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Ségolène, prima socialista all’Eliseo
25.11.06

n.zoller@trentinoweb.it
INFO SOCIALISTA 25 novembre 2006
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
tel. 338-2422592 – fax 0461-944880
Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it
Quindicinale - Anno 3°


SOMMARIO:

• UN LIBRO, per cominciare: A. Alesina e F. Gavazzi Titolo: “Goodbye Europa”
• E'arrivata l'ora di Ségolène, prima socialista per l’Eliseo
• SDI: ci interessa il confronto sul Partito democratico ma non vediamo coinvolgimento
• A destra garantisti solo per Previti
• Degli anni Settanta si ricorda solo la violenza. Perché non ci fu altro
lettera
• PER LA RICERCA MENO IMPEGNO DI 15 ANNI FA
memento
• Né Dio né Epicuro



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UN LIBRO, per cominciare (“Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges)

Autori: A. Alesina e F. Gavazzi
Titolo: “Goodbye Europa”
ed. Rizzoli, 2006

Scriveva Carlo M. Cipolla, uno degli storici economici più valenti che l’Italia abbia annoverato, nella sua documentatissima “Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo ad oggi” pubblicata dal Sole 24 Ore: "Il bilancio economico del quarantennio postbellico è, in termini quantitativi, a dir poco lusinghiero. Certo, nulla di simile era stato - anche lontanamente - nelle speranze dei padri della repubblica. Un reddito nazionale cresciuto di circa cinque volte dal 1950 al 1990 colloca l'Italia fra i paesi a più elevato tenore di vita nel mondo".
In un’opera più recente di A. Alesina e F. Gavazzi “Goodbye Europa” (Rizzoli 2006) si rileva: “Il Pil pro capite in Italia nel 1950 era pari al 30 per cento di quello statunitense, nel 1970 al 68 per cento, nel 1990 all’80 per cento. Oggi è ridisceso al 64 per cento”.
Dunque durante quella bistrattata “prima repubblica” – accanto alle cadute varie volte considerate e drasticamente condannate - qualcosa di davvero buono era stato fatto. Parliamo dal punto di vista di sostenitori del centrosinistra attuale, ma anche del centrosinistra pentapartitico degli anni ’80 e di quello che partì negli anno ’60: cioè le esperienze politiche degli anni in cui appunto il reddito nazionale crebbe “dicirca 5 volte” e il prodotto pro capite italiano raggiungeva “l’80 %” di quello Usa. Di questi dati parlano gli storici e i professori: quando la politica - anche quella a cui facciamo riferimento oggi – riuscirà a darne conto e merito con equità?

Nicola Zoller
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E’ arrivata l'ora di Ségolène, prima socialista per l’Eliseo

• da La Stampa del 17 novembre 2006, pag. 11
di Domenico Quirico

Eletta al primo turno, come voleva, come Ségolène Royal ha chiesto ai militanti, per dare alla Francia un senso di forza e di coesione socialista, «come se fosse il primo turno delle presidenziali». I seggi delle primarie si erano chiusi da poco più di mezzora e già in rue Solferino sede del Partito circolavano le prime stime, che annunciavano largamente infranta la soglia del 50%, «tra il 55 e il 60»; l’ipotesi di uno spareggio con Strauss-Khan o Fabius, era annicchilita.

Suspence finita con largo anticipo rispetto al cautissimo calendario previsto da Hollande, primo segretario e compagno della designata, che fissava i risultati definitivi all’alba di oggi. Persino i feudi di Strauss Kahn come la Val d’Oise franavano sotto il 57% della rivale. A Montpellier fedelissima a Fabius un 70% suonava come una sentenza senza appello. E il capo gabinetto di Hollande, Stéphane Le Foll, annunciava ufficialmente che «non ci sarà un secondo turno e Ségolène sarà candidata». Nel Poitou, regione che lei amministra con pugno di ferro, iniziava una notte di festa. Fino a ieri era eletta soltanto dai sondaggi, da oggi gli umori statistici sono diventati voti pesantissimi.

La scena politica francese riparte da zero; anche la destra, nervosa e litigiosa, e Sarkozy, che sembrava imbattibile, devono affrontare una realtà imprevista. Lei, radiosa, a Melle, il suo feudo elettorale dove ha ottenuto l’81%, si è presentata alle telecamere: «Vivo intensamente questo momento di gioia, i militanti mi hanno dato un grande slancio»; annunciando che bisogna subito mettersi al lavoro, anche coloro che non l’hanno votata e tutta la sinistra, per l’aspra battaglia presidenziale, per scalare insieme la montagna e costruire «qualcosa di straordinario». Parole e riferimenti mitterandiani, accuratamente scelti. Il voto di ieri ha segnalato novità brucianti.

Ufficio elettorale dell’11simo arrondissement, il più grande e importante della federazione della capitale. I militanti, i «camarades» erano pronti: documento d’identità, tessera del partito in regola. Come in tutti i 4000 seggi a disposizione di 218711 iscritti. I controlli sono stati rigorosi: «Se ci sono cambiamenti di indirizzo segnateli qui a fianco», ammoniva, severa, la responsabile del seggio. Nessun voto per procura, o per posta, non ci sono a disposizione neppure schede bianche, solo quelle con i tre nomi: Royal, Fabius, Struass-Kahn. Proibizione assoluta di fornire materia per contestazioni: non si sa mai. Fabius già due mesi fa faceva l’ipotesi di possibili brogli e ancora ieri sera lo ha ripetuto. Erano emozionati, i militanti, perché è stato un avvenimento «storico»: la prima autentica primaria per scegliere il concorrente alle presidenziali.

Tutti si dichiaravano segolenisti. Un plebiscito. Eccolo il vero miracolo di Ségolène: non aver sfruttato mirabilmente l’onda dei sondaggi, lei che non «esisteva» politicamente nel settembre del 2005, quando su Paris Match, settimanale people (era un segno, pochi se ne accorsero), si dichiarò «presidenziabile». Neppure aver infranto molti tabù, dalle 35 ore all’ordine giusto, urtando i nervi di potenti categorie. Il vero miracolo è aver rivitalizzato il jurassic-partito, il dinosauro più ruminamnte e arcaico del panorama politico francese. Con «l’icona» i socialisti sembrano aver mutato pelle, stile, umore. Bastava osservare l’entusiasmo con cui si affollavano ieri ai seggi ricavati nelle sezioni, nei municipi, addirittura in qualche bar. Fibrillazioni che non si respiravano dai tempi di Mitterrand, commentava estasiato un reduce dell’ultima remota vittoria socialista. Non è solo un fatto emotivo, è un cambio generazionale, che scardina il partito dei vecchi notabili.

La chiave del risultato delle primarie sono stati i 70mila nuovi iscritti, giovani in maggioranza, «quelli dei 20 euro», «quelli di internet», come li stroncavano ironicamente alludendo al costo della tessera. A marzo il partito aveva 140 mila aderenti, ben stretti nel pugno dei «colletti bianchi» socialisti. Poi, incolonnati dietro Ségolène, sono arrivati loro e hanno cancellato «gli elefanti», i notabili avvizziti. Una rivoluzione.

La seduzione riformista

• da Corriere della Sera del 17 novembre 2006, pag. 1
di Massimo Nava

Qualche cosa di rivoluziona­rio sta avvenendo nel Paese del­la Rivoluzione. La vittoria di Sé­golène Royal alle «primarie» del partito socialista non è più sol­tanto un gioco mediatico, né una proiezione virtuale dei son­daggi.
È la possibilità concreta che una don­na guidi la Francia nei prossimi anni e che comunque sia una donna a conten­dere ad armi pari l'Eliseo al leader della destra, Nicolas Sarkozy. La vera noti­zia sarebbe che fallisse o che fallissero entrambi, travolti da una «controrivo­luzione» sempre dietro l'angolo: le divi­sioni nella destra e nella sinistra, le ambizioni non più segrete di Chirac, il fan­tasma dell'estrema destra di Le Pen, la diffidenza conservatrice verso due «bat­titori liberi» che si sono imposti nei ri­spettivi campi per grande libertà ideolo­gica e straordinaria capacità di comuni­cazione. La Francia è delusa, brontolona, spesso in subbuglio, a volte violen­ta. Contesta le élites e i partiti. Volta le spalle alla politica, vive una profonda crisi di rappresentatività, si chiude nel no all'Europa. Come in Italia, il bipartitismo e i blocchi sociali sono messi in crisi da aspettative contraddittorie e tra­sversali. Non è casuale che il sistema presidenziale, a volte preso a esempio di governabilità, metta oggi in lizza 34 candidati. Ma c'è un'altra Francia che chiede di voltare pagina, che vuole esse­re più moderna ed europea e meno ag­grappata a un modello sociale e statalista che moltiplica le ingiustizie, più che favorire le eguaglianze. E' una sorta di «terzo stato» che assedia la Versailles dei rituali della politica, perpetuati dal­la lunga stagione di Chirac.

Nicolas Sarkozy ha scosso l'albero. Ségolène Royal si è furbescamente pre­parata a raccoglierne i frutti. E' questa l'ultima rivoluzione francese, quella di un Paese in bilico fra nostalgie di gran­dezza e coraggio del futuro. Rivoluzio­ne culturale e di metodo, oltre che di indubbia suggestione femminile. Con le stesse armi — il marketing politico, sino. l'uso d'Internet, la rottura di schemi ide­ologici e luoghi comuni, la fustigazione di abitudini e tabù — i due «campioni del sondaggio»—entrambi cinquanten­ni — cercano di intercettare lo stesso elettorato fluttuante e non più ancora­to ai rispettivi serbatoi di consenso: ceti medi impoveriti, laureati in cerca di la­voro, liberi professionisti, piccoli e me­di imprenditori, operai delocalizzati, ce­ti popolari che pagano più di tutti la criminalità e il disordine.

Naturalmente non vogliono e non promettono le stesse cose, ma i loro slogan più fortunati sono simili: «ordine giusto» (Ségolène), «fermezza e giusti­zia» (Sarkozy). Per molti avversari e cri­tici, Ségolène è addirittura considerata di destra e populista: la figlia del colon­nello che camuffa cromosomi autoritari con un sorriso smagliante e tailleur bianchi. Così come il riformismo liberi­sta di Sarkozy non sarebbe altro che un disegno «neocon» alla francese, peral­tro aggravato dalla bulimia del potere. Anche per questo, appaiono rispettiva­mente estranei alla tradizione socialista e al modello gollista, pur essendoci cre­sciuti in mezzo e facendone parte.
Ségolène dice di sentire nell'aria il profumo del maggio 1981, l'epopea del­la svolta a sinistra di Mitterrand. La sto­ria non si ripete, ma questa campagna elettorale, così spettacolare, così antici­pata e permanente — in fondo, così «americanizzata» dal protagonismo personale e dall'invadenza televisiva — contiene il fascino e le speranze di gran­di cambiamenti, di cui resta difficile im­maginare la portata.

I compagni di partito, forse il suo stesso compagno, Hollande, gli intellet­tuali e gli «esperti» hanno creduto di ve­dere in lei soltanto inesperienza, dilet­tantismo, disinvolture demagogiche e ambizione feroce, con il rischio di rega­lare il Paese alla destra. Dopo Maria Antonietta, la Francia -— si è detto — non avrà mai una regina, anche se si chiama Royal. Ma Ségolène, prima di loro, ha capito che il ciclone Sarkozy stava capitalizzando il malcontento, il bisogno di sicurezza, la domanda di ri­cambio generazionale, la voglia della società civile di contare di più, la sotter­ranea «rivoluzione» di un Paese consi­derato a torto immobile, in conformisti­ca sintonia con i suoi valori, inquadra­to come alle parate militari. La rivolta delle «banlieues», le paralisi selvagge dei servizi pubblici, i periodici rigurgiti di Sessantotto, la voragine del debito pubblico e la crescita molle impongono risposte pragmatiche e condivise, pri­ma che la «rivoluzione» esploda davve­ro nelle piazze e contro le istituzioni. Con Ségolène (o con Sarkozy), il Paese della rivoluzione e della conservazione potrebbe scoprire i vantaggi del riformismo.


Francia, Ségolène Royal vince le primarie

Boselli, sinistra italiana ultima a rinnovarsi
“Il vento del rinnovamento della sinistra – commenta il segretario dello Sdi, Enrico Boselli - dopo Gran Bretagna e Spagna, spira oggi con vigore dalla Francia. La socialdemocrazia europea è tutt’altro che una foresta pietrificata. Il partito francese, che era stato il più restio ad affrontare i temi di una revisione liberal socialista, con Segolene Royal, a cui vanno gli auguri di tutti i socialisti italiani, si mette in sintonia con i laburisti inglesi e i socialisti spagnoli, puntando così ad una difficile ma non impossibile vittoria alle elezioni presidenziali. Solo la sinistra italiana nonostante un gran parlare di partito democratico all’americana, è rimasta l’ultima a doversi rinnovare poiché è ancora prigioniera di una visione neocorporativa e localistica e di una dipendenza quasi meccanica dalla volontà dei sindacati e da una concezione poco laica dello stato e della società civile. Come si possa uscire da questa situazione – conclude il leader socialista - è assai difficile dire perché sulla sinistra italiana gravano ancora troppe eredità ideologiche”.

Locatelli: i partiti iniziano a fidarsi delle donne
“Ségolène Royal secondo i sondaggi poteva già da molto tempo essere una buona candidata per le presidenziali di Francia. Ma convincere gli iscritti al Parti socialiste, quindi un pubblico di addetti ai lavori, non facilmente suggestionabile dall'immagine e dagli slogan, è tutt'altra cosa.
Ségolène Royal dimostra di non essere una candidata né glamour né virtuale, ma una vera leader, che può ottenere la fiducia di tutti”.
Lo afferma Pia Locatelli, presidente dell'Internazionale socialista donne e parlamentare europeo dello Sdi, comentando la vittoria di Segolene Royal alle primarie per la candidatura socialista alle presidenziali francesi della prossima primavera.
“I socialisti italiani - ha aggiunto Locatelli - fanno gli auguri a Ségolène Royal e guardano già a un Presidente socialista donna, che andrebbe a far compagnia a Michelle Bachelet (Cile) e Tarja Halonen (Finlandia): donne socialiste che guidano i loro Paesi e sono esempio e stimolo per tutte le donne nella battaglia per ampliare la presenza femminile nei parlamenti di tutto il mondo (oggi solo al 16%), strumento decisivo per promuovere non solo le pari opportunità tra donne e uomini ma anche lo sviluppo economico e sociale”.

Turci: solo da noi manca una svolta socialista, laica e liberale
“La grande vittoria di Segolene Royal alle primarie socialiste per le presidenziali francesi - commenta Lanfranco Turci, vicepresidente del gruppo della Rosa nel Pugno alla Camera - smentisce clamorosamente quanti ritenevano il Ps il bastione della conservazione, prossima vittima di una trionfante onda nuovista che il realtà agita le acque solo della nostra sinistra. La vittoria della Royal - prosegue il deputato della RnP – porterà al riallineamento dei socialisti francesi con il rinnovamento della sinistra socialista già realizzato in Europa da Zapatero e da Blair. É inevitabile che quanti di noi vivono politicamente nell’area liberalsocialista italiana sentano una sottile invidia per i compagni francesi, dopo quella per i compagni spagnoli, inglesi e tedeschi, pensando alle difficoltà della sinistra italiana a far emergere una ledership autenticamente socialista, laica e liberale”

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SDI: ci interessa il confronto sul Partito democratico ma non vediamo coinvolgimento

“Da Fassino, Mussi e da altri esponenti dei Ds – afferma il segretario dello Sdi, Enrico Boselli - è venuto un invito allo Sdi a partecipare alla costruzione del Partito democratico. A nostro avviso ci sono però ostacoli evidenti che non sono stati rimossi. Non è venuta meno, ad esempio - prosegue il leader socialista - la questione della laicità che dovrebbe essere alla base del partito democratico né che questo processo si sta svolgendo come una sorta di compromesso storico bonsai che riguarda esclusivamente Ds e Margherita. Sia prima della formazione della Rosa nel Pugno sia oggi assieme ai radicali con la Rosa nel Pugno, noi non abbiamo mai cessato di essere interessati a un confronto, ma - conclude Boselli - non vi sono state e non vedo tuttora all’orizzonte le condizioni per un nostro coinvolgimento".

Villetti: non è un partito laico

Lo Sdi si tiene fuori dal cantiere del Partito democratico. Per adesso, almeno, non c'è possibilità che i socialisti di Boselli vengano coinvolti nel progetto di fusione tra Ds e Dl. I motivi?
Innanzitutto il Pd non nasce come un partito laico; in secondo luogo sembra solo il frutto di un duopolio Ds-Dl; infine non ha ancora risolto il problema della sua futura collocazione europea. Cade così nel vuoto il pressing che i Ds stanno forzando. Nella Quercia infatti stanno sondando il terreno circostante l'Ulivo: il segretario Piero Fassino ha affermato che “bisogna aprire un confronto con lo Sdi e altre forze socialdemocratiche”, mentre ieri il senatore diessino Nicola Latorre è andato oltre: “Lo Sdi deve entrare subito nel Partito democratico" ha sentenziato. Ma in ambienti socialisti vengono respinte le "avances". Come conferma il capogruppo dello Sdi alla Camera Roberto Villetti: "Non è possibile che nasca un Pd laico - spiega - e questo è un problema 'grosso quanto una casa', perché noi non possiamo sentirci coinvolti in un nuovo soggetto politico ipotecato dai cattolici e alle spalle settori forti della Chiesa". Secondo Villetti "non è possibile dar vita a un partito in cui i socialisti convivano insieme a culture come quella dei cattolici integralisti, forze che si oppongono al rinnovamento". Insomma, "in questo cammino c'è l'ostacolo di una questione vaticana. Purtroppo - ammette - oggi la Chiesa ha forte influenza sulla Margherita". E punta il dito contro il leader dielle Francesco Rutelli, considerato troppo vicino alle posizioni del presidente della Cei Camillo Ruini. Ma i nodi sono anche altri.
Oltre al pericolo che il Pd nasca sulla base di un "compromesso storico bonsai" tra Ds-Dl, l'altro grande problema è l'ancoraggio alle radici del socialismo europeo. Villetti chiarisce: "Si dovrebbe riuscire a trovare una caratterizzazione progressista del Pd che stabilisca rapporti con l'area del Pse, perché se si va in Europa a quale gruppo si fa riferimento? Non credo con i conservatori. In Europa - ricorda l'esponente socialista – ci sono i socialdemocratici. Inoltre il Pse rappresenta la base comune che c'è nel rapporto tra Sdi e Ds". Per questo, conclude, "partecipiamo al dibattito ma allo stato attuale, per ragioni politiche, non ne siamo coinvolti".

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A destra garantisti solo per Previti

• da Il Riformista.it del 16 novembre 2006
di Emanuele Macaluso

«Carcere, carcere!» È questa l'invocazione che viene da quei liberaloni alloggiati nella Casa delle libertà, i quali contestano l'iniziativa del ministro Livia Turco che ha solo lievemente aumentato la dose individuale, non punibile con il carcere, di chi fuma uno spinello. Si tratta di un provvedimento amministrativo nel quadro della legge Fini. Una legge sciagurata che ha riempito le carceri di ragazzi senza incidere né nello spaccio né, soprattutto, nell'opera di convinzione che fumare la “roba” comunque fa male. A volte molto male. È un'opera che non si fa in carcere, ma nelle famiglie da parte di genitori che sanno discutere con i figli, nelle scuole, nelle organizzazioni giovanili, politiche, religiose, sportive o ricreative. Un lavoro educativo dovrebbero svolgerlo i mezzi di informazione, le tv soprattutto. Ma la questione politica che mi interessa sottolineare è la reazione pavloviana della destra nei confronti di qualsiasi provvedimento repressivo o liberale: la scelta è sempre univoca. Le alternative al carcere vengono affannosamente cercate solo per Previti, i potenti, i bancarottieri non per ragazzi che, sbagliando, fumano uno spinello. Siamo alle solite: il garantismo della destra è sempre peloso.

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Degli anni Settanta si ricorda solo la violenza
Perché non ci fu altro

• da Corriere della Sera del 20 novembre 2006, pag. 28

di Pierluigi Battista

Agguati mortali, coltellate, rappresaglie, uccisioni, risse mortali, terrorismo, stragi. Non si è mai visto nell'Italia repubblicana un periodo più cruento e lugubre degli anni Settanta. Nella memorialistica non si ricorda di quel decennio che sangue e ferocia. Sul Corriere della Sera Dino Messina ha descritto una ricerca di Guido Panini su Mondo contemporaneo dove si rivela con quanta cura demenziale «neri» e «rossi» degli anni Settanta si de­dicassero reciprocamente dettagliate schedature per trac­ciare l'identikit delle future vittime dei pestaggi. Sull'onda del suo Cuori neri, Luca Telese ha messo a punto una colla­na editoriale della Sperling & Kupfer sull'imitazione di guerra civile che ha insanguinato quel decennio e sono appena usciti una riedizione rielaborata de I ragazzi che volevano fare la rivoluzione di Aldo Cazzullo e, sull'altro versante, La fiamma e la celtica di Nicola Rao. Sempre e solo violenza politica, botte, pistolettate, sprangate.

Degli anni Settanta non ci si ricorda altro, per la sempli­ce ragione che non ci si può ricordare altro. Un decennio totalitariamente invaso dalla violenza. Un decennio orri­bile, di straordinaria cupezza, di irredimibile tristezza pri­vata e pubblica. Un decennio di giovani vite spezzate nel terrore politico e nell'eroina. E quando quell'ombra tetra si stende sul nostro presente, è come se aleggiasse sempre lo stesso spettro di intolleranza, la dialettica politica bru­talmente risolta nella pratica delle ba­stonature e dei roghi. A Padova ri­compaiono spranghe e taniche di ben­zina tra fascisti di Forza Nuova e una storica emittente radiofonica degli anni Settanta come «Radio Sherwood». Due parlamentari, Massimiliano Smeriglio e la vicePresidente della Camera Giorgia Meloni di An, si scambiano lettere (civilissime, per la verità) che hanno per oggetto l'ucci­sione di Francesco Cecchin nel 79. «Anni di piombo» è espressione logorata dall'uso e dall' abuso, ma non c'è descrizione migliore di un decennio che ha prodotto solo una patina di grigiore disperante. Un decennio di cui storiograficamente si contano solo i mor­ti, i feriti, i sequestrati.

Un deserto dell'immaginazione e della creatività. Non è rimasta traccia, rivisitando quel decennio maledetto, di un solo romanzo rappresentativo di un'atmosfera che non fosse intossicata dal fanatismo politico, Quando Goffredo Parise scrisse all'inizio degli anni Settanta il primo dei suoi Sillabari venne svillaneggiato perché aveva osato oc­cuparsi dei sentimenti anziché continuare a denunciare la guerra del Vietnam. La storia di Elsa Morante creò scon­certo e stupore perché affermava che la sofferenza umana non è risolvibile con i teoremi dell'ingegneria politica. Sul cinema di quel decennio, meglio stendere un velo pietoso. Non un prodotto che onorasse la tradizione italiana del design che sino a pochi anni prima aveva esibito un'imma­gine splendida di sé. Un modo imbarazzante di vestire e un vuoto assoluto di senso estetico, come ci raccontano le fotografie di quell'epoca. Nel teatro, nella poesia, nelle arti figurative, il nulla o poco più, quando gli imperativi marziali della militanza politica dominavano incontrasta­ti in ogni angolo dell'immaginazione pubblica. Oggi i libri parlano solo di quello. Ma di cosa dovrebbero occuparsi, in alternativa?

Ancora ci si ostina a demonizzare gli anni Ottanta, un decennio che liberò l'Italia da una camicia di forza e da una prigione delle idee da cui evadere, mentre le parole venivano sostituite da spranghe e pistole, sembrava im­possibile. Ma intanto non ci resta che la memoria di una violenza pazzesca, nel decennio più tragico e brutto dell' Italia democratica.

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Lettera
PER LA RICERCA MENO IMPEGNO DI 15 ANNI FA


Trento, 15 novembre 2006
per Enrico Franco - direttore del CORRIERE DEL TRENTINO
Caro direttore,
ringrazio il Corriere del Trentino per aver dato spazio alla nota socialista a sostegno della senatrice Montalcini.Sono condivisibili molte delle vostre valutazioni in merito, a partire da quelle formulate dal prof. Giavazzi sul Corriere della Sera. E' infatti ben chiaro che chi sostiene la necessità di maggiori finanziamenti per la ricerca scientifica e l’università non lo fa certamente per difendere le rendite di posizione di qualche docente inoperoso o addirittura le baronie universitarie. Lo fa viceversa per recuperare un quindicennio di ritardi: ai tempi del ministro per l'università e la ricerca AntonioRuberti - che fu il primo a ricoprire questo incarico ed erano gli anni '90 - l'Italia investiva in ricerca l'1,5% del pil, oggi siamo retrocessi all’1,1%. L'Italia purtroppo è ultima per investimenti sulla ricerca in Europa, se la confrontiamo con i 15 Paesi "storici" dell'Unione europea. C'è voluta la forza e il coraggio politico di Rita Levi Montalcini perché ci si accorgesse di questo fatto gravissimo, che minaccia la competitività del sistema Italia e il futuro di tutti noi. Senza soldi per la ricerca non c'è alcuna possibilità che l'Italia superi la sfida della globalizzazione ed è incredibile che per affermare questa verità la Montalcini abbia dovuto minacciare il voto contrario al Senato.

Nicola Zoller - consigliere naz.le SDI

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Memento

Né Dio né Epicuro
Una morale laica non accetta precetti, neanche quelli un po’ stucchevoli dell’atarassia.

• Il Foglio del 23 novembre 2006, pag. 2

di Angiolo Bandinelli

Il periodico “Le Monde des religions” dedica il suo ultimo numero a un tema attualissimo: “La sagesse. La quête d’une spiritualité sans Dieu” (La saggezza. La ricerca di una spiritualità senza Dio). Al centro del fascicolo, dieci brevi testi “fondamentali, che aiutano a vivere”: sono citazioni da Buddha, Mencio (Men-tzu), Aristotele, Epicuro, Epitteto, Marco Aurelio, Montaigne, Schopenhauer, Simone Weil, Swami Prajnanpad.

Per Buddha, la saggezza è liberarsi del dolore esistenziale; per Mencio è senso della compassione e rispetto per l’umano; secondo Aristotele, la felicità del saggio consiste nella vita dello spirito, nutrito dell’amicizia e in contemplazione; Epitteto esorta al distacco dalle cose che non dipendono da noi; Montaigne privilegia l’introspezione, lo scetticismo dinanzi alle certezze religiose e filosofiche; Schopenhauer elogia la “disposizione interiore” a capire il mondo; Simone Weil si proietta nell’esperienza dell’amore per l’altro; il massimo che c’è, per Swami Prajnanpad, consiste nell’accettare il reale, non attendere nulla. Suppongo che il fascicolo venda bene: agli inizi degli anni Novanta, un microeditore dotato di fantasia, “Stampa Alternativa”, si inventò una microcollana a bassissimo prezzo, la chiamò “Millelire”, appunto. Uno dei primi titoli fu la “Lettera a Meneceo” di Epicuro, con i suoi famosi precetti: “Quando noi viviamo, la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi”; “Non è irreligioso colui che rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità”; la saggezza consiste nella “perfetta serenità dell’animo”, che si raggiunge quando “la bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa…”. Il fascicolino ebbe un successo clamoroso, ne furono vendute centinaia di migliaia di copie ed è ancor oggi un fortunato long seller.

Mere tecniche di sopravvivenza

A cosa è dovuta la presa di certi temi su un pubblico non certo tagliato per il filosofare? Torniamo a “Le Monde des religions”, scorriamo i sommari relativi a due articoli. Il primo: “Il crollo delle ideologie politiche o religiose ha lasciato il posto a una spiritualità laica. Essa costituisce per l’uomo di oggi, più che un pensiero, una pratica di vita, la vita ‘buona e giusta’”. Il secondo: “Cafés philo, logge massoniche, meditazioni e arti marziali. Cresce la richiesta di senso: come è possibile vivere bene? Come unificare corpo e spirito? Si moltiplicano i luoghi dove si può dibattere su questioni filosofiche o cercare la pace dell’anima”. Senza più Dio né ideologie, ridotto allo stato “laico”, l’uomo sembra pronto al ripiegamento su una mera tecnica di sopravvivenza per lo più ricalcata sul modello stoico-epicureo, che identifica la saggezza nella chiusura nell’ambito del privato, nell’atarassia (la “pace dell’anima”). Al massimo, potrà concedersi all’apertura compassionevole verso il prossimo, ispirata a una generica benevolenza. Un po’ stucchevole, no? Tra parentesi: la saggezza stoica è presunzione compiaciuta del laicista, il sigillo della sua superiorità etica e filosofica. Non faccio l’inquisitore, non mi impiccio, ma dubito che costui viva davvero nell’atarassia dei sensi e dei desideri.

Il mondo classico fu segnato dal divario crescente tra un potere sempre più monocratico/ assolutista e l’individuo – l’“idiotes” dei greci, colui che vive chiuso nel suo privato – comprensibilmente portato a una vita lontana dalla cosa pubblica, ormai estranea se non ostile. Oggi l’antica precettistica ha perso appeal. Il mio amico Marco sostiene che una laica innocenza, cioè la vera saggezza, è propria dei vecchi sperimentati e vissuti, non dei giovani ancora ignari del vivere, dei suoi drammi, delle sue compromissioni, delle sue miserie: senza Dio, ma anche senza dogmi epicurei o stoici, l’uomo saggio è non chi evita la caduta, ma chi sa riemergerne, ricco di una nuova esperienza. Nel nostro piccolo, continueremo dunque a gettarci tra le cose del mondo (anche la vita pubblica, la politica), a sporcarci con le vicende dell’umano non rifiutandoci al suo oscuro lato dionisiaco: anzi, visto che non possiamo non dirci cristiani, avendo a che fare anche con Belzebù, il Maligno.

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