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MORIRE SENZA SOFFRIRE
info 10.12.06

n.zoller@trentinoweb.it
INFO SOCIALISTA 10 Dicembre 2006
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
tel. 338-2422592 – fax 0461-944880
Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it
Quindicinale - Anno 3°


SOMMARIO:

• UN LIBRO, per cominciare: Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona
• COME USCIRE DAL FIASCO IRACHENO
• PARTITO SOCIALISTA EUROPEO - BOSELLI: APRIRSI AI DEMOCRATICI SENZA SMARRIRE L'IDENTITÀ
• SOCIALISTI, PARLATE ADESSO O TACETE PER SEMPRE
• I LEADER, IL POPOLO E NIENTE IN MEZZO
• IL GRANDE CENTRO PUÒ ATTRARRE UN ELETTORE SU TRE
• IL PARTITO DEL GIÙ LE TASSE
• LEGGE LAICA PER I PROF. DI RELIGIONE

• MORIRE SENZA SOFFRIRE



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UN LIBRO, per cominciare (“Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges)

Autore: Joseph E. Stiglitz
Titolo: La globalizzazione che funziona

Einaudi, 336 pagine, 16,50 euro


La globalizzazione economica non è di per sé un processo negativo. Anzi: è una forza che stimola la crescita e migliora le condizioni di vita di molti poveri. Il problema è il modo in cui viene attuata, che favorisce solo i paesi ricchi. Il premio Nobel Stiglitz prova a tracciare la via verso una globaliz-zazione giusta, che passa per il ripensamento degli accordi commerciali, delle politiche economi-che, degli aiuti internazionali e del sistema finanziario globale. La tesi di fondo è: sì alla globalizza-zione, ma nel rispetto della democrazia e della giustizia sociale.


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COME USCIRE DAL FIASCO IRACHENO

• La Stampa del 7 dicembre 2006, pag. 1
di Loretta Napoleoni

Ieri l'America che conta ha tirato un sospiro di sollievo. Per la prima volta in quasi quattro anni Wa-shington è convinta di avere un piano d’azione per uscire dal pantano dell’Iraq. A riportare la spe-ranza nei corridoi del potere è stato il rapporto Baker-Hamilton, il gruppo di studi misto sull’Iraq messo in piedi dal Congresso Usa e atteso da democratici e repubblicani come un nuovo messia. È infatti dal febbraio del 2003 che nella capitale statunitense l’incertezza e la tensione si tagliano con l’accetta.
È così da quando alti ufficiali del Pentagono, diplomatici del Dipartimento di stato, persino vecchie spie della Cia, s’interrogano preoccupati sui pericoli della guerra in Iraq. Eppure questi timori sono stati resi pubblici soltanto due giorni fa da Robert Gates, ex membro del gruppo di studi misto sull’Iraq, e capo in pectore del Pentagono. Preludio del rapporto Baker-Hamilton, nel discorso al senato Gates non ha esistato a dichiarare che l’America sta perdendo la guerra in Iraq.
Sulla scia di queste sconcertanti ammissioni, il rapporto Baker-Hamilton altro non è che il canovac-cio della nuova politica estera americana. Mentre suggerisce un ritiro delle truppe moderato e gra-dule, senza una tabella di marcia prefissata, sollecita un atteggiamento duro nei confronti del primo governo iracheno democraticamente eletto, un governo debole perché tenuto in ostaggio da parla-mentari sunniti e sciiti, quali Moqtada al Sadr, che agiscono come signori della guerra su un territo-rio dilaniato da lotte fratricide. Ma la grande innovazione è l’invito ad aprire il dialogo con Iran e Siria senza abbandonare i fedeli alleati sauditi e giordani, a coinvolgere quindi paesi limitrofi che non si piacciono con il pretesto di porre fine al conflitto iracheno.
Guidato dal realismo diplomatico kissingeriano, James Baker, presidente del gruppo di studi, «con-sigliere» della famiglia Bush, l’uomo delle situazioni impossibili che si occupò del controverso ri-conteggio dei voti della Florida, ha presentato un capolavoro di real politk statunitense. Ha cercato di trasformare il fiasco iracheno in una piattaforma diplomatica, gestita da Washington, da dove riorganizzare le alleanze strategiche dell’intera regione. Mescolando magistralmente le carte in ta-vola ha però dato a tutti l’illusione di aver in mano quelle vincenti. L’uscita americana dal conflitto iracheno diventa quindi lo spunto per seppellire antiche asce di guerra e riallacciare vecchie e nuove alleanze, senza parlare poi dell’occasione di risolvere la questione palestinese, anch’essa ampia-mente menzionata nel rapporto. La riorganizzazione diplomatica del Medio Oriente deve quindi av-venire all’insegna della nuova America, non più potenza egemone, ma alleato dei governi medio-rientali emergenti, un alleato che ha già rimosso l’odioso Saddam e la minaccia che questo rappre-sentava per tutta la regione, e che adesso, a lavoro ultimato, è giusto esca di scena.

Sulla carta la proposta sembra essere vincente. Nessuno vuole ai propri confini uno Stato dilaniato dalla guerra civile o, peggio, un conglomerato di stati e staterelli falliti, tra i quali un califfato isla-mico di stampo talebano. Un Iraq smembrato, disossato, privo di un governo centrale, fa paura a tut-ti. Si pensi solo all’ostilità di Moqtada al Sadr nei confronti di Teheran, che dopo l’assassinio del padre da parte di Saddam Hussein, abbandonò la famiglia per sostenere il moderato ayatollah Ali al Sistani. O al ruolo che il califfato jihadista giocherebbe nello scontro tra le forze saudite dell’alqaedismo e il regime di Rihad. Persino i Curdi sarebbero tentati di mettere sotto pressione la Turchia nella speranza di annettere il Kurdistan turco mentre Siria e Giordania, già oberate dal flus-so dei rifugiati, finirebbero per essere invase dai profughi. «C’è il rischio che tutta la regione piombi nel caos», si legge infatti nel rapporto. Ascolterà Bush i nuovi consiglieri? Sarà in grado di cogliere la finezza della proposta? È questa la domanda che a Washington si pongono un po’ tutti. Peccato che il vero ostacolo all’attuazione del piano Baker-Hamilton non sia la testardaggine di George Bush, né l’istinto guerrafondaio di Dick Cheney, ma la forza economica e militare dei ribelli ira-cheni, lasciati fuori dalle future alleanze. Un rapporto segreto commissionato dalla Casa Bianca lo scorso giugno sostiene che le forze sovversive in Iraq ormai si autofinanziano razziando l’economia di guerra del paese. Addirittura si legge che hanno a disposizione un surplus che potrebbe essere utilizzato per avviare attività terroriste all’estero. Il rapporto Baker-Hamilton non menziona l’indipendenza economica dell’insurrezione dai vecchi sponsor. Agli architetti non interessa che I-ran, Siria e Arabia Saudita non potranno porre fine alla guerra civile in Iraq chiudendo i rubinetti del denaro ma soltanto ricorrendo alla forza e forse anche all’intervento militare. Ciò che preme all’America non è risolvere il conflitto ma uscirne a testa alta e cosi facendo ritessere la complessa ragnatela di alleanze nel Medio Oriente.
In una web jihadista ieri sera è apparso un commento che ben riassume la realtà irachena: «Combat-teremo gli apostati musulmani come abbiamo combattuto gli americani». La nuova America, come la vecchia, continua a non capire che fino a quando l’insurrezione avrà a disposizione sufficiente denaro, in Iraq con o senza le truppe americane non ci sarà mai la pace e senza la pace le nuove al-leanze dureranno poco. Questa triste verità il rapporto Baker-Hamilton ha sapientemente evitato di scriverla, nessuno a Washington, dopo quasi quattro anni di guerra, riuscirebbe a digerirla.

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PARTITO SOCIALISTA EUROPEO - BOSELLI:APRIRSI AI DEMO-CRATICI SENZA SMARRIRE L'IDENTITÀ

"Il nostro socialismo può aprirsi alle forze progressiste democratiche, ai democrats americani senza smarrire la sua identità, anzi rendendo più forti le sue alleanze politiche e più efficaci i suoi pro-grammi". Lo ha detto il leader dello Sdi, Enrico Boselli, nel suo intervento nella giornata conclusiva del congresso del Pse ad Oporto, che ha visto la rielezione a segretario di Poul Rasmussen. Al cen-tro dei lavori l'apertura al futuro Partito democratico: Fassino spinge, la Margherita ribadisce il no all'ingresso del Pse, Romano Prodi media e prende tempo.
I PROBLEMI NON SONO A OPORTO MA A ROMA.
"Il problema del Partito democratico non è a Oporto ma è a Roma. Se il Pd chiedesse di aderire al Pse saremmo tutti felici, le porte sono aperte". Enrico Boselli, leader dello Sdi, a Oporto per parte-cipare al congresso del Pse, parla delle difficoltà tra Ds e Margherita sulla collocazione internazio-nale del nuovo partito e spiega che il cambiamento dello statuto del Pse, deciso oggi, non ha a che fare con le vicende italiane.

"Il problema del Partito democratico non è a Oporto ma è a Roma. Se il Pd chiedesse di aderire al Pse saremmo tutti felici, le porte sono aperte". Enrico Boselli, leader dello Sdi, a Oporto per parte-cipare al congresso del Pse, parla delle difficoltà tra Ds e Margherita sulla collocazione internazio-nale del nuovo partito e spiega che il cambiamento dello statuto del Pse, deciso oggi, non ha a che fare con le vicende italiane.
"Lo statuto si cambia perché ci sono dei partiti nel Pse che non hanno nella loro definizione la paro-la socialista, socialdemocratico o laburista, tra questi alcuni partiti dell'Est europeo e anche i Ds, ma nulla toglie - spiega - che questa modifica possa servire anche per il nascente Pd".
Boselli sottolinea, però, che le difficoltà del Pd non si risolvono qui al congresso del Pse, quindi ri-badisce che i rapporti tra lo Sdi e i Ds sono "buoni, è con la Margherita di Rutelli che ci sono delle vere difficoltà. Per esempio oggi al Senato è stato approvato un ordine del giorno sulle unioni di fat-to, non ho capito se si tratta di un passo avanti, ma ho l'impressione che sia un passo indietro. Da sei mesi aspettiamo che il governo faccia una proposta per regolare le unioni di fatto e prima o poi te-mo che gli italiani ci chiederanno qual è la differenza tra centrodestra e centrosinistra. Faccio questo esempio per spiegare alcune delle difficoltà enormi che noi abbiamo con la Margherita, ma io capi-sco anche che Rutelli deve tener conto della concorrenza a destra di Casini proprio sui temi etici".
Il leader dello Sdi tiene poi a sottolineare quanto il Pse sia un partito aperto e che si rinnova: "Non è un partito ortodosso, non credo che la socialdemocrazia sia vecchia, si sta rinnovando e la Francia ne è la dimostrazione. Inoltre, non è da sottovalutare l'importanza della presenza per la prima volta ad un congresso del Pse del presidente dei democratici Usa, Howard Dean".


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SOCIALISTI, PARLATE ADESSO O TACETE PER SEMPRE

• Il Riformista del 27 novembre 2006, pag. 1
di Paolo Franchi

Dovessimo scommettere oggi, diremmo, assumendoci un rischio notevole, che il Partito democrati-co, in un modo o nell'altro, si farà. Tutto sta, però, nello stabilire in che modo. E in questa impresa i tre interventi paralleli dei suoi più autorevoli sostenitori (Piero Fassino sull'Unità, Massimo D'Ale-ma su Repubblica, Francesco Rutelli sul Corriere) ci aiutano sì, ma fino a un certo punto. Dalle loro parole esce ben chiaro, infatti, perché considerano la formazione del Partito democratico un compi-to decisivo e anche relativamente urgente, nel senso che vogliono fare di tutto per vederlo in campo nelle elezioni europee del 2009: ulteriori rinvii sarebbero forse pericolosi per le sorti di governo e maggioranza, di certo letali non solo per il futuro del partito in questione, ma anche per quello dei gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita che, dopo vari e alterni tentennamenti, su questa prospet-tiva hanno finito per puntare tutto o quasi. Meno chiari, invece, continuano a risultare, almeno ai nostri occhi, i rimedi escogitati da un lato per superare le persistenti resistenze (spesso passive, ma sempre più frequentemente anche attive) che un simile disegno incontra in zone relativamente am-pie degli stessi riformisti del centrosinistra; dall'altro per accendere, pure fuori del ceto politico pro-fessionale o semiprofessionale, quell'interesse e, diciamolo pure, quella passione democratica e ci-vile nella persistente latitanza dei quali è ben difficile immaginare che il progetto democrat possa prendere corpo. Almeno se il progetto in questione ha l'ambizione di dare vita a un soggetto politico a vocazione maggioritaria, e non solo di sommare due debolezze nella speranza che, mettendole in-sieme, assomiglino a qualcosa di simile a una forza.
Se è di una grande ambizione che stiamo parlando, allora è di un confronto aperto e, perché no, du-ro che c'è bisogno. Di un confronto il cui esito non può essere stabilito in partenza, e che deve inve-stire senza reticenze anche molte questioni in questi anni rimosse, o più prosaicamente nascoste sot-to il tappeto. Una, su tutte, ci sta a cuore, e va sotto il nome di questione socialista. O, se preferite, di questione del socialismo. Nel senso del socialismo europeo, si capisce, ma pure del socialismo italiano. Perché è impossibile venire a capo del problema della collocazione internazionale (sempre che da una parte non ci si limiti ad osservare che, grosso modo, tutti i riformisti europei sono nel Pse o gravitano da quelle parti, e dall'altra, come ha detto Rutelli, che il Pse è un interlocutore im-portante, ci mancherebbe, ma lo sono anche i democratici americani e il Partito del Congresso in-diano) se non si discute apertamente su che cosa dovrebbe avere a che spartire, il nuovo partito, con il socialismo italiano, e cioè con qualcosa che, nella sinistra e nel centrosinistra di questo paese, un suo peso ce l'ha, forse persino superiore a quello dei teodem.
Può darsi che esageri, Peppino Caldarola, quando scrive su questo giornale di un revival socialista. Di certo, la parola socialismo non è più una parola impronunciabile e maledetta. Quelli del corren-tone (tutta gente che quindici anni fa, contro l'idea di un esito socialista della lunga crisi del Pci era disposta a tutto) quasi portano in trionfo Giovanni Pieraccini, Fausto Bertinotti riscopre, conversan-do con il direttore del Riformista, l'attualità di Riccardo Lombardi. Non va bene: va benissimo, tan-to di guadagnato per tutti se la nostra sinistra cosiddetta radicale, cosiddetta antagonista, cercasse, magari con qualche approssimazione, di prendere le fattezze di quella, che sotto ogni altro cielo eu-ropeo, sarebbe una sinistra socialdemocratica. Ma è l'altro socialismo, il socialismo riformista, il so-cialismo liberale, il socialismo di governo, la destra socialista, se volete, che sta nei Ds come nella Rosa (ormai alla stregua di un separato in casa) come nei partitini e nei gruppi della diaspora, di cui fatichiamo, proprio adesso che la sua storia non è più tabù, a sentire la voce. Credono, questi rifor-misti, che sia possibile imprimere un loro segno al partito nascituro? O immaginano piuttosto che ci sia di nuovo spazio e campo (i socialisti in Italia hanno sette vite come i gatti) per un'autonoma pre-senza politica ed elettorale socialista? Di questo, più che delle mille e una forme possibili di una lo-ro stentata sopravvivenza di ceto nel prossimo futuro, piacerebbe sentirli apertamente discutere. Verrebbe da dire: parlino adesso, o tacciano per sempre.

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I LEADER, IL POPOLO E NIENTE IN MEZZO

• Corriere della Sera del 5 dicembre 2006, pag. 1
di Ernesto Galli della Loggia

Abbandonando il tono spocchioso di tante occasioni precedenti, la sinistra ha riconosciuto dopo la manifestazione di domenica che anche la destra ha dietro di sé un popolo, «un popolo vero». Tutta-via questi riconoscimenti, pur doverosi, non cancellano i problemi di rappresentatività che la Casa delle Libertà continua ad avere con la società italiana, e che la stessa manifestazione di San Gio-vanni ha messo in luce.
Sabato, infatti, nella piazza romana c'era il popolo della destra così come naturalmente c'erano i suoi capi. Ma tra l'uno e gli altri sembrava esserci il nulla. Sul palco o nelle sue vicinanze era assente qualunque rappresentanza significativa di questo o quel pezzo di società italiana. Non solo non c'e-rano gli attori e i cantanti o gli intellettuali, ma neppure esponenti dell'industria e della finanza, del-l'alta burocrazia, del mondo del lavoro, dell'universo delle professioni: nulla, nessun nome.
Erano assenti perché la destra riesce sì a portare alle urne e a mobilitare il «popolo», cioè una massa variegata di cittadini, ma tuttora ha una grandissima difficoltà a organizzare la società, nel senso di integrarsi stabilmente con questo o quello dei suoi settori, dei suoi «ambienti», fino ad assumerne un'organica rappresentatività. Ha ragione Giulio Tremonti quando, riferendosi all'incontro di D'A-lema e della sua Fondazione con i vertici imprenditoriali e finanziari avvenuto in contemporanea al comizio di Roma, afferma: «Noi in piazza con il popolo, la sinistra rifugiata nei salotti», ma sbaglia a ritenerlo un titolo di merito. Per governare, infatti, è necessario anche ascoltare i «salotti», in certo senso perfino rappresentarli. Vantarsi del contrario manifesta un disprezzo per le élite che andrà be-ne per il Venezuela, forse, ma non per l'Italia.
Il Paese moderato e antagonista alla sinistra, a cui nel 1994 la destra si è proposta di dare voce, ave-va sostanzialmente nel suo Dna storico due sole culture della rappresentanza sociale: quella cattoli-ca da un lato e quella di origine fascista dall'altro, vissute rispettivamente nell'esperienza della Dc e del Msi. Divenute entrambe improponibili per il nuovo soggetto politico espresso dalla Cdl, si trat-tava di elaborarne una nuova. Ma proprio qui si è palesato uno dei principali limiti della leadership di Berlusconi. Egli è stato incapace di elaborare una qualsiasi forma di rappresentanza sociale e di cultura della mediazione, probabilmente perché politicamente sprovvisto di una qualunque vera idea forte.
La rivoluzione liberale è così rimasta una formula. Tutto si è fermato agli slogan e come partito (non come lista elettorale!) Forza Italia è rimasta un partito di plastica. Localmente esso è presente solo con dei proconsoli di fiducia del capo, non di certo come insieme di quadri e di associati. Non organizza, non coagula nulla; non conduce se non raramente vere battaglie politiche; nelle elezioni amministrative mostra scarsissima capacità di attrarre personalità indipendenti diverse dagli im-prenditori. Al centro, poi, essa è ancora e sempre solo Berlusconi che, forte del suo strapotere e del suo carisma, impone a tutta la coalizione la propria evanescente cifra politica, fuori della quale c'è posto solo per il tradimento più o meno mascherato ovvero per gli inquietanti eccessi leghisti e/o mussoliniani. La destra dunque può anche essere elettoralmente plebiscitata, ma resta tuttora con-dannata a una vera e propria solitudine politica che rimanda direttamente a un'irrisolta solitudine sociale.

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IL GRANDE CENTRO PUÒ ATTRARRE UN ELETTORE SU TRE

• Corriere della Sera del 5 dicembre 2006, pag. 5
di Renato Mannheimer

Il mercato potenziale del «centro» corrisponde in teoria a circa un terzo dell'elettorato e racchiude soprattutto i cosiddetti «lontani dalla politica», che non si sentono né di destra né di sinistra. Dimi-nuisce, invece, il numero di quanti si dichiarano di centro (circa il 10%) e soltanto il 4-5% lo fa per motivi programmatici.

Aldilà delle schermaglie sulle singole questioni tra i diversi partiti e leader, l'intero scenario, a de-stra come a sinistra, è percorso da veri e propri movimenti tellurici, spesso sotterranei, volti alla ri-definizione dei caratteri dell'offerta politica nel suo insieme. Di qui, i progetti di unificazione più o meno organica delle forze rispettivamente presenti nelle due coalizioni, e, specialmente, l'ipotesi di (ri)costituzione del partito del «grande centro», che, più o meno esplicitamente, si rifarebbe alla tra-dizione democristiana. Ne hanno parlato, in termini più o meno convinti, Casini, Mastella, Follini e molti altri esponenti dell'area.

Quali sono le potenzialità di una forza siffatta? Allo stato attuale, è impossibile formulare una rispo-sta precisa, poiché essa dipende ovviamente dal sistema elettorale adottato. Con quello in vigore, il nuovo partito avrebbe certo poco spazio: proprio per questo i suoi promotori puntano ad una rifor-ma.
È possibile, tuttavia, tentare delle stime sulla base della autocollocazione spontanea degli elettori su un ipotetico continuum sinistra-destra. Le persone che si sentono di «centro» sono oggi assai meno di un tempo: poco più del 10 per cento dell'elettorato. In più, solo una parte minoritaria di costoro — circa il 4-5 per cento dell'elettorato — opta per questa posizione pensando al «centro» in termini politici e programmatici. La maggioranza di chi si definisce di centro tende in realtà a sottolineare in questo modo la propria «non appartenenza» all'uno o all'altro schieramento o, meglio, l'intenzio-ne di collocarsi al di fuori e lontano dalle questioni politiche che occupano quotidianamente i gior-nali e i notiziari televisivi. L'accentuato disinteresse per la politica li porta ad una scelta spesso con-siderata più «facile» e, al tempo stesso, forse, meno coinvolgente.
Da questo punto di vista, gran parte di chi si dichiara «di centro» può essere in buona misura assi-milato a chi, rispondendo al quesito sull'autocollocazione, rifiuta completamente di posizionarsi, di-cendo di non sentirsi né di destra, né di sinistra, né niente. Si tratta di più di un quarto dell'elettorato italiano: i cosiddetti «lontani dalla politica». La prossimità di chi si definisce «di centro» con chi è «lontano» è confermata anche dalla forte somiglianza dei caratteri demografici e socio-economici dei due gruppi. Nonché dal fatto che in entrambi, circa nella stessa misura, si trova la massima con-centrazione di cattolici praticanti.

Una forza politica di centro potrebbe ovviamente attrarre anche almeno una parte di quanti oggi di-chiarano di sentirsi di centrodestra o di centrosinistra. Ma è soprattutto l'insieme dei «centristi» e dei «lontani» a costituire il mercato elettorale potenziale. La conquista dei «lontani» appare però particolarmente difficile, anche se non impossibile. Da un verso, infatti, proprio per questa loro col-locazione, essi sono fortemente tentati dall'astensione. Dall'altro, almeno due terzi dei «lontani», va-le a dire il 15-17 per cento dell'elettorato, sono tali più per disaffezione o disillusione che per totale distacco o disgusto verso la politica e potrebbero quindi essere riconquistati da quest'ultima.
Il mercato potenziale del centro comprende dunque in teoria circa un terzo dell'elettorato. Tuttavia — è forse superfluo sottolinearlo — «potenziale» è assai diverso da «reale» e/o «acquisito»: per passare dall'uno all'altro occorre un'efficace azione di comunicazione, una campagna elettorale con-vincente e rassicurante, che dia l'impressione di una volontà unitaria, moderata (ma non priva di contenuti), capace specialmente di suscitare fiducia. In caso contrario, è l'astensione a prevalere.

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IL PARTITO DEL GIÙ LE TASSE

• La Stampa del 4 dicembre 2006, pag. 1
di Tito Boeri

Erano in tanti sabato a sfilare per le vie di Roma contro le tasse. Di Prodi, ma non solo: le proteste fiscali a cavallo fra due legislature non chiamano mai in causa un solo governo. Come Tremonti e Visco si contendono il merito del boom delle entrate, dunque dell’incremento della pressione fisca-le, nel 2006, così la rivolta contro le tasse non può che scaturire anche dalle leggi di bilancio della passata legislatura.
Le Finanziarie tra il 2002 e il 2005 ci hanno lasciato in eredità una crescita di due punti, dal 42 al 44 per cento, del rapporto fra spesa pubblica primaria e prodotto interno lordo. Il governo Berlusconi, in quegli anni solidamente al potere, ha obbligato tutti gli italiani, inconsapevolmente, a firmare una cambiale esigibile dal primo governo fiscalmente responsabile.
A differenza del suo predecessore, chi oggi siede al tavolo di Quintino Sella è abituato a onorare i debiti e, a parte l’operazione Tfr, evita di ricorrere a una tantum creative. Ma la Finanziaria 2007 non si limita a coprire i pagamenti lasciati in sospeso dal governo precedente. Fa lievitare la spesa pubblica e la pressione fiscale ben oltre quanto sarebbe necessario per riportare il disavanzo in linea con gli impegni presi a livello europeo. Questo significa che la spesa rischia ora di assestarsi a livel-li più alti in modo permanente, secondo un consolidato meccanismo di tax push per cui le spese si adeguano rapidamente alle maggiori entrate. Sarà ancora più difficile, dopo questa Finanziaria, in-vertire la rotta.
Sostiene Jean-Claude Juncker, forse il più longevo uomo politico pan-europeo, che «i politici sanno bene cosa devono fare, ma il problema è che non sanno come farsi rieleggere una volta che hanno fatto queste cose». Se si rilegge il primo Documento di Programmazione Economica del governo Prodi e poi si guardano le cifre della Finanziaria viene da dargli ragione. Il Dpef è consapevole del fatto che l’unico modo per risanare i conti pubblici risiede nell’abbassare il rapporto fra spesa pub-blica e pil. Identifica le aree cruciali per interventi di contenimento della spesa. Ma la Finanziaria razzola male, anzi malissimo. Dopo il primo passaggio in Aula, non solo non riduce le spese, ma addirittura le aumenta e non di poco (fino a 6,5 miliardi secondo i calcoli riportati su www.lavoce.info) rispetto a quanto sarebbe accaduto in assenza della manovra e in rapporto al pro-dotto interno lordo, al netto del ciclo economico. E nuove spese si stanno aggiungendo in questi giorni. Il tratto di mare fra il sapere cosa occorre fare e il metterlo in pratica è ampio e profondo come nella frase del primo ministro lussemburghese. Dobbiamo perciò rassegnarci ad altri cinque anni con più spesa pubblica e più tasse? Forse no. Ci sono due fatti che ci fanno, timidamente, spe-rare che Juncker abbia torto. Il primo è che ci sono, in verità, molti politici che «non sanno cosa de-vono fare». I Dpef della passata legislatura ne sono l’esempio. Applicano la strategia degli annunci. «Vendono» imminenti quanto consistenti sgravi Irpef alle famiglie, tagli all’Irap pagata dalle im-prese e annunciano una lunga serie di misure non ancora definite nei loro contenuti e poi spesso i-nattuate. È una consapevole strategia dell’illusione. Viene perciò legittimo chiedersi se Berlusconi, quando era alla guida del governo, sapesse davvero «cosa bisognava fare». E dato che dal palco di Roma non si è udita una sola parola di autocritica sulla gestione dei conti pubblici nella passata le-gislatura, l’interrogativo rimane attuale. Questa è una discontinuità importante rispetto alla legisla-tura appena iniziata. Non basterebbe a farci sperare in qualcosa di meglio, se non ci fosse anche un secondo motivo per ritenere che il veterano Juncker abbia torto.

Il secondo fatto è la veemente reazione dell’opinione pubblica a una Finanziaria che fa aumentare la spesa e le tasse. In genere le ribellioni avvengono quando si tagliano le spese, soprattutto quando si intaccano gli interessi presidiati dal sindacato. Questa volta il sindacato è stato addirittura favorevo-le alla manovra, tranne che alla vigilia dell’accordo sul pubblico impiego. C’è stata, invece, la pro-testa, neanche troppo silenziosa, dell'elettore mediano, di cui è espressione anche la manifestazione di Roma. Le avvisaglie peraltro si erano già viste nelle ultime settimane di campagna elettorale, do-ve il centro-sinistra aveva perso quasi interamente il vantaggio nei confronti del centro-destra per-ché credibilmente descritto come «partito delle tasse».
Come rivelano i sondaggi d’opinione, è aumentata in Italia la percentuale di chi preferisce avere meno tasse e meno trasferimenti piuttosto che uno Stato che chiede di più offrendo di più al contri-buente. Tutto questo fa pensare che il clima sia cambiato nel Paese e che il gioco del rinvio ai poste-ri di decisioni difficili non possa continuare all'infinito. Se Prodi e il centro-sinistra vogliono conti-nuare a governare, se ambiscono a farlo per almeno due legislature, il tempo minimo per completare le riforme strutturali necessarie a far ripartire il Paese, devono davvero mettersi a fare, e al più pre-sto, le cose che sanno di dover fare. Forse lo hanno capito. Perché la scelta di privatizzare Alitalia, bloccando il drenaggio di denaro pubblico e lasciando al mercato la decisione sulle alleanze, segna un importante cambiamento di rotta. Speriamo che non riguardi solo il volo.

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LEGGE LAICA PER I PROF. DI RELIGIONE

• Il Riformista del 30 novembre 2006, pag. 2

Un'insegnante spagnola di religione è stata licenziata sei vol­te per decisione dell'episcopato. In Spagna, come in Italia, gli insegnanti di religione sono pagati dall'amministrazione pubblica, ma vengono scelti per insindacabile giudizio dei vesco­vi. Una differenza tra la Spagna e l'Italia, però, c'è, e non è affat­to di poco conto. Ogni volta che Nereida del Pino Diaz Mederos, l'insegnante, è stata sospesa dall'insegnamento di Religione e Mo­rale cattolica presso la scuola secondaria Jianmar III di Galdar (Canarie) perché "colpevole" di convivere con il suo compagno senza essere sposata, le autorità laiche hanno preso le sue difese, obbligando quelle ecclesiastiche a riassumere la "repro-ba". La quale, a dire il vero, dopo sei anni consecutivi di persecuzione, ha annunciato di voler mol-lare: «Queste situazioni - ha detto - ti distruggono la vita. Mi sto cercando un altro lavoro».

Ora, partendo proprio dal clamore suscitato dal caso di Ne­reida, il governo Zapatero ha messo allo studio un decreto che obbliga le gerarchie ecclesiastiche a fornire spiegazioni sul li­cenziamento o sulla mancata conferma degli insegnanti di reli­gione. Se le spiegazioni non risultassero convincen-ti, agli inte­ressati verrebbe garantito il ricorso alla giustizia amministrati­va. Non risulta che in Ita-lia, dove casi simili a quello della pro-essoressa delle Canarie non sono mancati, si sia orientati ver­so una simile soluzione. Forse, invece, sarebbe il caso.

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MORIRE SENZA SOFFRIRE

• L'Opinione del 6 dicembre 2006, pag. 1
di Paolo Pillitteri

Sarà pure una gran brava per­sona l'autorevole rappresen­tante della Margherita, l'o­norevole Paola Binetti, ma di certo ha/avrà ben poco a che fare con l'i­stituendo Partito Democratico, che si prean-nuncia come sintesi del pro­gressismo-riformismo cattolico e socialista e alla cui base dovrebbe es-serci, quanto meno, una dose di laicismo, se non massima almeno mini­ma.

Parliamo delle reazioni della Binetti alla decisione di Emma Bonino, ministro di questo Governo, di promuovere uno sciopero della fame a favore di Piergiorgio Welby che altro non desidera che di morire in santa pace, rivendicando un diritto: di morire senza soffrire. Lo stupore dell'onorevole Bi-netti, non dissimi­le da quello dell'onorevole Volontè, non sta soltanto nella decisione in sé dell’onorevole Emma Bonino, ovverosia nel favorire in tempi rapidi una decisione parlamentare bi-partisan sull'eutanasia, quanto soprattutto sulla "messa in pratica di una con­dotta tipica di un espo-nente radica­le". Dal che si deduce che per certi cattolici, di destra e di sinistra, i radi­cali e/o laici buoni sono soltanto quelli che non affrontano tematiche come quella del caso Welby o dei diritti ci-vili e che si limitano a fare il ministro di Prodi con la regola dello "zitti e mosca".

Al contrario, la presenza laica e radicale in un governo, specialmen­te in uno come questo che sta mostrando uno scarso laicismo, ha un significato e una dimensione "politici" proprio nell'esprimere posizioni chiare sulla eutanasia, non tanto o soltanto perché essa non è una questione né di destra né di sinistra, ma perché "nessuno può condanna­re una persona alla tortura". L'ago­nia di Welby sta a indicare che una certa politica si accanisce a tenere in vita il dolore con l'alibi della "tentazione au-toritaria sulla fine della vita" (Volontè), mentre semmai è il con­trario. In realtà, l'agonia di Welby finisce col diventare l'agonia di tutte le persone sensibili. Solo che le per­sone sensibili sono poche, soprattut­to là dove il dramma di Welby, che chiede da tre mesi di poter finire la sua vita nella piena legalità (e che vede la maggioranza assoluta degli italiani "politicamente" al suo fian­co) potrebbe e dovrebbe avere una soluzione legislativa, cominciando innanzitutto con il rinnovo del Comi­tato di bioetica scaduto da mesi. Il gesto di Emma, della associazione “Luca Coscioni” e delle centinaia di persone da giorni in digiuno pro-Welby ha il merito di tenere sollevato il velo di ipocrisia e di soli-da­rietà pelosa su un caso che necessita di un approccio dav­vero laico con una legge il più demo-cratica possibile, quella cioè che permette a ognuno di agire come crede. Democrazia e libertà stan-no a significare che lo Stato deve godere di piena autonomia nel fare le leggi. Nel caso Welby, nella fattispe­cie dell'eutanasia, del suicido assistito, delle preannunciate iniziative del ministro della Sa-lute per cure palliative e dignità di fine vita, la bussola da tenere è quella di sempre, e già dagli albo-ri di questo Stato,quando il suo più geniale "creatore", Camillo Benso Conte di Cavour proclamò: libera Chiesa in libero Stato.


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