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Dio è di sinistra?
info 25 Ottobre 2006

INFO SOCIALISTA 25 OTTOBRE 2006
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880
Trento/Bolzano
www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it
Quindicinale - Anno 3°


SOMMARIO:

• Un Libro, per cominciare: John E. Roemer, UN FUTURO PER IL SOCIALISMO
• L’ASSEMBLEA CONGRESSUALE DELLO S.D.I. TRENTINO DEL 21 OTTOBRE 2006 – SALA SEGRETARIO PROVINCIALE

• ”DIO È DI SINISTRA”
• IL CONSIGLIO DI UN LAICO: NON ABUSARE DI DIO NEL DISCORSO PUBBLICO
• LE LEGGI CONTRO LA PAROLA UCCIDONO L’ILLUMINISMO
• CHARLES DARWIN È ONLINE
• IL VELO: OBBLIGHI, RIVOLTE E LEGGENDE MA ALLA MECCA SI VA A VOLTO SCOPERTO

• L’ECCEZIONE TURCO (LIVIA)
• ROVESCISMO, FASE SUPREMA DEL REVISIONISMO (COMMENTO AL LIBRO DI PANSA)

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UN LIBRO, per cominciare (“Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges)

Autore: John E. Roemer
Titolo: UN FUTURO PER IL SOCIALISMO - Feltrinelli ed., 1996

L’autore, sostenendo un ideale di socialismo anti-autoritario, di quello totalitario ha saputo denunciare tutti i pericoli.

Nella discussione sul caso Telecom ho avuto vari scambi di opinioni con Franco de Battaglia ospitati nel suo Diario sul “Trentino”. E’ stato chiamato anche in causa il ruolo del socialismo nel nuovo secolo. Riporto la parte conclusiva del mio punto di vista, segnalando un libro importante pubblicato in America nel 1994 e in Italia da Feltrinelli nel 1996:


“Caro de Battaglia…
permettimi di riaffermare che di fronte alla società iperconsumistica di oggi non è che il so-cialismo sia restato all’età bucolica o nei circoli seminariali, come tu paventi. Eduard Bernstein e Carlo Rosselli sono stati gli alfieri del socialismo riformista-liberale all’inizio del ‘900, ma poi sono venuti tanti altri dirigenti e pensatori che si sono misurati via via con la contemporaneità stringente. Uno di questi, ad esempio, viene proprio da quella realtà macroinformatica rappresentata dagli Usa. Parliamo di John E. Roemer, il pensatore americano che nel 1994 ha pubblicato “A future for So-cialism”, un futuro per il socialismo. Questo autore è un “socialista orwelliano”, in nome di chi, so-stenendo un ideale di socialismo anti-autoritario (rileggiamo dunque anche il George Orwell de “La fattoria degli animali” e “1984”), di quello totalitario ha saputo denunciare tutti i pericoli. E viene a proporre “un socialismo dal forte sapore liberale, basato sulle ragioni del fallimento delle economie statalizzate dell’est europeo, che è bene siano fallite perché con esse sono falliti dei regimi tirannici”. Con Roemer – ho scritto nella mia ricerca “Breviario di politica mite” - prosegue sul piano ide-ale verso il 21° secolo l’opera di Rosselli, per un socialismo che ponga sull’educazione e sulla for-mazione intellettuale e professionale, le basi per allargare ai “segmenti sociali più svantaggiati” le opportunità di accesso al lavoro e ad una decente vita civile.

Nicola Zoller

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DOCUMENTO PROGRAMMATICO APPROVATO
DALLA ASSEMBLEA CONGRESSUALE DELLO S.D.I. TRENTINO - 21 OTTOBRE 2006

Ad una attenta lettura, la situazione politica attuale a livello provinciale sconta diverse criticità.
Un’analisi approfondita ed una significativa riflessione a metà legislatura, sono i necessari presupposti per una azione di rilancio politico e programmatico della coalizione di governo in vista di un 2008 al quale il centro sinistra si avvicina non senza qualche preoccupazione.
L’auspicio è che la stagione dei congressi, aperta dai socialisti, proponga analisi realistiche e rifles-sioni puntuali da parte di tutte le forze politiche che dal 2003 governano il Trentino.
Una maggioranza non coesa che non riesce a fare sintesi neanche sui provvedimenti legislativi fon-danti l’azione di governo ed un eccesso di litigiosità “non governato” nell’ambito di un confronto costruttivo ma che si evidenzia all’esterno facendo prevalere posizioni ed istanze di potere e dei singoli, hanno portato ad un rallentamento dell’azione politico amministrativa e ad un oggettivo ri-tardo nello stato di attuazione del programma di legislatura.
I percorsi decisionali sono poi frequentemente condizionati da posizioni, anche ideologiche, propo-ste dal partito di maggioranza relativa, la Margherita, a scapito della componente laico – riformista della coalizione, che, se escludiamo qualche presa di posizione dei Leali, risulta del tutto non inci-dente.
D’altro canto la nostra azione politica, fortemente condizionata dal non essere rappresentati nelle istituzioni provinciali, non si può limitare all’azione amministrativa proposta a livello comunale, ma deve trovare luoghi di elaborazione e modalità di esplicitazione più significativi.
All’indomani delle elezioni provinciali del 2003, l’azione socialista è ripartita decisamente in occa-sione delle elezioni amministrative del 2005, che ci hanno visto raggiungere significativi risultati nei principali Comuni della nostra Provincia.
La fase precongressuale è risultata molto utile al fine di ricostituire e riannodate quel “filo rosso” che lega tali ambiti territoriali dove siamo significativamente presenti.
Questo è il percorso da proseguire in vista del 2008.
La prospettiva politica parte da un sostanziale scetticismo rispetto al progetto del Partito Democra-tico, coscienti che Margherita e Ds in primis non hanno ancora sposato tale percorso.
E’ poi evidente come il Partito Democratico non possa essere il risultato di una mera sommatoria di partiti o movimenti esistenti.
A maggior ragione non può e non deve essere la pura e semplice federazione di DS e Margherita.
I socialisti, per primi, al congresso di Genova di qualche anno fa, avevamo proposto il Partito Ri-formista; tali istanze non possono essere quindi marginalizzate nel processo di costruzione del nuo-vo soggetto politico.
L’Assemblea provinciale socialista conferma la volontà di far dialogare le istanze riformiste, ini-ziando dal confronto con quell’area laico – socialista – riformista e liberale che non si sente rappre-sentata dalle istanze post-democristiane della Margherita e che nei DS dell’oggi non trova alcun ri-ferimento.
Questa volontà di confronto e dialogo dovrà, a breve, portarci a promuovere un momento costituen-te che getti le basi per un percorso politico che ponga al centro le istanze riformiste. Questo parten-do dal coinvolgimento dei Leali, del mondo libertario e radicale e liberale e dei numerosi circoli ed associazioni portatrici di questi valori.
Un percorso aperto e di carattere costituente che possa portarci già nel 2007, ad un anno dalle ele-zioni, a proporre agli elettori un progetto politico, fondato su un simbolo e su chiare linee program-matiche.


DIRETTIVO PROVINCIALE DELLO S.D.I.
nominato dall’assemblea congressuale
Trento - 21 ottobre 2006

AnnaRosa Armici
Riccardo Bacchi
Federico Baroni
Marilena Bertolini
Carla Capra Zanetti
Bruno Degasperi
Giacobbe Degasperi
Franco Demozzi
Francesco Doneddu
Rossano Dorigatti
Alessandro Festi
Mattia Filippi
Pompeo Forgione
Claudio Frisinghelli
Fernando Guarino
Mauro Leveghi
Renzo Margoni
Ornella Mattioli
Silvano Menapace
Ivan Morelli
Diego Negriolli
Rinaldo Ognibeni
Andrea Oss
Adolfo Pasquale
Celso Pasini
Dario Pedrotti
Renato Pegoretti
Alessandro Pietracci
Tomaso Ricci
Cristian Sala
Carla Sartori
Loris Scarpari
Lorenzo Sebastiani
Manuela Sontacchi
Enzo Soraperra
Nicola Spada
Giannino Toccoli
Massimo Vassallo
Claudio Visintainer
Lorenza Visintainer
Aldo Zanella
Nicola Zoller

PROBIVIRI
Giuseppe Morelli
Giovanni Taraborelli
Giuseppe Votisofia

REVISORI DEI CONTI
Flavio Bazzanella
Anna Rosa Eccher

SEGRETERIA PROVINCIALE DELLO S.D.I
nominata dall’assemblea congressuale

Segretario provinciale Cristian Sala
Vicesegretari provinciali Bruno Degasperi
Lorenza Visintainer
Il Direttivo, come previsto dallo statuto, eleggerà durante la sua prima riunione l’esecutivo di parti-to.


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”DIO È DI SINISTRA”
L'offensiva dei liberal contro i neoconservatori per una religione più democratica e trasversale.

• da Corriere della Sera del 19 ottobre 2006, pag. 49

di Ennio Caretto

Da qualche mese «l'America della ragione» come la definisce l'ex senatore ed ex ambascia-tore all'Onu John Danforth, un repubblicano moderato e prete presbiteriano che officiò le esequie del presidente Ronald Reagan alla Cattedrale di Washington, tenta di sottrarre alla destra cristiana il monopolio di Dio acquisito alle elezioni del 2000. E un'America trasversale, che ai repubblicani di centro assomma i democratici, una buona parte della comunità ebraica, la sinistra evangelica e i lai-ci, e che ravvisa nei «teocon» e nel loro dogma di essere i portatori della volontà divina un pericolo per la democrazia.
Un'America in prevalenza non secolare ma credente, che non intende espellere la religione dalla politica, ma contesta che Dio sia conservatore, distingue tra integralismo e fede, difende il principio della separazione Stato-Chiesa. Una maggioranza silenziosa che ritrovando la propria vo-ce ha innescato un dibattito cruciale sui valori, negando che consistano nell'essere nazionalisti, mili-taristi, antievoluzionisti, antiaborto e antigay come vorrebbero i «teocon». Recuperiamo Dio dalla destra è la sua invocazione.
I primi ad attaccare gli «ayatollah americani», così li chiama Frank Rich, il columnist «libe-ral» del New York Times furono all'inizio dell'anno l'ex presidente Jimmy Carter, un «cristiano ri-nato» e un democratico, con il saggio I nostri valori a rischio: la crisi morale dell'America, e lo sto-rico Kevin Phillips, altro repubblicano di centro, con un libro dal titolo più provocatorio, La teocra-zia americana. Carter accusò i «teocon» di polarizzare la politica e di attentare alle libertà civili con il fondamentalismo: «Il Paese non fu mai così diviso nè così irregimentato» scrisse. Phillips attribuì agli evangelici il piano di trasformare l'America in una «Repubblica cristiana» dove la Bibbia sosti-tuirebbe i codici, e il Pentagono e i grandi interessi industriali e finanziari servirebbero a esportare all'estero il loro modello di religione e di democrazia. Lo storico rimproverò anche al presidente Bush, un convertito al loro verbo, di «cavalcarne l'onda».
Secondo il filosofo politico Alan Wolfe, un maestro del pensiero «liberal» americano, quel-la di Carter e di Phillips fu una decisiva azione di rottura. «Oggi i libri di denuncia dei "teocon" - sottolinea Wolfe - sono all'ordine del giorno, e possono contribuire a colmare il "God's gap”, il di-vario di Dio, che questi cristiani messianici hanno aperto a danno dello Stato di diritto».
Oltre a Fede e politica di John Danforth, lo studioso elenca La politica di Gesù del teologo protestante Obery Hendricks; La politica di Dio del televangelista Jim Wallis; Il volo santo di Ray Suarez, una stella della tv; I teocon del sociologo Damon Linker; Lettera a una nazione cristiana dell'agnostico Sam Harris; e altri. A parere di Wolfe, che dirige il «Centro della religione e la vita pubblica» all'università di Boston, i libri segnano una svolta nella guerra culturale che caratterizza la campagna per il rinnovo del Congresso a novembre: «Riflettono l'umore popolare prevalente».
I «christianist», come i «teocon» vengono anche chiamati nei blog internet, smentiscono che in America sia sorto un contro movimento religioso. Il reverendo Jerry Falwell, uno dei loro leader, afferma che se i repubblicani fossero sconfitti alle urne «sarebbe a causa dell'Iraq e degli scandali al Congresso». Ma Danforth, che abbandonò l'Onu due anni fa in disaccordo con il presidente Bush, polemizza con Falwell: «La destra cristiana ha ridotto il Partito repubblicano a una setta - sostiene nel suo libro -, ha condotto traumatiche crociate. Nel nome di Dio, ha imposto leggi e costumi anti-democratici. Abbiamo taciuto troppo a lungo, le abbiamo lasciato troppo spazio. Il dialogo e la tol-leranza delle altre fedi sono la base delle religioni. E la politica è ricerca del consenso».
Ma l'ex senatore ne incolpa anche la sinistra democratica: «Ha contribuito a questa involu-zione con il suo secolarismo esasperato che disconosce la religiosità che anima il 90 per cento della popolazione».
Obery Hendricks discende da una dinastia di teologi protestanti. Lasciò la chiesa da ragazzo per ri-tornarvi, riferisce, «quando capii che l'insegnamento di Cristo è politicamente rivoluzionario».
Cristo, evidenzia ne La politica di Gesù, «non chiede solo che tu ti redima individualmente, ma che si redima altresì l'intera società, nutrendo gli affamati, vestendo gli ignudi, visitando i carce-rati, curando gli ammalati». I valori cristiani sono innanzitutto questi, proclama, «e i nostri leader politici, compresi i presidenti, vanno giudicati da come li realizzano» (su questo metro di misura, Hendricks promuove Clinton e boccia Bush).
E’ la stessa posizione del televangelista Jim Wallis, che ne La politica di Dio invoca «la e-guaglianza economica e sociale, la giustizia, la pace, la tutela dell'ambiente». Così, con la riconci-liazione e l'integrazione, si protegge la famiglia, e non demonizzando i gay, le ragazze madri, i non credenti o i seguaci di altre fedi, ammonisce Wallis. La strumentalizzazione di Dio da parte dei «te-ocon» è il tema de Il voto santo di Ray Suarez. Il libro denuncia l'indottrinamento delle forze armate per renderle «”un esercito cristiano" degli alunni nelle scuole per prepararli alla guerra culturale, degli elettori per indurli a votare contro i «liberal». S'insegna loro, lamenta, che le nostre politica e-stera e guerra preventiva sono inspirate da Cristo, e che chi non è con la destra cristiana - in Ameri-ca e all'estero - è contro la patria. Questa identificazione tra il fondamentalismo e il Paese è inam-missibile, avverte Suarez. E si basa su un presupposto falso, l'infallibilità dell'interpretazione «teo-con» della Bibbia, aggiunge Sam Harris nel suo saggio Lettera a una nazione cristiana. Come si può credere, protesta Harris, che una lettura così antiquata sia la perfetta guida alla morale? Storicamen-te, l'America è sempre stata riformista e revisionista, deve a ciò la sua grandezza, ma oggi rischia la restaurazione.
Quando e quali frutti darà lo sforzo di questo Partito trasversale della tolleranza religiosa non è ancora chiaro. Alan Wolfe calcola che i conservatori di Dio siano un quarto circa della popo-lazione, e prevede che a poco a poco perderanno il loro potere: «La maggioranza degli americani incomincia a decifrare che cosa si nasconda dietro la loro fede: uno scontro tra l'ideologia e la cen-sura da un lato, e il pragmatismo e la libertà di pensiero dall'altro». Talune immagini, precisa, susci-tano ormai disagio, «come gli aerei da guerra e i carri armati mescolati alle croci nelle chiese, o co-me i monumenti ai Dieci comandamenti collocati davanti ai tribunali»
Ma c'è chi teme che la destra religiosa riesca ancora a condizionare non solo le elezioni con-gressuali di novembre, ma anche quelle presidenziali del 2008. OliverThomas, un prete del Tennes-see, ha lanciato un grido d'allarme: «Ricordatevi che Dio non è la mascotte dei repubblicani, nè dei democratici e tantomeno dell'America. Dio trascende tutti i Partiti e tutte le nazioni. Il suo collegio elettorale è l'universo, per gli uomini dì buona volontà».

IL CONSIGLIO DI UN LAICO: NON ABUSARE DI DIO NEL DISCORSO PUBBLICO

• da Il Foglio del 18 ottobre 2006, pag. I

di Gian Enrico Rusconi

Dio è trendy" scrivono i rotocalchi, deliziando i monsignori e agenzie giornalistiche religio-se. Ma nel contempo gli uomini di chiesa insistono con toni accorati di "non escludere Dio dalla sfera pubblica”. A fasi alterne si sente parlare di rivincita o di mortificazione della religione. In que-sta situazione l'atteggiamento più saggio è quello di non abusare di Dio nel discorso pubblico. Que-sto invito non equivale a porre restrizioni all'espressione pubblica di convincimenti dei cittadini che deve essere garantita a tutti: credenti, non credenti e diversamente credenti. Ma è in gioco la salva-guardia della sostanza laica della democrazia che tutti, a parole, dichiarano di volere.
L'invito a non abusare di Dio esige chiarezza nel definire i confini tra sfera pubblica in gene-rale e discorso pubblico mirato alla decisione politica. Invita a non utilizzare in modo implicito, sur-rettizio, allusivo argomenti religiosi in contesti deliberativi che portano alla produzione di leggi che devono valere per tutti. Non dissimulare come etica razionale o naturale quella che è una dottrina religiosa, storicamente e culturalmente condizionata.
Per il laico le questioni attinenti la "natura umana", con le loro implicazioni scientifiche, eti-che e politiche, e la questione di Dio sono separate. Questa separazione tra Dio e natura, che crea grande turbamento nel credente tradizionale, non discende da un pregiudizio ateistico , bensì si fon-da sull'assunto dell'etsi deus non daretur.
Questa formula lungi dal rappresentare un mascherato disimpegno dalle grandi questioni eti-che sull'uomo e sul mondo, contesta la presunzione di parlare autoritativamente in nome di Dio su questioni razionalmente/ragionevolmente controverse, in particolare sul tema della natura umana... Proprio la formula dell'etsi deus non daretur enuncia l'impegno di ripensare radicalmente il rapporto tradizionale tra "fede e ragione" — per usare un'espressione molto cara a Papa Ratzinger che al te-ma della convergenza positiva, anzi fondativa, tra razionalità e fede investe tante energie intellettua-li.
A questo proposito la lezione da lui tenuta all'università di Regensburg/Ratisbona è davvero rilevante, non tanto per l'enorme risonanza mondiale, imprevista e imputabile ad un difetto comuni-cativo da parte del Pontefice, quanto perché mostra una concezione della ragione/razionalità che si presta ad un serrato confronto critico. E' paradossale che un discorso dedicato all'allargamento del concetto (europeo-occidentale) di ragione, esteso sino ad includere tutte le religioni, ai fini di un dialogo più ampio, abbia rischiato di pregiudicare i buoni rapporti con la cultura religiosa islamica accusata di fatto (al di là delle buone intenzioni) di essere contro la ragione, quanto meno nella le-gittimazione della violenza nella forma dello jihad.
Ma non è neppure irrilevante notare che tutto l'equivoco si sia prodotto proprio mentre il Pontefice esercitava senza restrizioni il suo ruolo nella sfera pubblica.
La ragione naturale e i sottintesi religiosi
Oggi la strategia comunicativa degli uomini di chiesa punta con particolare insistenza sui motivi della "ragione naturale" o "umana". Eppure ai fini dell'influenza pubblica l'efficacia delle loro ar-gomentazioni si basa sul peso del loro ruolo istituzionale. E su sottintesi religiosi. Se, ad esempio, molte affermazioni perentorie sulla "famiglia vera o naturale" o il ricorso nel dibattito sulle biotec-nologie ad un "primato della vita" intesa in senso totalizzante, non si appoggiassero su un sottinteso re ligioso, esse perderebbero gran parte della loro efficacia persuasiva.
Naturalmente la questione, vista più da vicino, è più complessa. Prendiamo ad esempio l'i-dea dell'uomo come "creatura di Dio" quale fondamento dei suoi diritti fondamentali. Si tratta di una tesi che è convergente con la concezione laica degli stessi diritti umani. E' vero che ad alcuni può apparire problematica l'affermazione che i diritti fondamentali dell'uomo siano "ultimamente rinviabili al Creatore". Ma questo nulla toglie alla positività del fatto che, qualunque sia la motiva-zione, credenti tradizionali e laici sono convinti della intangibilità dei diritti fondamentali dell'uomo che devono rimanere sottratti all'arbitrio del legislatore. Non importa il linguaggio e l'itinerario mo-tivazionale che porta all'affermazione di questo principio.
Il problema nasce invece quando in nome della stessa logica "creaturale" si rivendica ad e-sempio nella discussione sulle biotecnologie al "concepito" (o addirittura all'ovulo fecondato fuori dal corpo materno) i diritti fondamentali dell'uomo, "troncando prematuramente una discussione che noi vorremmo sviluppare per disteso, visto che su tali questioni di fondo intendiamo trovare un accordo politico che rispetti sino in fondo, come vuole la Costituzione, il pluralismo ideologico del-la nostra società".
In breve, i problemi sorgono quando il riferimento a Dio o alle tradizioni religiose porta ad affermazioni sui temi della scienza, in particolare della biogenetica o nella definizione di modelli di relazione sessuale o sulla natura umana tout court, che sono altamente controversi e risolvibili sol-tanto con una ragionevole intesa nel rispetto di tutte le visioni della vita.
Il quadro è reso ancora più complicato da un altro dato di fatto. Nella religione di chiesa più tradizionale, in Italia in particolare, assistiamo ad un progressivo utilizzo dell'apparato teologico-dogmatico in funzione quasi esclusiva della dottrina morale e della sua pastorale. Anzi è in atto una sorta di de-teologizzazione del messaggio religioso a favore della raccomandazione morale in gran parte di carattere privato-sessuale, anche se nobilitata come "difesa della famiglia". Per non parlare dell'appello culturalista alle "radici cristiane" o all'esposizione del crocifisso in luogo pubblico con-siderato alla stregua di un simbolo nazional-popolare. Non credo che il Papa-teologo Ratzinger, con la sua preoccupazione per i contenuti dogmatici sarà in grado di invertire questa tendenza.
La fase postsecolare dello stato secolarizzato
Di fronte a questa situazione in campo laico si fanno sempre più frequenti le voci che non si limitano a denunciare una crescente invadenza della chiesa, ma contestano in linea di principio la sua pre-senza nella sfera pubblica. Ogni apertura del discorso pubblico ad argomenti religiosi — affermano — è una minaccia ai principi della libertà di coscienza, ai fondamenti stessi della laicità, all'idea dello stato laico.
Ritengo che questa posizione critica debba armarsi di strumenti più sofisticati. Per comincia-re il dibattito pubblico non si sviluppa immediatamente su argomenti religiosi ma attorno a "natura umana a visioni della vita" e alle loro regolazioni giuridiche. In questo mutamento di confine nell'e-tica pubblica molti laici "conservatori" si trovano di fatto, loro malgrado, dalla parte dove milita la chiesa. In secondo luogo il pezzo forte della laicità tradizionale — la distinzione tra privato e pub-blico — ha cambiato completamente di senso.

Oggi il confine passa tra il diritto della persona di disporre incondizionatamente delle pro-prie sue risorse generative e la necessità di una normativa comune e condivisa che impedisca effetti degenerativi. Siamo davanti al conflitto tra la rivendicazione del singolo di disporre liberamente del proprio corpo e il principio etico della indisponibilità della dotazione biologica in nome della "di-gnità umana". Sul punto si può discutere a lungo appassionatamente ma intanto è un'aporia da go-vernare.
Lo stato laico, secolarizzato, che deve rispettare l'autonomia e la libertà dei cittadini, si trova davanti a compiti imprevisti ed esposto a pressioni morali e ideologiche di frazioni importanti di suoi stessi cittadini che si ispirano alla dottrina della chiesa, senza per questo sentirsi più "religiosi". Si parla così di una fase postsecolare in cui viene a trovarsi lo stato secolarizzato.
A questo punto vorrei ricordare quanto scriveva alcuni decenni fa un maestro di laicità, Ar-turo Carlo Jemolo, parlando della ”ideologia dello stato laico", di cui lui stesso era interprete. Que-sta formula — diceva "può tenere” se vi è un numero sufficiente di cittadini che vogliono vivere in un clima di libertà, che abbiano rinunciato alla violenza e accettata l'idea dello stato come di una grande associazione di uomini aventi una morale comune ed interessi comuni, ma non le medesime idee su ogni cosa, specie su cose riguardanti la religione. Ma il giorno in cui tali condizioni venisse-ro a mancare tutta la costruzione crollerebbe".
Ebbene, questo giorno è arrivato, ma non nel senso temuto da Jemolo. Gli italiani infatti non rinunciano a godere della loro libertà, ma non hanno più "le medesime idee" non soltanto sulle "co-se riguardanti la religione" bensì sulla "morale comune", su temi che toccano più intimamente la lo-ro vita privata e i suoi riflessi pubblici: idee di vita/morte, di famiglia, ingegneria genetica eccetera — questioni tutte che toccano la "natura umana". In questo contesto molti cittadini (magari senza dichiararsi credenti) guardano al magistero della chiesa come ad un punto di riferimento in problemi morali di rilevanza pubblica. La chiesa diventa influente nella formazione dell'opinione pubblica che accompagna la determinazione delle leggi dello stato.
Ma "la costruzione che crolla" non è lo stato laico come tale, bensì lo specifico apparato cul-turale e motivazionale che lo aveva accompagnato nel suo costituirsi. Oggi tutti si affrettano a proclamarsi laici — Corti e giurisprudenza in prima fila — ma l'impressione complessiva è di insicu-rezza e confusione.
Si tratta di dare ai principi della laicità una nuova solidità ed efficacia sul piano politico-istituzionale ma soprattutto di ricreare una cultura e una capacità comunicativa pubblica nuova.
Laicità come espressione istituzionale e laicità come espressione culturale o atteggiamento morale sono intimamente connesse, ma è soprattutto a quest'ultima dimensione che ora prestiamo attenzio-ne.
L'uomo e il cittadino
Il criterio-base della laicità consiste nella autonoma determinazione delle norme di compor-tamento morale e quindi della loro istituzionalizzazione — in vista della creazione di un ethos pub-blico. Dove ethos significa, al di là della somma delle norme propriamente dette, costume, abitudine morale, sensibilità reciproca tra i cittadini, attenzione alle differenti esperienze di vita e disponibilità a ridefinire sempre insieme le regole della convivenza. In una parola, senso della cittadinanza.
La laicità è anche una concezione della natura umana. La natura umana infatti è laica. Que-sta affermazione va argomentata attentamente, come vedremo, perché implica anche attenzione pri-vilegiata alle scienze sull'uomo. E qui incontriamo il grande paradosso: con lo sviluppo scientifico, dalla biologia alla neurologia, sappiamo sempre meno "che cosa è l'uomo" (metafisicamente par-lando) ma sappiamo "chi è il cittadino" (eticamente parlando), perché i criteri della cittadinanza di-pendono dalle nostre intese e decisioni comuni.
Ritroviamo così la classica dialettica tra ”uomo” e "cittadino" che dà centralità all'idea di li-bertà, di autonomia della coscienza e della ricerca scientifica — concetti che sono costitutivi della nostra civiltà. Si tratta di concetti da rivisitare e rimeditare alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche in un età che — come abbiamo visto - si presenta ad un tempo secolarizzata e postseco-lare.
Ancora. Il principio costitutivo della laicità è l'autonomia di giudizio e la libertà di coscien-za dell'individuo che si considera maggiorenne nelle grandi questioni etiche del nostro tempo. Que-sta autonomia non è affidata a insindacabili valutazioni soggettive bensì a motivazioni che sono a-perte allo scambio di ragioni degli altri verso cui si ha pieno rispetto. La laicità non è un mero at-teggiamento privato perché l'ambito in cui essa si qualifica in modo significativo è il discorso pub-blico e l'etica pubblica. E' nello spazio pubblico che acquista pieno senso la laicità.
Non possiamo chiudere queste anticipazioni di alcuni motivi della nostra riflessione, senza una battuta sulla insistente evocazione nel discorso pubblico delle "radici cristiane" della nostra ci-viltà. E' ovvio che esse sono parte integrante della genealogia della ragione occidentale, e dopo il discorso di Ratzinger a Regensburg dovremmo sempre parlare di "radici greco-cristiane" Ma que-ste noi oggi le traduciamo come "ragioni laiche”.
E' inutile insistere sul fatto che nel corso degli ultimi anni molta pubblicistica ha caricato l'evocazione delle radici cristiane o della identità cristiana tout court come una rivendicazione iden-titaria globale di contro ad una vera o presunta minaccia islamica/Islamista. Questo atteggiamento elude la questione cruciale che il tratto qualificante dell'Europa politica non è l'identità cristiana ma la sua natura laica. Radici cristiane diventate ragioni laiche, appunto.


LE LEGGI CONTRO LA PAROLA UCCIDONO L’ILLUMINISMO

• da La Stampa.it del 20 ottobre 2006

di Michele Ainis

Una fatwa contro la parola risuona in Occidente. L'aggressione di Reggio Emilia a Pansa - reo d'avere infamato la Resistenza - non è che l'ultimo episodio, e ha fatto bene il capo dello Stato a deprecarlo. Ma per l'appunto la lista è ormai più larga d'un lenzuolo, e s'estende ogni volta che qualcuno usi un linguaggio troppo schietto, ovvero depositi un pensiero che non si risolva in stereo-tipo, in apologia del conformismo. Gli esempi? Il discorso del papa a Ratisbona, esecrato dagli i-slamici ma anche da quotidiani liberal come il New York Times. La condanna per diffamazione razziale subita da Edgar Morin, colpevole di offesa nei riguardi dello Stato d'Israele. L'isolamento di cui è rimasto vittima il professor Redeker, presso la stampa francese e presso i suoi stessi colle-ghi, dopo le proprie critiche al Corano. L'annullamento dell'Idomeneo di Mozart a Berlino, per non mandare in scena la testa mozzata di Maometto. Senza dire dello storico David Irving, tuttora dete-nuto in una prigione austriaca per aver negato l'Olocausto.

Ecco, la legislazione «antinegazionista» non è che lo specchio normativo di questo diffuso atteggiamento, e anche qui la legge appena deliberata in Francia per punire chi contesti il genocidio armeno è solo l'ennesimo episodio della serie. Leggi analoghe sono già vigenti in Germania, in Spagna, in Austria, in Belgio, nella stessa Francia, contro la «menzogna di Auschwitz», contro chiunque svaluti o giustifichi i crimini nazisti. Pochi mesi fa la repubblica Ceca ha introdotto una nuova figura di reato per chi santifica il regime comunista. In Italia la legge Mancino castiga le idee fondate sulla superiorità etnica o razziale, col risultato che se ti salta in mente d'additare una qual-che debolezza genetica degli esquimesi verso il solleone rischi fino a tre anni di galera. E tuttavia non basta, non basta mai. A settembre i ministri Amato e Mastella hanno proposto d'allargare la spada della legge alle offese sessuali, accogliendo una vecchia richiesta dell'Arcigay. Questa setti-mana Giorgio Bocca si è dichiarato favorevole ad applicarla pure in difesa della Resistenza. Doma-ni sarà la volta della pace, del federalismo, della probità di giudici e politici (e del resto proprio il mese scorso Sgarbi è stato condannato in Cassazione per aver detto che la magistratura fa politica).

Ma una verità imposta con tutti i crismi del diritto è una verità debole, che non crede più in sé stessa, nelle sue buone ragioni. E a sua volta una parola anestetizzata impedisce per ciò stesso il dialogo, e in ultimo sopisce la forza del pensiero. D'altronde quest'ultimo fenomeno è in corso or-mai da tempo. Negli Usa fin dagli anni Ottanta le università avevano adottato gli speech codes, con un decalogo di termini vietati e di corrispondenti sanzioni. Sempre a quell'epoca l'amministrazione Carter ha trasformato gli invalidi in ipocinetici. E anche in Italia la legge fa divieto d'usare la parola «lebbra», converte i barbieri in acconciatori, cancella i sordomuti. Mentre la Cassazione bacchetta le espressioni dialettali troppo colorite, proibisce le parolacce, si fa custode del politically correct. Né più né meno del Congresso americano, che in luglio ha messo al bando una gran quantità di siti Internet per la medesima ragione.

C'è insomma come una sordina al pensiero indipendente, e alla parola che gli dà voce e forma. Ma questo clima offusca la lezione dell'Illuminismo, rifiuta la tolleranza di cui parlò Voltaire. Espone ciascuno all'infortunio di cui rimane vittima il protagonista della Macchia umana, cacciato dal suo college per un epiteto razzista pronunciato inconsapevolmente. E soprattutto paralizza il confronto frontale delle idee, e perciò rallenta la nostra crescita civile. Come diceva Stuart Mill, an-che quando l'altrui opinione è falsa essa ci procura infatti il vantaggio della più chiara percezione della verità, al cospetto dell'errore. Sicché sarà forse il caso di dettare un'idea controcorrente: invece d'estendere il raggio della legge Mancino sbarazziamocene, proviamo a farne senza.


CHARLES DARWIN È ONLINE

• da La Stampa.it del 20 ottobre 2006

L'opera completa degli studi sull'evoluzione di Charles Darwin è ora disponibile online, in una raccolta in inglese che comprende il taccuino rubato che teneva in tasca durante i sui viaggi alle Isole Galapagos.
All'indirizzo darwin-online.org.uk, sono disponibili decine di migliaia di pagine di testi e immagini e file audio, compresi alcuni manoscritti sinora inediti e diari del grande scienziato britannico.
Nella collezione unica anche il taccuino usato durante i viaggi sul Beagle che ispirarono più tardi le sue teorie, che era stato rubato nel 1980. Il pronipote di Darwin spera che la pubblicazione del tac-cuino sul web, grazie a una trascrizione da una copia in microfilm fatta vent'anni prima, convinca chiunque se n'è impossessato a restituirlo.
"Ha una grande importanza per la storia della scienza", ha dichiarato Randal Keynes alla Bbc. "Speriamo vivamente che ora si sappia che è stato rubato e che le sue immagini sul web pos-sano esser viste da chiunque, che venendo a galla qualcuno contatti l'English Heritage, i proprietari, consentendo loro di recuperarlo riportandolo alla casa di Darwin, dove dovrebbe essere".
Tra gli altri articoli della collezione consultabile gratuitamente che conta 50.000 pagine e 40.000 immagini, le prime edizioni del Journal of Researchers, scritto nel 1839, The Descent of Man, The Zoology of the Voyage of HMS Beagle, che comprende le sue osservazioni nel corso dei suoi cinque anni di viaggi in Amazzonia, Patagonia e nel Pacifico, e le prime cinque edizioni del-l'Origine delle Specie.
John van Wyhe, direttore del progetto gestito dalla Cambridge University, ha detto che la collezione è così completa che contribuirà a sfatare "molti luoghi comuni e miti" sul naturalista. Al-la Bbc ha anche detto che ora non ci saranno intermediari con l'autore ed i suoi scritti.
Nei prossimi tre anni alla collezione verranno aggiunti altri scritti, in coincidenza con bicentenario della nascita di Darwin.

IL VELO: OBBLIGHI, RIVOLTE E LEGGENDE MA ALLA MECCA SI VA A VOLTO SCOPERTO

• da Corriere della Sera del 19 ottobre 2006, pag. 25

di Cecilia Zecchinelli

"Sulla complessa questione del velo, da anni si svolge una violenta guerra di penna, di nessuna utili-tà, in cui non hanno vinto ne i conservatori nè i liberali». Lo scriveva neI 1910 una delle più impor-tanti femministe arabe, l'egiziana Bahitat al Badiyah. Oggi, a un secolo di distanza, siamo tornati al-lo stesso punto. Anzi, la «violenta guerra» non è più tra intellettuali: è diventata politica, tra governi (e parte della società laica e moderata) e chi invoca (a volte tenta d'imporre con la forza) il "ritorno alle origini».
L'INIZIO — «In realtà alle origini non era previsto nulla, le tribù avevano abbigliamenti casuali che non conosciamo nemmeno bene — spiega Alberto Ventura, professore di Islamistica all'Orien-tale di Napoli—. Tutto nasce, secondo varie fonti, da un episodio della vita del Profeta: dopo uno dei suoi numerosi matrimoni, alcuni ospiti non volevano andarsene, infastidendo lui e le sue mogli. Ed ecco che “scese” il versetto del velo. Più che un vero abbigliamento, di cui il Corano non parla, prescrive una distinzione tra pubblico e privato. Le sue moglie iniziarono comunque a velarsi, pre-sto seguite dall'élite che lo considerava segno di nobiltà».
Da allora, milioni di parole sono state spese suill'interpretazione di quel versetto. «Ma per secoli — continua Ventura—, anche a causa dell'influenza dei veli usati dall'oriente cristiano, prevalse la re-gola che la donna dovesse essere coperta ma avere liberi mani, piedi e volto». E infatti, anche chi usa il niqab, il discusso velo integrale, alla Mecca è tenuta a toglierselo: il pellegrinaggio si fa da 14 secoli a volto scoperto.
LE DIFFERENZE — Le varie scuole dell'Islam sunnita, e di quello sciita, non prevedono obblighi diversi. Piuttosto ci sono differenze dovute a influenze e tradizioni locali. «Nei Balcani e in India abbiamo forme di velo leggere; nel Nord Africa spesso niente, soprattutto tra le berbere; in Afgha-nistan vige la copertura totale», dice Ventura, che sottolinea invece come le grandi differenze sono sempre state tra città e campagna. «Come da noi, una volta: le cittadine erano più libere, nei villaggi nessuna andava a testa scoperta». Alle varie forme di velo corrispondono, ancor più numerose per le varianti linguistiche, innumerevoli parole per definirle: hijab, niqab, jilbab, khimar, ridaa, chador, burqa... .. Perfino gli esperti musulmani vi si perdono.
DECLINO E RITORNO — Avversato dalle proto-femministe arabe, anche il velo sulla testa ini-ziò dagli anni Venti un declino. Da quando Hoda Al Saarawi, un'altra mitica egiziana, se lo strappò in pubblico nel 1923, i Paesi più aperti al mondo (a partire da Egitto, Libano e Tunisia) cominciaro-no ad abbandonarlo. Per contro, nelle regioni isolate come il Najd, al centro dell'attuale Arabia Sau-dita, il velo assunse forme più drastiche per la svolta wahhabita. Qui sono le beduine del deserto le più «scoperte». Nelle città il controllo sociale è invece totale. E l'Arabia, con l'Iran post-rivoluzione, è l'unico Paese dove almeno sulla testa il velo è d'obbligo. Ma poco dopo il gesto di Hoda, inizia anche il fermento fondamentalista. «Proprio in Egitto, negli anni Trenta, i neonati Fratelli musul-mani, prima ancora che per uno Stato islamico, si battevano per la 'morale' e quindi il velo: si vede-vano minacciati dalle novità nell'ambito familiare e nella sfera della sessualità», dice Ventura. In quel periodo nasce il velo “stile suora”, iniziano le battaglie sul concetto di “libertà". Battaglie che poi si estenderanno alle stesse donne. «Se fino agli anni Sessanta le femministe erano tutte per abo-lire il velo — sostiene Ventura — poi nascerà una strana scuola di femminismo che difende l'abbi-gliamento "islamico" come contrapposizione all'imperialismo culturale dellOccidente. In Iran, ad esempio, molte ne hanno fatto un cavallo di battaglia, dicono che così si riappropriano dello spazio pubblico». Lo stesso discorso viene portato avanti da molte emigrate in Occidente, da moltissime convertite.
LA «FITNA» — Oggi, con l'acuirsi dei contrasti tra Islam e Occidente, ma anche tra governi dei Paesi islamici e larghi strati della società, il velo è tornato in primo piano. Perfino l'hijab, che scopre il viso, è vietato in Turchia e Tunisia, scoraggiato in Marocco: come la barba maschile è considerato simbolo di fitna, sedizione interna alla comunità dei credenti, uno dei peccati più gravi nell'Islam. «Il velo è ora legato al discorso politico, tutti sbandierano motivazioni religiose ma il conflitto è i-deologico», dice Ventura. Nonostante le condanne dell'Occidente (qualcuno pensa anche a causa di queste condanne), grazie a molti sheikh che via tv satellitare arrivano ovunque, il velo però continua a diffondersi. La società civile spesso tace, non riconoscendosi nei fondamentalisti ma neppure nei regimi. E la questione, che era già "complessa” un secolo fa, oggi lo è molto di più.

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L’ECCEZIONE TURCO (LIVIA)

• da Il Riformista del 20 ottobre 2006, pag. 2


Non abbiamo rinunciato a credere che sulle unioni civili o sulla fecondazione assistita o sul-le condizioni di lavoro delle donne l'Italia possa un giorno colmare il divario con gli altri paesi oc-cidentali. Ma un po' di sfiducia, lo ammettiamo, c'è. Soprattutto per il disimpegno ostentato a spron battuto dal presidente del Consiglio Romano Prodi e dalla maggior parte dei suoi colleghi di gover-no su queste civilissime questioni. Ma come ogni regola che si rispetti, pure questa ha una sua ecce-zione. Che ancora una volta si chiama Livia Turco.
Sulle battaglie per rendere questo paese un po' più civile, la ministra per la Salute si sta di-mostrando la vera avanguardia del governo. Da quest'estate ne ha promosse un bel po': ha esordito dicendo che i medici devono scegliere tra pubblico e privato, ha promosso un fondo per le famiglie che hanno a carico persone non autosufficienti, ha trattato senza sbavature con i farmacisti in piaz-za, ha reso più meritocratiche le nomine dei direttori degli istituti di ricerca e ieri ha presentato due disegni di legge approvati in Consiglio dei ministri che meritano un aggettivo fuori moda: progres-sisti. Questi provvedimenti rendono piu semplice la prescrizione dei farmaci antidolore (compresi gli oppiacei contenenti cannabis) e introducono negli ospedali pubblici l'anestesia epidurale per il parto. Inoltre, ha esteso il divieto di vendita di alcolici in autostrada alle 24 ore (attualmente e dalle 22 alle 6). Per il presidente della Società italiana di cure palliative, Furio Zucco, «non vi saranno più ostacoli formali e scuse per non prescrivere queste medicine indispensabili per lenire i dolori di ol-tre 300 mila persone ogni anno, facendo uscire finalmente il nostro Paese dal ruolo di fanalino di coda nell'indice della sensibilità culturale nel trattamento contro la sofferenza». Noi, non possiamo che condividere in pieno.


DOCUMENTI

ROVESCISMO, FASE SUPREMA DEL REVISIONISMO

• da La Stampa.it del 18 ottobre 2006

di Angelo d'Orsi

Il libro di Giampaolo Pansa «La grande bugia», sulle zone d’ombra della Resistenza, di cui La Stampa ha parlato il 3 ottobre, scatena polemiche. Lunedì sera, a Reggio Emilia, è stato dura-mente contestato: esponenti dei centri sociali hanno occupato la sala cantando Bella ciao. Hanno fatto seguito una rissa, lo sgombero della sala da parte della polizia e perfino l’evocazione di un fa-moso collega di Pansa: i dimostranti hanno gridato «Viva i fratelli Cervi! Viva Giorgio Bocca!». Ie-ri sera, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha espresso al giornalista «la sua profonda deplorazione per gli atti di violenza di cui è stato oggetto». Sull’opera di Pansa interviene critica-mente lo storico Angelo d’Orsi.
Chi sospetta che le ambizioni del giornalista Pansa siano di tipo politico, può ritenersi ac-contentato, sia pure col beneficio del dubbio: il «caso» è diventato un problema di ordine pubblico, dopo gli insulti e le baruffe a Reggio Emilia tra giovani di sinistra che contestavano Pansa e giovani di destra che ne prendevano le parti e intervento finale della polizia.
Sarebbe tuttavia un errore isolare Pansa: ormai si deve parlare di tutta una categoria di «ro-vistatori» della Resistenza, che grattano il fondo del barile per vedere dove si annidi (eventualmen-te) il marcio, e anche se non c'è, lo si inventa, lo si amplifica, e lo si sbatte in prima pagina. Che questa operazione sia fatta senza alcun criterio storico, senza le cautele minime di qualsivoglia stu-dioso, poco importa. Se gli autori di libri di tal fatta, vendono, troveranno editori disposti a scom-mettere su di loro, media pronti a parlarne (e come si fa a non parlarne?), e un pubblico via via più incuriosito.
Una categoria inesauribile
Ma anche i rovistatori della Resistenza rientrano in una categoria più ampia, che sembra ine-sauribile e dalla quale ci dobbiamo aspettare altre puntate, sempre più clamorose. Noi sappiamo be-ne che esiste una differenza essenziale tra la revisione, momento irrinunciabile del lavoro del ricer-catore storico, e il revisionismo, che possiamo definire come l'ideologia e la pratica della revisione programmatica. Se l'una ha un valore eminentemente storiografico, l'altro si colloca in un ambito sostanzialmente politico: qual è infatti il compito dello storico? Quello, nobile e problematico, di accertare la verità dei fatti, sulla base dei documenti («pas de documents, pas d'histoire»: senza do-cumenti non c'è storia, ci ha insegnato la grande tradizione metodologica francese). I documenti vanno opportunamente trattati, onde accertarne l'autenticità, la provenienza e la veridicità (esistono documenti autentici che raccontano frottole e documenti falsi che dicono verità), opportunamente «interrogati» e «sollecitati» (consiglio al riguardo ai sedicenti «storici» dalle trecentomila copie, la lettura dell'ultimo libro di Carlo Ginzburg: Il filo e le tracce), e infine interpretati. In tal modo, sulla base della scoperta di nuove fonti - documenti fino ad allora sconosciuti - o del perfezionamento di tecniche di ricerca, o dell'emergere di sensibilità nuove, si procede a quell'incessante lavoro di «re-visione», che è anima del lavoro storiografico. La conoscenza che così si può raggiungere è il pro-dotto collettivo di individui singoli e di intere generazioni; tutti coloro che fanno ricerca possono portare i loro mattoni a questo edificio, correggendo, integrando il già costruito, o facendo salire il livello della costruzione, piano dopo piano.
Comiche rivelazioni
Ma il revisionismo vuole invece pregiudizialmente «rivedere», possibilmente in modo dra-stico, le conoscenze acquisite, partendo dal presupposto che quello che abbiamo appreso finora sia-no «bugie»: sintomatico in tal senso il titolo dell'ultimo Pansa (La grande bugia) o quello del recen-te pamphlet di Melograni (Le bugie della storia), nel quale apprendiamo una serie di comiche «rive-lazioni» partorite tutte dalla fertile inventiva dell'autore: da Marx che «ignorava il mondo del lavo-ro» a Hitler che «non voleva la guerra». Con questi due esempi - non sono certo gli unici - siamo oltre il revisionismo: siamo in pieno «rovescismo». Che può essere definito come la fase suprema del revisionismo stesso. Volete assicurarvi il successo in un pubblico vasto e ingenuamente appas-sionato di storia? Bene. Basta prendere un fatto noto, almeno nelle sue grandi linee, un personaggio importante, un episodio che ha costituito un momento variamente epocale…
I comunisti menzogneri
Poi si afferma che tutto quello che sappiamo in merito è una menzogna, o perché fondata sulla falsità, o perché basata sull'occultamento; di solito, responsabili delle menzogne e dei nascon-dimenti della verità, sono «i comunisti», da Gramsci fino ai suoi pronipoti, con un particolare acca-nimento su Togliatti. Che viene presentato, spesso e volentieri, egli stesso come un soggetto storico su cui esercitare l'arte speciosa del rovesciamento, e come ispiratore delle trame storiografiche ne-gatrici della verità, infine rimessa a posto dai Pansa e sodali. Dunque, se quello che si sa è menzo-gna, si tratta di costruire una «verità alternativa». E più si spara alto, più si allarga il bacino d'uten-za. I Borboni erano illuminati, Cavour un pedofilo, Garibaldi un maniaco, i partigiani assassini…
Un filone d’oro
Quest'ultimo filone è il cavallo di battaglia di Pansa, la sua gallina dalle uova d'oro. Senza alcun rispetto per i più elementari principi del lavoro storiografico, egli sta ormai perseguendo da anni un sistematico rovesciamento di giudizio sul '43-45. Naturalmente, ciò non sarebbe possibile senza editori che sollecitano libri di tal genere, libri che rovescino quello che si sa… altrimenti chi lo compra un altro libro sulla Resistenza?
Dall'alto delle loro centinaia di migliaia di copie, i rovescisti irridono agli accademici pigno-li, magari «invidiosi» del loro successo, i quali (udite, udite!) vorrebbero le note a piè di pagina. Ma le note non sono altro che la possibilità offerta al lettore di verificare quello che scriviamo, se non vogliamo rimanere nel regno della fiction: chi ci legge deve poter fare il nostro stesso percorso, al limite andando a frugare negli stessi archivi dove noi abbiamo lavorato, e controllare se ci siamo inventati i documenti, o li abbiamo alterati… Per i rovescisti questa è inutile noiosaggine professo-rale. Dobbiamo fidarci del loro intuito, o - come Pansa procede - delle loro ricostruzioni fatte sulla base di racconti altrui, o di «travasamenti» di libri in altri libri. Così Benedetto Croce, che molti de-cenni or sono denunciava le «pseudostorie». Nulla di nuovo sotto il sole, in un certo senso. Per rac-contare la storia non basta scrivere, perdipiù con il ricorso furbesco a un piano di comunicazione che mescola l’invenzione narrativa (se così vogliamo chiamarla) e la pretesa di «raccontare i fatti»: per tal via ogni contestazione di metodo e di merito è impossibile. L'autore ha la risposta pronta. Se lo becchi in castagna ti può sempre rispondere che la sua è «libera ricostruzione», e che non si può pretendere l'esattezza.
Vogliono solo far colpo
Il problema è che la storia, quella vera, mira precisamente alla maggiore esattezza possibile, in quanto scienza, il cui compito è avvicinarsi in uno sforzo continuo alla verità. I rovescisti voglio-no fare colpo, vendere libri, far parlare di sé. E ci riescono. Quel che è grave è il risultato del loro «lavoro»: una totale perdita di significato della storia, e la nascita di una specie di senso comune nel quale c'è posto per tutti, trasformando l'arena della ricerca in un infinito talk show, una situazione in cui la ricerca diventa opinione (avete detta la vostra, ora diciamo la nostra), e tutte le opinioni hanno la medesima legittimità. Tutto viene equiparato, e le ragioni degli individui sono confuse con le ra-gioni delle cause per cui si battono. Norberto Bobbio ammoniva i revisionisti con una domanda ri-masta senza risposta: «E se avessero vinto loro?». Se avesse prevalso il nazifascismo, insomma? Davvero la causa dei resistenti può essere equiparata a quella dei «ragazzi di Salò»? Il «sangue dei vinti»?! E quello dei partigiani? E quello degli italiani mandati al macello da Mussolini?
Con questa deriva pseudostorica, insomma, tutto si può dire, impunemente. Non concordo con la contestazione dei giovani a Pansa: i rovescisti continuino pure a scrivere quello che certi edi-tori chiedono, ma, per favore, non chiamatela «storia».

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