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Il socialismo è morto?
info 10.IX.2006

Info SOCIALISTA 10 settembre 2006
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 Trento/Bolzano
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Quindicinale - Anno 3°


SOMMARIO:
- Un libro, per cominciare: Islam e violenza – di Francesca Paci
- ECCO PERCHÉ SONO FIERO DI ESSERE SOCIALISTA di Giuliano Amato
- Basta, il socialismo è morto – di Valentino Parlato
- Ecco perché il socialismo non può morire - di Massimo L. Salvatori

- Memento
Il metodo, il merito e l’interesse generale del paese – di Franco Reviglio


UN LIBRO, per cominciare (“Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges)

Autore: Francesca Paci
Titolo: Islam e violenza

Ed. Laterza, 174 pagine, 10,00 euro



Dell'islam italiano si offre troppo spesso un'immagine monolitica: per gli alfieri dello scontro di civiltà ogni immigrato musulmano è un pericoloso nemico, per gli ultrà del relativismo anche i costumi tradizionali più incivili vanno accettati come segni di diversità culturale. Tra questi due estremi si estende lo spettro dell'islam reale, che la giornalista della Stampa ha cercato di conoscere da vicino, intervistando intellettuali, esponenti delle comunità religiose e persone comuni che vivono in Italia..


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ECCO PERCHÉ SONO FIERO DI ESSERE SOCIALISTA

di Giuliano Amato

· da La Repubblica del 28 agosto 2006, pag. 1

Caro direttore, l'articolo di John Lloyd, "Che cosa vuol dire definirsi socialisti", pubblicato giorni addietro da "La Repubblica", rivolge ai socialisti la classica domanda esistenziale: ma dopo tanti anni e tanti cambiamenti in che cosa consiste la vostra identità? Siete proprio sicuri che la potete considerare ancora socialista, visto che ora liberalizzate l'economia anziché nazionalizzarla, riducete le pensioni pubbliche e fate spazio alla previdenza privata e fate vostre istanze che un tempo avreste ritenuto moderate e altrui? Siete, sia chiaro, una ammirevole forza di progresso nelle odierne società europee e vi state battendo per valori e principi tutti da condividere. Ma la visione che offrite, il pluralismo, la solidarietà, l'ambientalismo e la passione democratica che oggi connotano voi, e non solo voi, li potete davvero ricondurre alla vostra "fierezza" socialista? Capisco le domande e condivido l'approdo a cui vogliono portare. Ma da vecchio socialista riformista, che si è sempre battuto contro le visioni autoritarie e stataliste in vario modo prevalse nella mia famiglia politica nel corso del ventesimo secolo, sento il bisogno di rivendicare quei tratti identitari, che il socialismo lo fanno riconoscere più nella sinistra dei diritti e del pluralismo di oggi, che in quella dello statalismo di ieri. Si tratta, del resto, dei suoi tratti originari, perché la grande aspirazione di cui il movimento socialista seppe farsi storicamente interprete, l'aspirazione all'eguaglianza, era geneticamente collegata alla libertà, esprimeva il sacrosanto desiderio dei tanti di avere quel bene la libertà di cui soltanto i pochi avevano goduto in precedenza. So bene che proprio in ragione delle ideologie poi prevalse nel movimento socialista eguaglianza e libertà hanno finito per contrapporsi, tanto da fare del "socialismo liberale" un ossimoro coltivato a lungo da una minoranza e guardato addirittura dai più (all'interno della famiglia) come un cedimento al nemico di classe. Ma la verità delle cose è che da quell'ossimoro, in realtà, eravamo partiti e ad esso siamo infine tornati dopo che le ragioni di quei più si sono rivelate errori, se non vere e proprie tragedie, e che loro stessi hanno finito per accettarne i postulati. Nella storia, dai greci, sino alla rivoluzione francese, l'eguaglianza aveva sempre avuto per metro le libertà e i diritti. E proprio per questo ottenere eguaglianza aveva sempre significato arrivare a condividere libertà e diritti dai quali si era in precedenza esclusi. Non era un'aspirazione diversa, anzi era solo più ampia e diffusa, quella che nell'800 trovò le sue radici nelle durezze del nascente capitalismo industriale mentre perdurava lo sfruttamento nelle campagne. E fu davanti alle sconvolgenti novità di quel tempo che presero corpo, sino a prevalere, ideologie che incrinarono lo storico collegamento fra eguaglianza e libertà, ipotizzando nuove organizzazioni sociali complessive che l'eguaglianza l'avrebbero realizzata attraverso trattamenti uniformi erogati dall'altro a scapito quindi della libertà. Tutto ciò sarebbe accaduto - si intende - in nome di una "superiore" libertà e in base al principio - incontestabile - che estendere davvero ai tanti le libertà dei pochi non è operazione fattibile estendendo sic et simpliciter gli assetti esistenti: l'istruzione a tutti non la si dà portanto un tutore in tutte le famiglie, la si dà creando una scuola pubblica. Ma l'ubris delle ideologie (non solo socialiste) del tempo fu tale che si andò ben oltre nella progettazione delle future società dell'eguaglianza. E in casa socialista gli elementi di analisi e interpretazione della storia forniti da Marx, indiscutibilmente formidabili, divennero tuttavia ben di più, divennero una scienza che pretese di imporsi alla stessa storia e di farla evolvere secondo regole che, se ben conosciute e applicate senza errori, avrebbero portato ai risultati voluti. A una tale scienza si ispirò il comunismo ma da essa non fu immune neppure la socialdemocrazia burocratica e deterministica, alla quale, non a caso, si contrappose Bernstein, ricordando che la storia non si dirige verso fini, ma è nutrita di movimenti in cui occorre farsi largo cercando di avere una bussola. C'è voluto oltre un secolo perché Bernstein avesse ragione e l'avessero con lui tutti i socialisti che avevano visto e vedevano l'inammissibile potenziale di potere, partitico, burocratico e statale, che scaturiva dall'impostazione prevalente: con conseguenze tragiche laddove quel potenziale si era tradotto in regimi comunisti, con conseguenze distorsive, diseguali e dispersive di risorse laddove si era tradotto in nazionalizzazioni e pubblicizzazioni a tappeto in contesti socialdemocratici. Certo si è che oggi a prevalere sono i postulati dell'ossimoro liberal-socialista: la storia non è guidata da regole scientifiche, ma è mossa da azioni e interazioni dall'esito imprevedibile, nessuno può aspettarsi di realizzare un futuro già scritto, garantire la libertò a chi non l'ha significa metterlo in condizioni di camminare sulle sue gambe e non fargli nunc et sempre da angelo custode, la pubblicizzazione non è una forma di contrasto dal potere privato nell'economia necessariamente migliore dell'antitrust. Non è il tramonto, è la vittoria del socialismo, sono indotto a dire io. E ci tengo a che la si legga così, altrimenti si rischia ciò in cui anche Lloyd cade e cioè di veder sfumare, a questo punto, le differenze più rilevanti fra destra e sinistra. Lloyd dice: a questo punto da voi mi aspetto differenze eclatanti, mi aspetto solidarietà, integrità e rispetto della "rule of law" in misura "maggiore" che dalla destra. Manca qualcosa in questa lettura, manca la percezione di quello che era e non può non rimanere la bussola basilare dei socialisti: la libertà per i più e non per i pochi. Seguire questa bussola può anche portare a differenze che in più casi si manifestano come quantitative. Ma c'è indiscutibilmente qualcosa di più. Certo, non posso non essere consapevole della storia, né del fatto che la storia la si paga sempre: non tanto e non soltanto la storia comunista,che non è quella del mio socialismo, quanto la storia della stessa socialdemocrazia, per la parte rilevantissima in cui questa finì per immedesimarsi con un ruolo dello Stato nell'economia che, specie dopo la crisi del '29, ebbe anche ispirazioni diverse, produsse positivi effetti di stabilizzazione, ma è oggi largamente superato. Una tale immedesimazione pesa ancora oggi sull'identità socialista, di sicuro pesa sulla lettura che gli altri ne danno e quindi sulla sua stessa capacità di attrazione. D'altra parte il socialismo liberale, in ragione della sua storica e pur immeritata minorità, non potrebbe mai bastare a realizzare da solo il fine della "libertà eguale". Deve tenerlo distinto e lontano dalle accentuazioni individualistiche che avvelenano le società del nostro tempo e deve per questo sapersi legare ai movimenti, in genere di ispirazione religiosa, fortemente orientati alla solidarietà collettiva ed alla responsabilità verso gli altri. Con loro e non solo con loro deve altresì creare una rete che, in ogni parte del mondo, la libertà eguale la radichi e la faccia maturare, tagliando l'erba sotto i piedi, non solo ai tradizionali fattori di sfruttamento e di emarginazione, ma anche alle ideologie radicali e ai populismi che, in nome della emancipazione, minacciano di produrre nuove e vecchie schiavitù e di destabilizzare il mondo. Sono dunque socialista e fiero di esserlo. Ma proprio per questo sono pronto a confondere la mia identità con quella di quanti, nel contesto del nuovo secolo, in Italia in Europa, in Europa e nel mondo, possono concorrere a realizzare con me l'ossimoro io cui ho sempre creduto.



Basta, il socialismo è morto

di Valentino Parlato
• da Il Manifesto del 30 agosto 2006, pag. 1



Il famoso e celebrato Anthony Giddens a forza di camminare sulla ”terza via” è arrivato a una conclusione definitiva: “ll socialismo è morto” e da un bel po' di tempo: dal 1989. Basta, il socialismo è morto e non se ne parli più. Le sue idee-forza: la libertà fondata sull'eguaglianza; l'economia governata dall'interesse di tutti e non solo dei padroni; l'intervento pubblico per governare o almeno regolare il mercato. Tutta roba da buttare nella spazzatura o, massimo, in un museo archeologico. Ma, aggiunge subito il buon Giddens, la sinistra non è morta, vive ancora. Ma per che fare? Per fare l'assennata e generosa ancella del signor capitalismo: “favorire un miglior funzionamento dei mercati ed espandere il loro ruolo, piuttosto che ridurlo”, spiegare che la politica di liberalizzazione del mercato del lavoro non è antioperaia: «il welfare deve assumere sempre più le caratteristiche di un meccanismo di investimento sociale». E così prosegue: “non è di destra ammettere che la criminalità e il disordine sociale rappresentano un grave problema per molti cittadini”. "Non è di destra sostenere che l'immigrazione dovrebbe essere controllata” e così di seguito. A questo punto sono inevitabili due domande al professor Giddens. Indubbiamente il socialismo attraversa una fase di bassa, e anche l'aggettivo “socialdemocratico" può apparire troppo di sinistra. Dato tutto questo per scontato come si fa - è la prima domanda - a firmare il certificato di morte dell'aspirazione a un mondo più eguale? Aspirazione che ha una storia, che ha fondamenti culturali forti, che affonda le sue radici nella società degli uomini e delle donne e che è un'idea di liberazione direi insita nella società. Per precisare aggiungerei che sbaglierebbe anche chi dicesse che il liberismo è morto. Qualche riflessione di più sulla storia e la natura del genere umano dovrebbe far argine a queste semplicistiche (e interessate) sentenze di morte. La seconda domanda tocca la sostanza di questa sinistra che ancora sopravviverebbe. A leggere Giddens su “Repubblica” di ieri sembra il contrario di quel che abbiamo sempre inteso come sinistra o, al massimo, una disgustosa sciacquatura del socialismo dato per morto.



Ecco perché il socialismo non può morire

di Massimo L. Salvadori

• da La Repubblica del 5 settembre 2006, pag. 1


I critici del socialismo come movimento sia ideale sia organizzato hanno a mio avviso pienamente ragione a denunciare il dato evidente che al suo interno regna una forte confusione e a ritenere che con esso occorra fare i conti. Stando alle voci che hanno trovato eco su questo giornale, la grande maggioranza pensa che si tratti di chiudere i conti con un'esperienza che ha avuto un'enorme importanza storica, ma che ora si presenta definitivamente esaurita. Amato va controcorrente, però solo in parte, poiché anch'egli non ritiene auspicabile o difendibile la persistenza della sua autonomia organizzativa. In effetti, nessuno può chiudere gli occhi di fronte al fatto che sopravvive un'Internazionale socialista, esiste un Partito socialista europeo, operano nel mondo un numero assai elevato di partiti socialisti, ma che tutti navigano in un mare incerto, nella prevalente difficoltà di elaborare strategie, programmi di governo che diano loro una distinta fisionomia, insomma di presentare un volto ideale e politico ben definito. Se si tratti di morte come affermano Lloyd e Giddens o meno, certo la malattia è grave. Ma l'interrogativo che pongo è il seguente: è solo il socialismo a non essere in buona salute? Dove e chi sono le correnti, le organizzazioni e i partiti in grado di lanciare messaggi limpidi, di proporre piattaforme davvero efficaci in relazione ai problemi sempre più complessi della governabilità dell'Occidente e più in generale del mondo?

Mi pare di ben comprendere le critiche rivolte allo stato attuale del socialismo da Lloyd, Giddens e Touraine, ma devo d'altra parte dire di non poter fare altrettanto per quanto attiene alle loro conclusioni.
Poiché il socialismo è morto o muore se altri è ben vivo, se altre forze sono in grado di recepirne le istanze di fondo che si ammette abbiano una loro autentica validità e di incorporale in sé; altrimenti le cose si complicano. Oggi si parla della morte del socialismo perché esso è in crisi. Ma quante volte è parso che il liberalismo fosse defunto e che lo fosse anche la democrazia? Al solo socialismo bisogna negare la possibilità di una ripresa?

Chi guardi alla scena che si presenta la vede, a mio giudizio, dominata dai seguenti fattori. L'ondata neoliberista nell'era della globalizzazione ha innalzato la bandiera della libertà dei soggetti economici e dell'espansione del mercato; ma i soggetti protagonisti del mercato globale sono i grandi potentati finanziari ed industriali, che piegano la società ai loro prevalenti interessi, esercitano un'influenza decisiva sulle politiche degli Stati e non esitano quando loro conveniente a difendere monopoli e a invocare politiche protezionistiche, sono responsabili in molti paesi di vaste pratiche di corruzione, generano una distribuzione delle risorse che negli ultimi anni ha portato ad un divario sempre crescente tra le quote di reddito dei ceti alti e quelli medio-bassi. La solidarietà sociale viene largamente invocata, ma si attacca come statalismo il prelievo fiscale che può rendere disponibili le risorse necessarie ad attuarla.
L'assistenza sanitaria è assicurata ad alti livelli per chi può pagarla e lo è sempre meno a chi dipende da un settore pubblico impoverito. Mentre i ricchi godono di mezzi che garantiscono loro una tranquilla continuità di reddito ed elevati consumi, troppi sono coloro che dispongono di retribuzioni insufficienti o che lottano in condizioni di precarietà o di povertà per avere un salario.

Ma vorrei sottolineare un altro elemento di importanza allarmante. La libertà dei grandi soggetti economici alla ricerca del profitto è accompagnata dal saccheggio dell'ambiente che non trova gli ostacoli dovuti in molti paesi da parte degli Stati a partire dalla ricca America per arrivare, con scenari inquietanti, ai paesi attualmente più rampanti come la Cina e l'India. Orbene chi se non il potere pubblico, che si vorrebbe ridotto sempre più ai minimi termini, può dotarsi dei mezzi per affrontare le questioni sopra indicate?
Il socialismo moderno è sorto per rispondere a tre esigenze: lottare contro le forme di società che privano gran parte degli individui dei beni materiali e spirituali per sviluppare in modi "umani" la propria personalità; organizzare e mobilitare gli strati sociali privati in parte o in tutto di questi beni; dare alla società indirizzi di governo per pervenire a una distribuzione delle risorse che impedisca a una parte di costruire il proprio benessere sul malessere altrui.

Storicamente questi obiettivi sono stati interpretati e applicati nel Novecento in due maniere diverse: l'una radicale intesa ad agire mediante la rivoluzione, la dittatura e l'abolizione della proprietà privata; l'altra con le riforme, la democrazia, il ricorso al potere pubblico per regolare il mercato, impedire un uso predatorio delle risorse prodotte a favore degli strati privilegiati, varare istituzioni in grado di proteggere i più deboli e di promuoverne il miglioramento non contingente delle loro condizioni. I critici del socialismo anche democratico fanno carico a questo di aver perseguito forme accentuate di statalismo economico con il potenziamento del "sistema misto". Sennonché questo tipo di statalismo - è il caso di ricordare - è stato il prodotto di una tendenza che ha largamente dominato il secolo, tanto da essere stato fatto proprio anche da governi liberaldemocratici e fascisti. I governi socialdemocratici e laburisti ne hanno rappresentato una variante orientata a scopi umanistici e sociali.

La via comunista è andata incontro ad un fallimento; quella socialdemocratica ha ottenuto grandi risultati. Ha però anch'essa irrimediabilmente chiuso il suo ciclo nel 1989? Touraine sostiene che oggi, dopo la fase neoliberista contrassegnata dalla "onnipotenza" dei dirigenti dell'economia, dalla "pioggia d'oro" finita nelle tasche dei manager, dall'acquiescenza degli Stati ai loro interessi particolari, l'opinione pubblica chiede "una sterzata a sinistra". Sennonché non la vuole posta sotto il segno del socialismo. Osservando la debolezza dei partiti socialisti e dei sindacati ritiene che i soggetti atti a farsene carico possano essere piuttosto i movimenti di base, le associazioni, le organizzazioni non governative ovvero "la società civile" (e a opporre al ruolo dei partiti socialisti quello della società civile sono anche Lloyd e Giddens).
Qui sorge la questione di fondo. E' possibile attuare una sterzata a sinistra senza farlo dalle sedi del potere politico, senza disporre delle leve del governo? Chi può mai accedere al potere e al governo se non i partiti? E quale il contenuto di quella sterzata se non la ripresa e il rilancio degli obiettivi propri dei partiti socialisti democratici: fare leva sugli interessi colpiti, offrire loro un referente politico organizzato, affidare al potere pubblico il compito di regolare con obiettivi sociali il mercato (anche con le liberalizzazioni quando queste valgono a colpire rendite di posizione), avendo come stella polare una più giusta distribuzione delle risorse così da conseguire importanti valori e un ordine civile più umano?

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Memento
Il metodo, il merito e l’interesse generale del paese

di Franco Reviglio
• da Il Messaggero del 5 settembre 2006, pag. 1
Nella definizione della manovra della prossima Finanziaria metodo e merito sono strettamente interdipendenti. Il metodo non è una variabile indipendente che può essere lasciata libera di funzionare in un quadro in cui i singoli ministri esprimano quasi quotidianamente opinioni-vincoli che non sono state ancora collegialmente discusse dall'esecutivo. In un momento in cui si registrano quotidianamente prese di posizione governative a tutti i livelli, retromarce, veti e polemiche, recuperare il buon metodo diventa irrinunciabile.
La coerenza delle diverse tessere della manovra con gli obiettivi di risanamento e sviluppo deve essere ricercata prima dal governo nel suo insieme, sulla base della proposta che il ministro dell'Economia sta definendo, che deve essere garantita dal capo del governo nella sua dimensione e composizione sotto il duplice profilo dell'equità, dell'efficienza e dello sviluppo. Questa proposta deve esprimere l'interesse generale del Paese trovando un punto d'incontro con le esigenze dei diversi ministri che esprimono valutazioni delle sezioni degli interessi da essi espressi.

I membri del governo dovrebbero esprimere le proprie valutazioni solo di fronte al governo nel suo insieme, evitando, come invece purtroppo accade di leggere, prese di posizioni su diversi aspetti della futura manovra, con posizioni rigide di merito e imposizioni di veti che nel metodo sono del tutto inaccettabili e spesso sono nel merito inadeguate. Dopo cinque anni di abbandono con il governo Berlusconi, il metodo della concertazione può tornare ad essere l'asse portante della politica economica del Paese soltanto se esso non è inteso come una cornice-vincolo per la politica economica effettivamente praticabile, da costruirsi prima della definizione della legge finanziaria.

Ma se è inteso come una presa di responsabilità dei sindacati, insieme alle altre forze sociali, anche di quelle non adeguatamente rappresentate, di fronte ai problemi del Paese. Ai sindacati spetta un ruolo fondamentale: studiare il problema e rispondere con proprie valutazioni alla proposta che il governo dovrà definire, non porre vincoli e condizioni a proposte che ancora non hanno subito il vaglio della valutazione collegiale del governo.
La cornice della nuova concertazione dovrebbe funzionare solo successivamente alla definizione della proposta del governo, quale sarà articolata nelle diverse tessere che interesseranno la spesa pubblica, l'imposizione e le operazioni per ridurre il debito pubblico. Solo dopo essere stata definita, la proposta dovrà essere sottoposta alle valutazioni delle parti sociali. In quel momento esse potranno esprimere il proprio responsabile giudizio, restando inteso che l'eventuale correzione su alcuni punti della manovra stessa dovrà trovare l'indifferenza di impatto quantitativo, oltre che l'accordo politico del governo nel suo insieme.
In altre parole, delle valutazioni da parte degli interessi sezionali sulla manovra proposta, il governo dovrà necessariamente fare tesoro nella ricerca del massimo consenso possibile, tenendo presenti gli interessi generali e l'equilibrio dei sacrifici delle tessere di cui la manovra sarà composta. A questo scopo servirebbe che al momento debito il governo avesse già disponibili eventuali alternative, indifferenti sotto il profilo degli effetti sul risanamento dei conti pubblici.

I singoli ministri dovrebbero abituarsi ad esprimere le proprie opinioni all'interno della discussione che, arbitro-giocatore il presidente del Consiglio, dovrà tenersi nelle prossime settimane nelle stanze del Consiglio dei ministri. Essi dovrebbero tacere in pubblico e prepararsi a discutere negli organismi collegiali.
Dal mondo della produzione e dalle forze sociali dovrebbero venire stimoli, analisi, proposte ma non vincoli ex ante all'operare del governo, cui solo spetta la responsabilità di ricomporre i contrasti di interesse rispettando i vincoli generali, tenendo in conto anche gli interessi che non sono istituzionalmente rappresentati. Questo succede nelle democrazie moderne.




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