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Info SOCIALISTA 25 giugno 2006 a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei socialisti e del centro sinistra n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 – Trento/Bolzano www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it Quindicinale - Anno 3° SOMMARIO: - Un libro, per cominciare: Cambiare regime.La sinistra e gli ultimi 45 dittatori - PERCHE’ VOTARE NO AL REFERENDUM- UN NUOVO SPIRITO COSTITUENTE - Lo Stato le riforme e l’etica della responsabilità - Quando l’intercettazione diventa una patologia - Corruzione in saldo UN LIBRO, per cominciare “Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges Autore: Christian Rocca Titolo: Cambiare regime. La sinistra e gli ultimi 45 dittatori Editore Einaudi, 254 pagine, 14,50 euro La promozione della democrazia, anche con la forza delle armi, è l'unica politica estera che sposi idealismo e realpolitik, sicurezza e libertà. La sinistra dovrebbe adottarla contro le ultime 45 dittatu-re, i paesi "non liberi" identificati dal centro studi Freedom House, e soprattutto contro la minaccia del "fascismo islamico". È la tesi di Christian Rocca, giornalista del Foglio, che nel suo lungo pam-phlet difende la guerra irachena, riscatta i neocon dalla reputazione di destrorsi e rivendica l'inter-ventismo democratico come patrimonio di una sinistra liberale e antitotalitaria. Il problema è che, nella foga polemica, Rocca cancella le sfumature della storia e affastella le guerre degli ultimi anni nel quadro di un'eterna lotta tra società aperta e totalitarismo, che si ripeterebbe quasi immutata dai tempi di Pericle a quelli di Bush jr. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ PERCHE’ VOTARE NO AL REFERENDUM UN NUOVO SPIRITO COSTITUENTE I Socialisti dello SDI e della Rosa nel Pugno invitano a votare No al referendum del 25 e 26 giugno per sgombrare il campo da un vero pasticcio istituzionale volto a stravolgere la Costituzione. Solo così sarà possibile rimediare al pasticcio del centro-destra che ha fatto una riforma a colpi di mag-gioranza e sotto il ricatto della Lega. Berlusconi, in difficoltà, ancora una volta vuol far passare la consultazione popolare per una rivincita. Ma non è una partita di ritorno . Non è vero che con il Sì si riaprirebbe il dialogo, ma al contrario si confermerebbero i cambiamenti fatti a colpi di maggioran-za nella scorsa legislatura. Con Bossi a fare la sentinella è evidente che il centrodestra sarebbe spin-to su una posizione estremista, rifiutando persino modifiche marginali. La premessa per arrivare in Parlamento a un’intesa bipartisan, assolutamente necessaria in questa importante materia costitu-zionale, è ripartire con un nuovo spirito costituente. Nicola Zoller – segretario regionale SDI Verso il referendum Lo Stato le riforme e l’etica della responsabilità • da Il Messaggero del 21 giugno 2006, pag. 1 di Giovanni Sabbatucci Il referendum costituzionale di domenica prossima chiuderà una lunga e concitata stagione di con-fronti elettorali e ne aprirà un’altra che certo non si preannuncia tranquilla, ma che almeno riporterà il centro del confronto politico nella sua sede ordinaria, ossia nelle aule parlamentari. E’ a questa fase che sembra guardare Giorgio Napolitano quando auspica - non è la prima volta che lo fa e certo non sarà l’ultima - una civilizzazione del confronto fra i poli, tale da consentire un approccio prag-matico, e non troppo condizionato da pregiudiziali ideologiche, ai maggiori problemi del paese, in particolare al grande tema della riforma istituzionale. Su questo punto, nel discorso pronunciato ieri a Napoli, il presidente della Repubblica si è espresso con grande chiarezza: è bene che il maggior numero possibile di cittadini vada a votare, qualunque sia il giudizio sulla riforma varata dal centro-destra; ma, una volta votato, e chiunque sia il vincito-re, sarà poi necessario riaprire il tavolo del negoziato, per arrivare a riforme largamente condivise. Il sottinteso è che la riforma su cui si voterà non è condivisa in toto - e questo è un dato di fatto - all’interno di entrambi gli schieramenti. Altrimenti non vi sarebbe bisogno di rinegoziare alcunché. Ma di questo sono tutti consapevoli, compresi molti degli artefici della riforma stessa; e dunque l’intervento del presidente non va interpretato come critica unidirezionale rivolta ai fautori del sì, ma suona piuttosto come una censura preventiva agli oltranzisti dei due schieramenti. A tutti coloro, e non sono pochi, che, in caso di vittoria, pensano di utilizzare il risultato delle urne vuoi per blinda-re il nuovo testo costituzionale nella sua forma attuale, vuoi per mettere la parola fine a qualsiasi di-scorso di revisione. Insomma, gli slogan a effetto, gli allarmismi catastrofici, le velate minacce, le forzature polemiche di cui è stata ricca questa campagna referendaria, per altro verso fiacca e poco mobilitante, possono anche servire per guadagnare qualche voto: ma il tutto andrà accantonato nel momento in cui la pratica si riaprirà, sempre che lo si voglia, nelle sedi congrue e con le modalità opportune. Il monito del presidente, peraltro, va ben al di là dell’occasione referendaria e rinvia, sia pur nella forma discreta imposta dalla carica, al quadro politico generale. Quando invita la maggioranza a non smontare indiscriminatamente, per puro spirito di rivalsa, tutto quanto realizzato nella scorsa legislatura, e quando richiama l’opposizione a un ruolo di critica costruttiva che non escluda con-vergenze su singoli provvedimenti, Napolitano non si limita a perseguire quella strategia dell’attenzione verso il centro-destra cui si è dedicato sin dall’inizio del suo mandato, nell’evidente intento di far scolorare il dato originario della sua elezione a maggioranza semplice. Dietro le sue parole si può leggere il tentativo, che già caratterizzò la presidenza Ciampi, di tenere assieme i pezzi di un sistema politico a perenne rischio di implosione, di contenere entro i limiti fisiologici della democrazia bipolare le asprezze di uno scontro che rischia continuamente di debordare dai confini del galateo istituzionale. Il problema, naturalmente, sta nelle possibilità di successo di questo tentativo, ossia nella disponibi-lità degli attori politici, soprattutto dei maggiori, all’ascolto dei monti presidenziali. I segnali di ini-zio legislatura non sono certo incoraggianti. Ma il quadro potrebbe cambiare in meglio se solo i leader dell’una e dell’altra parte sapessero guardare non tanto a un generico interesse nazionale che ciascuno è libero di interpretare come meglio crede, quanto alle proprie convenienze di lungo pe-riodo. Berlusconi, per esempio, non può dimenticare di aver tratto notevoli vantaggi, in termini di legittimazione del suo schieramento e della sua stessa leadership, da alcune scelte responsabili compiute alla fine degli anni Novanta: dall’avvio della Bicamerale al sì alla missione in Kosovo, fi-no all’elezione di Ciampi. Quanto al centro-sinistra, nessuno può ignorare che uno sbilanciamento della coalizione rispetto al suo asse centrale, ovvero un prevalere delle spinte identitarie di estrema sinistra sullo spirito di coalizione e sulla cultura di governo, potrebbero far saltare in qualsiasi mo-mento gli equilibri di maggioranza e riconsegnare il paese al centro-destra per un periodo verosi-milmente non breve. La politica, si sa, non è sempre e solo il luogo del calcolo razionale. E in Italia lo è meno che altro-ve. Ma proprio per questo c’è bisogno di qualcuno che inviti il ceto politico a riflettere, a ponderare le decisioni, ad agire, per quanto possibile, in base all’etica della responsabilità. ************* Quando l’intercettazione diventa una patologia • da Il Messaggero del 21 giugno 2006, pag. 1 di Roberto Martinelli Nell’archivio dei grandi processi, ogni giornalista custodisce come una reliquia, un piccolo volume di 186 pagine, rilegato con una copertina verde. Racconta la storia di una strage di stato: quella di Piazza Fontana. Sedici morti e ottantotto feriti, e la prima analisi sulle origini della strategia del ter-rore. In quelle pagine c'è l'intera requisitoria del pubblico ministero, e cioè l'atto finale dell'inchie-sta, con tutte le testimonianze, le perizie, i riconoscimenti, gli interrogatori degli imputati, i confron-ti. Centottantasei, battute a macchina con lettera 22. Erano gli anni Settanta, la riforma della giusti-zia penale era di là da venire, i principi del “giusto processo” erano inconcepibili in quello che era considerato allora un bieco sistema inquisitorio. Poi si voltò pagina, l'Italia adottò l'impianto accusa-torio del tipo anglosassone che riconosceva maggiore tutela alla difesa del cittadino. Ma non ci volle molto a far macchina indietro tutta e ad imboccare il tunnel senza ritorno del peg-giore sistema inquisitorio che vige oggi in Europa. Si cominciò con i maxiprocessi nei quali l'accusa riusciva a infilare di tutto e il contrario di tutto. I faldoni cominciarono a gonfiarsi e le tecnologie più avanzate fecero il resto. L'intercettazione telefonica e ambientale diventò lo strumento principe dell'indagine. Le Procure furono colte da una sorta di raptus e i gestori telefonici furono bombardati ogni anno da centinaia di migliaia di richieste di intercettazione. I tradizionali centri di ascolto di polizia, carabinieri e guardia di finanza non furono in grado di far fronte alle pretese dei magistrati e cominciarono ad essere utilizzati impianti appartenenti a privati. I quali fiutarono l'affare del secolo e fecero in modo di moltiplicare, come il miracolo dei pani e dei pesci, il più odioso e invasivo mezzo di inquisizione e di controllo della vita privata. Non solo dell'indagato, ma soprattutto del terzo incolpevole che, tirato per i capelli, finisce sempre per essere coinvolto in cose che non lo ri-guardano, ma il cui nome resta comunque infangato. Fin qui la patologia del sistema che può essere corretta e sterilizzata se si vuole. Quel che invece appare inguaribile è il sistema operativo in atto in alcuni uffici giudiziari. Una volta trascritte, le conversazioni telefoniche non diventano oggetto di studio da parte dei magistrati, né tanto meno co-struiscono spunto di indagine. Così come vengono consegnati dai Signori dell'ascolto, interi brani di intercettazioni ambientali e/o telefoniche vengono fatti propri dalla pubblica accusa e trascritti senza alcuna verifica sui loro contenuti reali nelle richieste di misure cautelari. E poi ripresi pedissequa-mente e acriticamente dai giudici delle indagini preliminari. L'avvento della telematica nella realtà giudiziaria ha dato vita al fenomeno della moltiplicazione dei “file” tra un ufficio e la facilità con la quale si può memorizzarli e poi masterizzarli su compact disk ha provocato la vorticosa moltiplica-zione delle pagine processuali. La Corte di Cassazione, bontà sua, ha legittimato l'utilizzo di im-pianti appartenenti a privati. Ecco allora che un'ordinanza di custodia cautelare, che nel vecchio processo inquisitorio non supe-rava le sette o otto pagine dattiloscritte, oggi nell'era dell'illuminismo garantista supera le mille e 500, nel caso dell'inchiesta di Potenza, o le quattromila in altra indagine di qualche anno prima, o le novemila del processo Andreotti. Tutto questo non provoca solo l'inevitabile fuga di notizie che l'accusa vede sempre di buon occhio quando avalla presso l'opinione pubblica i suoi teoremi. Ma costituisce un modo surrettizio per violare e inquinare la terzietà del giudice portando a sua cono-scenza presunte “prove” non raccolte nel contraddittorio delle parti. Tutto ciò in aperta violazione dei principi del giusto processo sia per quanto riguarda gli indagati, ma soprattutto in spregio a co-loro i quali nulla hanno a che vedere con l'inchiesta in corso e che vengono crocefissi sull'altare di un diritto all'informazione che troppe volte viene invocato a vanvera. “Bancopoli”, “Calciopoli”, “Casa Savoia e dintorni” sono tre inchieste giudiziarie in cui la disco-very delle carte processuali è stata abilmente pilotata da chi aveva interesse a strumentalizzare i contenuti di centinaia e centinaia di intercettazioni telefoniche. Nel caso di Bancopoli e Savoia, i verbali sono stati ricavati dai provvedimenti di custodia cautelare, eccessivamente e scandalosamen-te voluminosi, nei quali i magistrati hanno trascritto i contenuti delle intercettazioni, elevandoli, quasi fossero oro colato, a vere e proprie prove di colpevolezza degli indagati. Nel caso di Calciopoli la divulgazione dell'intera informativa dei carabinieri è addirittura inspiegabile perché il documento non era stato mai depositato né messo a disposizione di ipotetici “indagati”, tutti ancora da individuare. Nella passata legislatura il governo aveva approvato un disegno di legge che prevedeva nuove rego-le per magistrati e giornalisti in tema di intercettazioni telefoniche. Le norme, peraltro mai portate all'esame del Parlamento, miravano a limitare gli abusi commessi nella divulgazione delle intercet-tazioni. Ma nessuno si pone il problema che l'ascolto (non solo telefonico) di conversazioni private non deve essere considerato un mezzo di prova ma solo un qualcosa che può aiutare la pubblica ac-cusa nella ricerca della verità. Ed invece sarebbe bene riflettere su questo aspetto del problema e, forse, tornare al passato per capire come una requisitoria per una strage possa essere contenuta in 187 pagine. E rendersi conto che il contagio da gigantismo giudiziario, con tutto quello che segue, rischia solo di intaccare la credibilità dell'ordine giudiziario. Corruzione in saldo • da La Stampa del 21 giugno 2006, pag. 1 di Luigi La Spina Ogni scandalo italiano resta, nell’immaginario dell’opinione pubblica, fissato in un dettaglio. E’ una parola, un gesto, una figura. Non è quasi mai la cosa più importante, il giudizio più azzeccato, la conseguenza più grave. Ma è il particolare che ne fissa il ricordo, nell’accavallarsi di vicende di cor-ruzione, diverse nelle circostanze, ma, alla fine, tutte simili nei percorsi grigi dell’animo umano. Così fu per le banconote gettate freneticamente nel water del «mariuolo» Mario Chiesa all’inizio di Tangentopoli. O per l’involontaria autodefinizione di «furbetti del quartierino» che consegnò Ri-cucci e compagni sia alle patrie galere sia alla galleria degli immortali «tipi» italiani. Quello che colpisce oggi, nell’intreccio di cupole calcistiche, di altezze decadute, da ormai molto tempo, di nuovi ceti politici, sbrigativi e arrembanti, sono i numeri. Quelli che definiscono i prezzi dell’onore perduto, in una stagione di corruzione a saldo. Dove il simbolo del vero declino italiano forse non sta né nella fantasia del malcostume, né nella gravità dei peccati e neanche in quella cor-nice di teatrale e tragica grandezza del male che trasforma comparse di cronaca in protagonisti della storia. Sono le cifre del biglietto omaggio o il costo della maglietta di Del Piero, le sparagnine ri-compense di un re presunto, da 200 a 300 euro, per una compiacente compagnia femminile, i 500 euro concordati tra i faccendieri per l’interessamento di Sottile ai loro traffici. Lo squallore che avvolge questa Italia, allora, non è tanto la quantità degli scandali, ma la loro qua-lità infima, fatta di ambizioni modestissime, di abitudini provinciali che resistono alle supposte mo-dernità dei costumi, di un turpiloquio ossessivo e banale. C’è forse un rapporto tra la scarsa conside-razione di se stessi che fa svendere il proprio potere, anche quello supposto, sul mercato della cor-ruzione e l’affanno nella competizione italiana sul mercato della competitività internazionale? Se l’onore, la carriera e persino il rischio della prigione valgono così poco per tanti uomini della nostra classe dirigente dipende solo dalla speranza di una diffusa impunità oppure anche dalla consapevo-lezza dell’apertura di una grande svendita italiana. Un incanto pubblico e miserevole di vecchi idea-li smarriti nei cimiteri delle ideologie, di cinismi trasformati in dannunziani sfoggi di intelligenza, di precari successi televisivi per pochi e di interminabili precarietà professionali per tanti. E’ inutile perciò ricorrere al moralismo di chi fa finta di meravigliarsi per comportamenti che tutti conosciamo sui nostri posti di lavoro, nelle nostre case, persino nella cerchia dei nostri amici o fa-miliari. Ed è ipocrita gridare alla punizione esemplare, sperando che, questa volta, risparmi la nostra parte e si accanisca sull’avversario. Non servono generici appelli all’etica, nostalgie per le antiche virtù dimenticate, confronti generazionali che si risolvono sempre a vantaggio del passato. Sarebbe forse più proficuo cercare di capire perché il rispetto di se stessi e l’orgoglio di dire «no» valgano così poco sull’attuale mercato pubblico italiano. Sarebbe meglio cominciare a praticare una dome-stica «tolleranza zero» nel costume privato e sollecitare la nostra classe politica a comportamenti adeguati in quello pubblico. A quest’ultimo proposito, ricordiamo con piacere la promessa di Prodi, quella di stupire gli italiani. Sarebbe davvero stupefacente se il primo accordo del nuovo governo con l’opposizione, tanto au-spicato anche dal Presidente della Repubblica, non avvenisse su questioni fondamentali, come la nostra presenza in Afghanistan o su alcune misure per fronteggiare la crisi dei conti dello Stato. Ma avvenisse, con un accordo trasversale tra tutti i partiti, sulle intercettazioni, come proposto dal mini-stro della Giustizia Mastella. E’ davvero curioso come lo scatto di indignazione parlamentare, una-nime e vibrante, sia avvenuto per le modalità della loro pubblicazione e non per i contenuti che rive-lavano comportamenti scandalosi. Non vorremmo che, in nome della sacrosanta privacy degli ita-liani, si volesse soprattutto tutelare la privatezza degli affari sporchi di alcuni di loro. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ torna in alto |