose per ritrovare tutti in-sieme la via maestra dell'unità socialista. Questo è del resto un impegno che non abbiamo mai ab-bandonato e che nel futuro vogliamo rafforzare guardando solo al futuro. Non abbiamo mai consi-derato - ha concluso il leader socialista - il rapporto con i radicali nella Rosa nel Pugno come un o-stacolo all'unità socialista”. SDI ALLE AMMINISTRATIVE, MA FONDAZIONE PER LA ROSA NEL PUGNO Lo Sdi correrà da solo alle amministrative. Lo ha confermato Enrico Boselli aprendo i lavori del comitato esecutivo del suo partito. “La Rosa nel Pugno, dopo le elezioni - ha osservato il leader so-cialista – è entrata in una fase critica e ciò è dovuto al fatto che non siamo riusciti a trasformare u-n'alleanza programmatica ed elettorale a livello nazionale in una forza politica vera e propria”. E questo in particolare a causa del “modo diverso” in cui radicali e socialisti “guardano alla politica e alle istituzioni”. “Questa differenza - ha aggiunto - non era colmabile con un puro e semplice compromesso”. “Tutto ciò - ha proseguito - non ci deve portare a considerare che le idee di fondo alla base della Rnp non continuino ad avere una propria validità. Noi, quindi, ci proponiamo di prendere realisti-camente atto che la Rnp mantiene una sua validità nei suoi termini iniziali, ovvero quelli di un'alle-anza programmatica ed elettorale. Non è possibile proiettare la Rnp, nelle diverse realtà locali. Non ci sono strutture radicali con le quali si possano coordinare le strutture socialiste”. “Per questo motivo alle prossime elezioni amministrative ci presenteremo con il simbolo dello Sdi. Tuttavia - ha concluso il leader socialista - per mantenere vivo il progetto, pensiamo di creare una fondazione che abbia come obiettivi fondamentali quelli della difesa della laicità e dell'ampliamento dei diritti civili, ma che possa anche al suo interno confrontarsi sulle questioni che riguardano un nuovo modello di partito”. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ torna in alto |