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infoSOCIALISTA
25maggio2006

Info SOCIALISTA 25 maggio 2006
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 – Trento/Bolzano

www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it
Quindicinale - Anno 3°



SOMMARIO:
- Un libro, per cominciare: LIBERA CHIESA . LIBERO STATO?
- La Costituzione del ’48 si tocca (insieme)
- Identità laica
- A Ventotene il quartetto degli euro-entusiasti
- Amato:non usate le radici cristiane per escludere
- Il coraggio di Rosy Bindi
- Quella lettera-testamento di Moroni a Napolitano
DOCUMENTI
- “Questione romana” o “questione vaticana”?

UN LIBRO, per cominciare “Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges

Autore: Sergio Romano
Titolo: LIBERA CHIESA . LIBERO STATO? Il Vaticano e l'Italia da Pio IX a Benedetto XVI
Longanesi ed., 2005. Pag. 154, 14,50



La complessa vicenda dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, con Roma simbolo e sede delle massime istituzioni di entrambi – un unicum rispetto a ogni altro paese –, è lunga ormai quasi un secolo e mezzo. Dal dopo Cavour (la cui celebre «formula» ha nel titolo del vo-lume una significativa variante) a Giolitti, da Mussolini a De Gasperi fino ai nostri giorni; da Pio IX a Pio XII, da Giovanni XXIII all’attuale pontefice, Sergio Romano legge questa pagina di sto-ria con la consueta capacità di sintesi critica, tinta qua e là di garbata ironia.
Dal 1870 a oggi, non sempre il rapporto tra l’Italia e la Santa Sede è stato un modello di ar-moniosa collaborazione; spesso, prima e dopo il Concordato del 1929 (che chiuse ufficialmente sessant’anni di sdegnoso silenzio dei papi dopo la ferita di Porta Pia e la fine del potere tempo-rale), si è trattato di una convivenza vissuta fra reciproche diffidenze e convenienze. Il non expedit di Pio IX, il patto Gentiloni, la nascita del Partito popolare, la contesa del fascismo con l’Azione cattolica, i referendum sul divorzio, l’aborto e la procreazione assistita: l’autore passa in rassegna incontri e scontri, corteggiamenti e compromessi che hanno caratterizzato il delica-to confronto tra laicità e religione, in cui la delimitazione dei rispettivi ambiti è stata non di ra-do turbata o addirittura contraddetta da inopportune invasioni di campo.

"Dopo quanto è accaduto negli ultimi anni, dal dibattito sulle radici cristiane al referendum sul-la fecondazione assistita, ho l'impressione che il confine tra lo Stato e la Chiesa venga sbada-tamente attraversato con sempre maggiore frequenza. Mi sono chiesto, fra l'altro, perché tanti uomini politici facciano a gara per partecipare agli incontri annuali di Comunione e Liberazione, perché Massimo D'Alema, presidente dei Democratici di sinistra, abbia partecipato alle cerimo-nie per la beatificazione del fondatore dell'0pus Dei, perché Giovanni Paolo II abbia potuto indi-rizzarsi ai parlamentari italiani dalla tribuna di Montecitorio, perché il presidente del Senato abbia cercato di stringere un rapporto privilegiato con un cardinale che presiedeva allora la versione moderna del Sant'Uffizio. Più recentemente mi sono chiesto perché un governatore della Banca d'Italia debba esibire la propria fede come una divisa, e perché i suoi critici debba-no essere considerati gli strumenti di un complotto giudaico-massonico.
Ma quando ho cercato di dare una risposta a queste domande mi sono accorto che ero conti-nuamente costretto ad allargare lo spazio della mia ricerca e a risalire sempre più indietro nel tempo. Contrariamente alle mie intenzioni iniziali, ho finito così per scrivere un breve saggio storico (più saggio che storia) sui rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa dalla fine del potere temporale a oggi. Ho le mie convinzioni e preferenze. Ma spero che anche i lettori di diverso avviso vi troveranno materia di riflessione."

Sergio Romano, nato a Vicenza nel 1929, ha iniziato la carriera diplomatica nel 1954. Dopo essere stato ambasciatore alla NATO e, dal settembre 1985 al marzo 1989, a Mosca, si è di-messo. Tra i suoi ultimi libri, Il rischio americano (Longanesi, 2003), I confini della storia (Riz-zoli, 2003), Guida alla politica estera italiana. Da Badoglio a Berlusconi (BUR, 2004), Europa. Storia di un’idea (Longanesi, 2004), La quarta sponda. La guerra di Libia 1911-1912 (Longane-si, 2005). Ha insegnato a Firenze, Sassari, Berkeley, Harvard, Pavia e, per alcuni anni, all’Università Bocconi di Milano. È editorialista del Corriere della Sera e di Panorama.

Si veda in calce anche DOCUMENTI “Questione romana” o “questione vaticana”?



La Costituzione del ’48 si tocca (insieme)


• da Il Riformista del 22 maggio 2006, pag. 1

di Antonio Polito

Quando domani il governo avrà la fiducia della Camera, saranno passati 43 giorni dal voto. E’ normale? Si sostiene che Prodi non ne ha colpa (ci ha messo una notte tra l’incarico e la lista) e che dipende dall’ingorgo istituzionale. Vero. Ma l’ingorgo è normale? E la carica dei 101 sot-tosegretari che tutti deplorano, sottosegretari in testa, è normale? E’ normale che il presidente del Consiglio affermi al Senato che avrebbe voluto otto donne ministro e ne ha potuto fare solo sei? E’ normale che non possa formare il governo come ritiene? Ed è normale che il ministro Damiano riveli, con encomiabile onestà, di aver appreso della nomina dal segretario del suo partito, invece che dal premier? E’ normale che il ministro dei Trasporti annunci decisioni che spettano al governo? E’ normale che i ricorsi elettorali siano giudicati dalle giunte per le elezio-ni delle camere, nelle quali siedono gli stessi partiti che hanno un interesse diretto all’esito di quel giudizio? E’ normale che metà Senato prenda a fischi e insulti sette senatori a vita perché si permettono di votare la fiducia? Ed è d’altro canto normale che la fiducia debba essere vota-ta da entrambe le Camere, così come ogni legge della Repubblica? E’ normale che ancora non sappiamo se, nella democrazia bipolare, i presidenti delle camere debbano essere espressioni della maggioranza o speaker super partes? E’ normale che non si sia ancora capito quale deb-ba essere, nel maggioritario, il quorum giusto per eleggere il rappresentante dell’unità nazio-nale? E’ normale che l’opposizione non abbia altro strumento per far valere le sue ragioni che l’Aventino o il filibustering? E’normale che la Corte Costituzionale sia sommersa dai conflitti tra Stato e Regioni? E’ infine normale che una maggioranza si cambi da sé la Costituzione solo per vedersela poi bocciata dal popolo con un referendum?
Alcuni di coloro che, come me, voteranno no a quel referendum, vorrebbero che noi dicessimo agli italiani: tutto ciò che abbiamo fin qui descritto è normale, tant’è che intendiamo lasciarlo così com’è. La Costituzione del ’48 non si tocca, né quella formale né quella materiale, anche se era stata scritta per un sistema e un’epoca in cui l’alternanza di governo era impossibile. Mi dispiace, ma io non trovo tutto ciò normale. E penso che se chiediamo il voto agli elettori di-cendo loro che è normale, che la Costituzione del ’48 è in splendida forma, perderemo molti voti per manifesta infondatezza dell’argomento. Io voterò no alla riforma del centrodestra per-ché non risolve i problemi di cui sopra e spesso li aggrava, non perché quei problemi non ci siano. Né voterò no per dare una spallata al centrodestra, perché spero che nessun indeciso voti sì per dare una spallata al centrosinistra. Ciò che c’è nella riforma basta da solo a votare no. La pensano così anche molti elettori del centrodestra, dei quali mi sento alleato. Voterò dunque no per bocciare questa riforma, non per bocciare ogni riforma. Voterò no aggiungendo che il giorno dopo bisognerà riprovare a riformare quella Carta che, come ha detto Napolitano, i costituenti vollero rigida ma non immodificabile, visto che previdero espressamente come modificarla. E voterò no senza aggiungere che chi l’ha cambiata è un golpista (anche qui con-dividendo il discorso del presidente), perché se davvero fosse così non dovrei prendere nean-che un caffè con loro, altro che inviti al dialogo parlamentare. Se vi devo dire il mio pensiero fino in fondo, non mi dispiacerebbe neanche ridiscutere la prima parte della Costituzione, a partire da quella «Repubblica fondata sul lavoro» di cui ha scritto Ostellino.
La riforma nata a Lorenzago è un pericoloso pasticcio e non poteva essere diversamente, visto che è stata fatta per tener buono un piccolo partito anti-sistema. Invece di liberare il governo dal doppio voto di due camere identiche, consegna un potere di veto paralizzante proprio a quella Camera che non avrà più il voto di fiducia. Finge un rafforzamento delle autonomie raf-forzandone solo l’anarchia. Consegna un potere di ricatto alle minoranze delle maggioranze, dando loro il potere di scioglimento. Ma se mi si viene a dire che i poteri del premier sono già oggi sufficienti per indirizzare l’azione di governo e rispettare per cinque anni la volontà popo-lare; se mi si viene a dire che si può lasciare in piedi questo arcaico bicameralismo perfetto; se mi si viene a dire che è indispensabile il numero attuale di parlamentari (per quanto ho visto finora, di senatori ne basterebbe un terzo); se mi si viene a dire che i diritti dell’opposizione sono abbastanza garantiti; se mi si viene a dire che bisogna semplicemente tornare alla rifor-ma del Titolo V per ordinare i rapporti tra Stato e regioni; ebbene io dico no anche a questo. Per questo mercoledì sarò tra i firmatari dell’appello scritto da Augusto Barbera e Stefano Cec-canti. No a questa riforma per farne una migliore, insieme con la minoranza, che in queste ma-terie non va considerata minoranza.


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Identità laica


• da La Stampa del 22 maggio 2006, pag. 1

di Gian Enrico Rusconi

L’Europa è laica. Non è fuori luogo ricordarlo quando da Ventotene il presidente Giorgio Napoli-tano rilancia gli ideali europei. In un momento in cui i governi sono sollecitati a prendere deci-sioni che mettono concretamente in gioco quei principi della laicità sui quali in astratto tutti si dichiarano d'accordo. L'Europa è stata pensata laica e la sua Costituzione lo riflette scrupolo-samente. E' un dato che non si contrappone all'evidenza storica di un'Europa che ha «radici cristiane». Ma le radici cristiane sono storicamente diventate ragioni secolarizzate; sono matu-rate a istituzioni laiche che oggi esigono la loro piena autonomia e sovranità. A torto quindi le decisioni dei governi europei in tema di bioetica o famiglia, ad esempio, che sono difformi da quelle indicate dalla Chiesa - in particolare il riconoscimento delle unioni omosessuali - sono accusate di spalancare abissi di immoralità pubblica in contrasto con presunte sane dottrine naturali di antica tradizione.

L'identità europea è plurima, composita, complessa. I suoi cittadini, maturi, hanno stili morali di vita o ethos diversi; hanno idee differenti di famiglia e di unioni di tipo familiare, di cui lo Stato democratico deve tenere conto per dare loro norme di riconoscimento giuridico che non siano lesive di altri interessi e identità.

Laicità vuol dire accettare come moralmente e legalmente giustificati atteggiamenti e compor-tamenti che appaiono soggettivamente sgradevoli (o impropriamente etichettati come «innatu-rali»). Laicità è ammettere una disimmetria tra singole moralità private ed un'etica pubblica dotata di regole comuni rispettose della autonomia della sfera privata e morale. Insomma, la democrazia laica crea lo spazio pubblico entro cui tutti i cittadini, credenti, non credenti e di-versamente credenti confrontano liberamente i loro argomenti, affermano le loro identità e vi-vono i loro stili morali di vita. Questi sono riconosciuti come diritti tramite procedure consen-suali di decisione, senza che prevalgano in modo autoritativo alcune credenze o alcuni convin-cimenti su altri. A questo proposito, il Continente europeo offre un quadro diversificato. E non va sempre citata la Spagna di Zapatero o l'Olanda multiculturale. Basta guardare alla solida e tradizionale Germania che sui Pacs o su altre questioni di bioetica ha norme moderate che tut-tavia la Cei considererebbe moralmente catastrofiche se adottate in Italia.

I cittadini italiani hanno bisogno forse di un protettorato morale speciale? Da noi impropria-mente si presume l'esistenza di una «maggioranza morale», interpretata dalla Chiesa, che si sente autorizzata a imporre - naturalmente per il bene pubblico - i suoi criteri di giudizio su minoranze diversamente orientate. La situazione si complica per il fatto che, nonostante tra i credenti ci siano significative differenze, a livello pubblico contano soltanto le posizioni ufficiali della Chiesa, per non dire della Conferenza episcopale italiana e le sue agenzie giornalistiche. Per i cattolici italiani extra ecclesiam nulla vox. Anche quando gli uomini di Chiesa si attribui-scono competenze speciali sulla «natura umana», «la famiglia» (o «l'amore forte o debole») che non ha alcun motivo d'essere.

Sono problemi spinosi che richiederanno prima o poi una risposta. Ma questa sembra essere l'ultima delle preoccupazioni del governo Prodi, tutto preso (come dargli torto?) dall’urgenza delle questioni economiche e sociali. Ma c'è il forte sospetto che Romano Prodi abbia intenzio-nalmente rimosso la problematica della laicità dal suo programma. Se esplodesse, infatti, il suo governo non reggerebbe. E' un punto di estrema debolezza ideale/ideologica della coalizione di centro-sinistra che tutti fanno finta di non vedere. Ma non è con la strategia dello struzzo che si affronta uno dei problemi più delicati del nostro tempo.

Torniamo, per concludere, all'Europa. Non è lontano il giorno in cui l'Unione si aprirà - in una logica di cittadinanza universale - a nazioni e culture che non hanno radici cristiane, che non hanno alle spalle l'esperienza illuministica e liberale. Come nel caso dell'entrata della Turchia nell'Unione Europea. E' un atto di coraggio che giustamente invita alla prudenza e alla rifles-sione, prima di prendere la decisione definitiva. Ma in linea di principio questa è la strada mae-stra da percorrere.

L'Europa che si aprirà alle società e culture diverse non avrà emblemi religiosi distintivi. Sarà laica, ma non per questo dimentica delle sue radici cristiane, da cui è cresciuta sino alla sua piena maturità politica, laica appunto.


A Ventotene il quartetto degli euro-entusiasti


• da Corriere della Sera del 22 maggio 2006, pag. 2

di Giuseppe Sarcina

La squadra «euroentusiasta» del governo italiano cerca a Bruxelles alleati o, almeno, interlocu-tori «costruttivi». Operazione, va detto subito, tutt'altro che semplice. Comincerà il premier Romano Prodi, il 29 maggio, incontrando il suo successore alla testa della Commissione euro-pea, il portoghese José Manuel Durao Barroso. I due si sono sempre mantenuti a distanza. Ma ora saranno costretti a collaborare. In parallelo entrerà in azione il neoministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, atteso a un difficile confronto-negoziato sui conti pubblici con il Commissario agli Affari economici e monetari, Joaquin Almunia. Per linee esterne si muoverà Emma Bonino, nuova responsabile delle Politiche comunitarie. E sicuramente saranno della partita il ministro degli Interni, Giuliano Amato, e quello degli Esteri, Massimo D'Alema. Il «quartetto di Ventotene», cioè Amato, Bonino, Padoa-Schioppa e, prima di tutti il neopresiden-te della Repubblica Giorgio Napolitano, rappresenta una fase intensa della storia europea. Na-politano, europarlamentare dal 1999 al 2004, si batté, dalla presidenza della Commissione Af-fari costituzionali di Strasburgo, affinché nella Costituzione fosse abolito il diritto di veto dei singoli Stati in materie fondamentali (cosa che avvenne solo parzialmente in verità). Amato fu uno degli architetti, come vicepresidente della Convenzione, di quella Carta, bocciata poi nei referendum di Francia e Olanda. Su un altro versante, Padoa-Schioppa, prima come direttore generale della Commissione, poi come membro del “board” della Banca centrale europea (1998-2005), è stato uno dei «costruttori» della moneta unica. La stessa Bonino, tre legislatu-re e mezzo all'Europarlamento (dal 1979 a oggi) e cinque annida Commissario europeo (1995-1999), ha contribuito a dare dinamismo e visibilità al progetto europeo.

Ma il problema è che quella stagione politico-culturale è entrata da almeno un anno in una cri-si profonda. Anzi, probabilmente, è già stata superata dagli eventi. Come ha osservato ieri proprio la Bonino, «per riprendere il cammino è necessario uscire da stereotipi di europeismo usurato e logoro». A Bruxelles «l'eredità Spinelli», cioè federalismo o almeno integrazione spinta tra gli Stati europei, viene sbrigativamente messa da parte da Barroso. Solo pochi giorni fa il leader della Commissione ha sostenuto che è inutile «perdere tempo» con «i dibattiti sulle istituzioni», mentre è necessario «produrre risultati per i cittadini». Secondo Barroso questo approccio, pragmatico fino al minimalismo politico, è l'unica strada percorribile, viste le divisio-ni tra i diversi Paesi.

Il quadro, pero, potrebbe cambiare tra qualche mese. Gli “spinelliani” di Bruxelles hanno già cominciato il conto alla rovescia, in attesa dcl semestre tedesco, gennaio 2007. Di questo schieramento farà parte anche l'Italia, come conferma Amato: «La Germania punta ancora sul-la Costituzione europea. Oggi l'Italia ha un esecutivo che, ne sono certo, si affiancherà il pri-ma possibile alla Germania perché il cammino europeo, una volta superate le elezioni francesi, possa riprendere».


Amato:
non usate le radici cristiane per escludere
Vent'anni dopo Spinelli. Tre uomini di governo insieme con il capo dello Stato hanno ricordato il padre del federalismo: l’impegno comune è di non smarrire quella strada. Il ministro dell'Inter-no: dobbiamo far ripartire in modo laico il processo di integrazione europea.


• da La Stampa del 22 maggio 2006, pag. 3
di Paolo Baroni

La nuova Europa? Deve essere laica, suggerisce Giuliano Amato. Che attacca chi usa (ed ha usato) la scusa delle «ragioni cristiane» per escludere clii non è gradito. ”Occorre includere, non escludere”, sostiene, e guardare non ai nostri confini ma a quello che avviene fuori, attor-no a noi. Lo stop alla Costituzione europea e lo smarrimento che ne è seguito è certamente un colpo pesante: Emma Bonino lo descrive come un «sentiero smarrito» che oggi ci obbliga ad «uscire dagli stereotipi di un europeismo usurato e logoro».

A Ventotene si ricordano i vent’anni della morte di Altiero Spinelli, il padre del federalismo eu-ropeo, e il tema-Europa è d'obbligo. Il neo-ministro dell'Interno è convinto che «con il governo Prodi si riprenda il cammino per il rafforzamento delle istituzioni europee». A suo parere «l’Unione europea uscirà dalla crisi non se rinuncerà alle sue missioni ma se le porterà avanti». A cominciare dal «bisogno enorme di pace».



Il suo è un discorso molto appassionato, e la platea gli tributa applausi tra i più calorosi. «Oc-corre includere, non escludere - insiste -. Come del resto il messaggio cristiano nelle sua uni-versalità dovrebbe essere inteso da chiunque non ne faccia un uso personale e lo prenda per quello che dice da oltre duemila anni». Ed è anche per questo che dal nuovo governo italiano dice di aspettarsi «che cancelli al più presto il richiamo alla capacità di assorbimento come pre-requisito per l'ingresso di Paesi che stanno aspettando di entrare in Europa e che vorrebbero entrare e riprenda il cammino per il rafforzamento delle istituzioni europee».

Si è perso tempo, ma non è il caso di «abbandonarsi a facili scetticismi o allarmismi». La len-tezza della costruzione europea non lo spaventa. «Mi spaventa - dice - chi rivendica le radici cristiane dell'Europa, per escludere e non per includere chi chiede di farne parte; quando pro-prio l'inclusione è il messaggio universale del Cristianesimo», così come lo spaventano «quanti leggono il no franco-olandese alla Costituzione europea come giustificazione per la propria libe-razione dalle responsabilità europee».

Ma «molti di quei no - sottolinea l’ex vicepresidente della Convenzione europea - chiedono più Europa e non meno e la leadership dell’Ue deve consentire che i no si convertano in sì dando risposte efficaci».

Quella sull'isola pontina non è la prima uscita pubblica del solo Presidente della Repubblica. Anche per Amato, Emma Bonino e per i1 nuovo responsabile dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, è un debutto, una prima. Ognuno porta la sua testimonianza, ognuno offre un con-tributo, uno spunto per rileggere a oltre 60 anni di distanza il «manifesto» scritto qui da Spi-nelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni ai tempi del confino. Documento attualissimo, una «guida valida ancora oggi», ripetono in tanti alternandosi dal palco allestito in piazza Castello. Secondo Emma Bonino, da poco nominata ministro per il Commercio internazionale e gli Affari europei «il Governo Prodi è calibrato per persone e per programmi per affrontare l’agenda de-gli appuntamenti europei che non sono appuntamenti di politica estera ma di politica interna-zionale». A suo parere «è necessario che l'Unione cammini uscendo da vecchi schemi superati e logori e non penso certo dicendo questo al Manifesto di Spinelli e Rossi - ha spiegato Bonino - che mi sembra il testo più attuale perché parla più che di auropeismo di federalismo europeo. Noi viviamo in tempi difficili ma non così drammatici come i loro, non vedo perché dovremmo fermarci, io cercherò di mettercela tut ta». Poi ispirandosi a quel «grado di follia» che anche Spinelli consigliava sempre di portare con sé il ministro radicale lancia una proposta: «Vorrei che il Manifesto di Ventotene fosse tradotto in arabo e corredato di note critiche - azzarda - perché l'idea che la pace si fa tra gli Stati e non solo negli Stati è un grande insegnamento da portare».

Padoa-Schioppa, a Ventotene non parla da ministro dell'Economia ma da presidente di «Notre Europe», la fondazione creata da Jacques Delors che ora lascerà. Per questo si tiene alla larga dalle questioni economiche di stretta attualità, cita solo l'ex presidente francese della commis-sione, il suo coraggio, la sua grande visione ed il suo grande realismo che al pari di Spmelli contraddistinguono chi è al tempo stesso «capo» (che sa decidere ed accettare anche ciò che si può ottenere in quel momento), e «consigliere», capace cioè di guardare lontano. Così è stato per l’Atto unico europeo dell'86 come per la liberalizzazione dei mercati finanziari di due anni dopo che gettò l« basi per la creazione dell'euro e fece compiere un balzo impensabile alla co-struzione della casa comune europea. Legge un passo dell'autobiografia di Spinelli e si com-muove: troppo forte ancora oggi è l'intreccio di storie personali. «L'Europa - afferma convinto Padoa-Schioppa - può superare l'attuale momento di difficoltà». La via da seguire è già scritta: è la lezione di Spinelli.


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Il coraggio di Rosy


• da L'Unità del 22 maggio 2006, pag. 24


di Maurizio Mori

Varie volte in passato ho criticato e polemizzato con Rosy Bindi sui temi della bioetica, e pro-babilmente avrò occasione di farlo ancora in futuro. Ma devo riconoscere che l'intervista fatta al «Corriere della Sera» di ieri è un gran buon segno di apertura: alcune affermazioni del nuo-vo ministro della famiglia fanno ben sperare nell'inizio di una nuova stagione.

Tre mi sembrano i temi importanti affrontati: quello circa la possibilità di una qualche modifica sulla legge della fecondazione assistita; quello a sostegno dei diritti delle persone nelle unioni civili; e quello circa la (ovvia) libertà dei vescovi di dire la loro ma l'altrettanto grave compito e responsabilità della politica di fare scelte autonome per dare una risposta alle esigenze della gente.

L'aspetto di maggior rilievo che più colpisce nelle dichiarazioni di Bindi è lo spirito dialogico e l'attenzione all'ascolto delle nuove e crescenti esigenze sociali. Rosy Bindi mostra di rappresen-tare cosi quei milioni di cattolici italiani che sono in faticosa ricerca di una mediazione tra le ri-chieste della dottrina e le esigenze del vivere in una società tecnologica e secolarizzata. La preponderanza data dai media negli ultimi decenni agli interventi del magistero ecclesiastico ci ha abituato a pensare ai cattolici come a un gruppo monolitico, compatto e ubbidiente ai ve-scovi, ma vediamo che la realtà è diversa. Ci sono molti cattolici aperti alla discussione e pronti alla mediazione. Potremo poi anche non essere d'accordo, e sicuramente su alcuni punti non lo saremo: ma resta lo spirito di attenzione reciproca e la volontà di giungere a una mediazione. Credo che questo sia un aspetto decisivo e da non trascurare. Forse, è proprio lo spartiacque tra due diversi paradigmi - quello di chi vede la società attuale abitata da «stranieri morali» in-capaci di comunicare tra loro, e di chi invece ritiene che sia possibile trovare qualche pagina di dizionario per nuscire a tradurre almeno qualche parola. Rosy Bindi propone una di queste pa-gine, e noi speriamo che si possa comiciare a discutere.

Venendo ai temi più specifici, è notevole l'apertura per una qualche modifica della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Anche in un recente convegno scientifico a Massa Martana quest'aspetto è emerso con forza, e va considerato. Potrebbe rivelarsi difficile cambiare la legge, ma sicuramente vanno modificate al più presto alcune norme delle «Linee guida». Come ha più volte ed autorevolmente osservato Carlo Flamigni, la legge stessa affida-va alle Linee guida numerose “passerelle di salvataggio”, che sono state sbarrate dall'allora ministro Sirchia ottemperante all'interpretazione rigorosa proposta dal Comitato «Scienza e vi-ta». Poiché le Linee guida sono di competenza del ministero e vanno riviste ogni tre anni, ria-prire quelle passerelle è abbastanza semplice, e la loro riapertura sarebbe di grande aiuto per le molte coppie italiane che chiedono assistenza nella procreazione in Italia. Da tempo, ormai, il dibattito su questi temi portava solamente alla contrapposizione ed alle barricate, mentre le parole di Rosy Bindi sono una ventata di aria fresca ed aprono prospettive nuove.

Altro aspetto importante riguarda il riconoscimento dei diritti delle persone nelle unioni civili. A questo proposito sarebbe auspicabile che si assumesse un atteggiamento più propositivo, perché il dibattito in corso mette in luce la grave discriminazione subita da alcune categorie di persone conviventi che sono private dei loro diritti elementari. Dal punto di vista etico questa è un'iniquità grave, e da parte della sinistra ci vorrebbe maggiore coraggio nel sostegno ai valori emergenti. Ma anche su questo Rosy Bindi mostra aperture interessanti: esclude lo «scontro ideologico», e soprattutto mostra di non avere paura di riconoscere che si deve fare qualcosa anche per le «situazioni patologiche» - che esistono e non devono essere emargina-te. A questo proposito, tra i tanti temi da affrontare uno è quello dei diritti dei cosiddetti «figli incestuosi».

Ultimo punto importante è l'aver riconosciuto che quello della famiglia è un ministero «da in-ventare» con spirito creativo e ottimismo, abbandonando il luogo comune della morte della famiglia uccisa dal nichilismo contemporaneo. L'entusiasmo per il nuovo compito sottintende una diversa prospettiva, quella che vede la famiglia in crescita e bisognosa di cambiamenti strutturali per potere crescere ancora nelle nuove circostanze. Rosy Bindi è partita bene dando un segnale forte e mostrando apertura nel voler cercare di dare risposte adeguate al nuovo che avanza. Invece di insistere sulle contrapposizioni ideologiche ha cercato di farsi interprete delle diverse anime presenti sia nella coalizione sia nel paese e di dare loro una qualche voce. Le divergenze (come anche gli errori) sono sempre possibili, ma la direzione imboccata è giu-sta.

L'auspicio è che questo compito - che sembra essere prioritario per l'intero esecutivo - sia perseguito con perseveranza, determinazione e coraggio, perché gli ostacoli sono molti e le re-sistenze forti. Per ricucire il tessuto sociale dalle lacerazioni create negli ultimi anni c'è bisogno di riconoscere i diritti troppo a lungo negati e dare speranza in rapidi cambiamenti. Sulla fami-glia Rosy Bindi è partita col piede giusto: adesso restano da fare altri passi, magari da marato-neta o di corsa.


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Quella lettera-testamento di Moroni
a Napolitano
Il deputato socialista annuncio’ il suicidio all’allora presidente della Camera.

• da La Stampa del 22 maggio 2006, pag. 2

di Maria Corbi

C'è a volte un filo di dolore che lega le persone, anche in silenzio, da lontano. Per il nuovo capo dello Stato Giorgio Napolitano e la deputata di Forza Italia Chiara Moroni, questo filo è la lette-ra che il padre di lei, Sergio, scrisse al presidente della Camera prima di dimettersi dalla vita e dal seggio in Parlamento. Quel presidente era Giorgio Napolitano che ha conservato questo te-stamento politico e umano e ogni tanto lo rilegge con la stessa emozione di allora, come ha raccontato la moglie Clio, in un libro che la racconta insieme ad altre «Mogli della Repubblica»: «...Mi ricordo di quando Moroni scrisse a Giorgio quella lettera, in cui dichiarava i motivi per i quali si sarebbe suicidato. Mio marito la stava rivedendo l'altro giorno. Fu una cosa emozionan-te, terribile». Dal 2001 Chiara è una deputata della Repubblica, entrata con il primato di essere la più giovane e il peso di essere non solo «figlia di» ma anche vittima di Tangentopoli. Anni in cui tra il presidente e Chiara non c'è stato nessun rapporto. E’ sempre Clio Napolitano a rac-contare di quella volta che suo marito ha incontrato Chiara «ma lei ha avuto quasi una forma di freddezza». «Credo che ci sia stato da parte di questa ragazza un tale shock, che non si è mai stabilito un rapporto tra loro, anche dopo, quando è diventata deputata. Ad ogni modo tut-ti dicono che è una brava deputata».

Chiara legge queste parole, rannicchiata nel divano del suo studio alla Camera, gruppo Forza Italia. E’ minuta, con una forza bonsai che sprigiona dagli occhi, ma anche dal corpo nervoso. E’ elegante come le ragazze di buona famiglia, discretamente. Al collo una collana con due campanelle di rubini. Dice: «Non lo sapevo, mi fa piacere leggere che la lettera di mio padre lo ha colpito profondamente, che è rimasto un momento importante della sua storia personale. Ma io non ho alcuna acrimonia nei suoi confronti, forse ha scambiato la mia timidezza per freddezza». Ricorda quel giorno, quando trovò suo padre in cantina, con il fucile da caccia ac-canto. Lei aveva 17 anni, lui solo 45. «Giovane vero? Troppo per morire. Lui voleva con quel gesto gridare che erano inaccettabili quei metodi da inquisizione spagnola. Il suicidio di mio padre fu uno dei primi, purtroppo non l'ultimo della storia di Tangentopoli, quella lettera segnò un momento di riflessione, ma non sufficiente».

Napolitano lesse quella lettera all'Aula di Montecitorio, con la voce incrinata e la faccia impietri-ta. Un uomo, un padre, un deputato della Repubblica consegnava a lui le sue ultime parole. Di-sperate ma senza acrimonia. Moroni salutava il mondo e Napolitano «con stima». La stessa «stima» che quattordici anni dopo la figlia conferma a Napolitano capo dello Stato. «Non sono stata d'accordo nel modo in cui si è arrivati alla sua elezione, ma ho grande stima di lui e credo che sarà un ottimo Presidente». Nella sua autobiografia «Dal Pci al socialismo europeo» (Later-za) Napolitano parla del sentiero «stretto e difficile» che dovette percorrere tra il 1992 e il 1993 con la consapevolezza dei drammi che nascevano da «incriminazioni troppo facili». «Ero consapevole - scrive - del fatto che si finiva per non distinguere nemmeno tra parlamentari presumibilmente partecipi di pratiche circoscritte di finanziamento illecito dei rispettivi partiti e altri ben più pesantemente responsabili di reati di corruzione e collusione con imprese e gruppi economici pubblici e privati.

Apparteneva alla cerchia dei primi Sergio Moroni, deputato del Psi». Nel libro l'inizio della lette-ra definita «atroce»: «Egregio signor Presidente ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi con-siderazioni prima di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l'atto conclusivo di porre fine alla mia vita». Era la comunicazione, nota il Presidente, «di un suicidio motivato dalle "sof-ferenze morali" patite. «Fu quello il momento umanamente e moralmente più angoscioso che vissi da presidente della Camera».

Le ultime parole di Moroni sono rimaste in tutti questi anni accanto al Presidente, la lettera conservata nel suo studio privato nella piccola casa di via dei Serpenti, la spinta a rileggerla, talvolta, come volesse cercare in fondo la chiave per chiudere il malessere provato da allora. Non è certo stato facile comporre dentro di sé quel che successe, quando ricopriva sì un ruolo istituzionale ma era sempre un ex comunista, allora Pds, il partito che più spingeva sull'accele-ratore di Tangentopoli. A dieci anni dalla scomparsa di suo padre, Chiara Moroni ha voluto che quella lettera venisse letta un'altra volta in Parlamento. E il settembre di quattro anni fa tra i mille invitati c’era anche Giorgio Napolitano, anche in quella ricorrenza «non ci fu nessun dia-logo». «Ero frastornata, forse lui mi ha avvicinato e io l’ho salutato frettolosamente, ma solo per la situazione, non per un mio stato d’animo nei suoi confronti».

Chiara ha le pagine del libro con le parole della first lady che raccontano questo «non rappor-to» tra lei e il Presidente. «Dice che le hanno detto che sono una brava deputata». Sorride, in un modo che è insieme duro e gentile. Il complimento le fa piacere, ma quello che le fa piacere ancora di più è il rendersi conto che in questi anni, anche se da lontano Giorgio Napolitano ha pensato a lei, l’ha «seguita». Come se sentisse il dovere di onorare quella lettera, il grido di di-sperazione di un politico ma anche di un padre che abbandona una figlia.

Il foglio con la confessione di questo dolore segreto del Presidente è sempre nelle mani di Chiara. Lei dice: «Ho sempre pensato che il rapporto tra me e Giorgio Napolitano, se mai ci fosse stato un incontro, doveva rimanere un momento privato. A tu per tu. Non l’ho mai cerca-to, è vero. Come lui non ha mai cercato me. Ma adesso farò io il primo passo, gli scriverò una lettera chiedendogli di incontrarlo». E forse, allora, solo dopo, questo filo di dolore che li unisce dal 2 settembre del 1992, sarà per entrambi un po' più sottile.



DOCUMENTI

“Questione romana” o “questione vaticana”?


• da MondOperaio del 18 maggio 2006, pag. 117

di Angiolo Bandinelli

“Libera Chiesa. Libero Stato?” è un agile libro, “più saggio che storia”, in cui Sergio Romano ri-percorre le vicende dei rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica dal 1870 ad oggi. Gli inter-venti che formano “Le ragioni dei laici” si propongono “di rivendicare, in modo critico e spas-sionato, le ragioni della laicità” in un momento in cui “la legittimità del pensiero laico, la sua fisionomia culturale, l’autonomia e l’esistenza stessa delle ragioni dei laici sono ridiventate og-getto di contesa, fonte di dissidio pubblico”. Mentre scriviamo è in corso una tornata elettorale - i cui esiti sono, al momento, ignoti se non dubbi - nel corso della quale, grazie alla “Rosa nel Pugno”, tutti questi temi vengono evocati: dai rapporti tra laici e cattolici, letti e riletti sul filo della cosiddetta “questione romana” apertasi con Porta Pia, alla disputa circa la superiorità dei valori, contrapposti e rispettivamente difesi dai cattolici e dai laici. Comprendiamo le ragioni e le scadenze della politica, ma a noi sembra che sia giunto il momento di accantonare questi vecchi, storici, dossier, per aprirne uno nuovo, il dossier di una “questione vaticana” dai con-torni fino a ieri impensati nel suo collegarsi ai tentativi in corso, non solo in Italia, per imporre condizionamenti unilaterali e dogmatici all’evoluzione dell’etica matrimoniale e della famiglia, delle scienze biomediche o direttamente della scienza in quanto tale. Da tempo, soli, i radicali avevano avvertito e denunciato lo spostamento in avanti dei termini della complessa proble-matica: non più dei rapporti tra laici e cattolici - trita sostanza della “questione cattolica” - si deve parlare, quanto invece, direttamente, della configurazione assunta dal Vaticano, anzi da uno “Stato Vaticano” che tracima dallo spirito e dalla lettera della Legge delle Guarentigie e perfino dei due Concordati per infiltrarsi in ogni interstizio della vita civile e politica, abilmente sovrapponendo le sue ragioni di politica e di potenza a quelle della Chiesa, società religiosa dai valori “non negoziabili”, secondo papa Ratzinger. E’ il progetto, il cui ispiratore è stato Giovanni Paolo II, di una nuova universalizzazione intesa (anche) come conquista di posizioni politiche e terrene quali forse furono nelle mire del solo Bonifacio VIII. Una “questione vaticana”, dunque, del tutto nuova, cui occorre rispondere con iniziative coraggiose e creative. Si legga invece il saggio di Tullio De Mauro - “Scuola e cultura laica” - inserito nel volume sulle “ragioni dei laici”. De Mauro fa una (importante) analisi filologico-semantica del termine “laico” e connessi. Ma lo fa - ci pare - con toni difensivi, quasi che la laicità debba rendere conto della propria natura e dei propri valori, per sottrarsi ad una incalzante e inquisitoria messa in stato d’accusa. Siamo preoccupati.

Sergio Romano rievoca gustosamente (l’aneddotica è tra i meriti della sua fatica) la cerimonia con la quale nel 1954, all’inizio della sua carriera di funzionario del Ministero degli Esteri, giurò fedeltà alla Repubblica ponendo la mano destra non già sulla Costituzione - come lui si aspet-tava - bensì sul Vangelo: “Negli anni cinquanta - scrive - il Vangelo, per le liturgie della Repub-blica, era l’equivalente della Costituzione nei paesi di democrazia laica”. Il Vangelo sparì dai ce-rimoniali repubblicani solo perché, all’epoca della Presidenza Pertini, venne decisa la soppres-sione del giuramento per i funzionari dello Stato. Non ci pare che quella scomparsa abbia de-stato allora un qualche clamore o dissenso: c’è il sospetto che oggi l’abolizione del giuramento sarebbe contestata, con gli argomenti che hanno nutrito la requisitoria per il mantenimento del crocifisso nelle aule scolastiche e tribunali e più in generale la pretesa di introdurre anche nei cerimoniali pubblici italiani (ed europei) quelli correnti negli Stati Uniti d’America. Romano ri-percorre quindi le vicende che hanno fatto seguito a Porta Pia, tratteggiandoci con agile pen-nello l’immagine delle due figure papali, Pio IX e Pio XII, tra le quali si colloca l’arco della “que-stione romana” o “cattolica” in senso stretto. Nato quando c’erano ancora “un regno di Francia e un sacro Romano Impero”, nella sua lunga vita Pio IX assistette a mutamenti politici, sociali ed economici vastissimi, tra rivoluzioni, scomparse di Imperi, movimenti risorgimentali, che lo sbalzarono anche da Roma - nel drammatico 1848 - e infine, nei ventotto anni successivi al suo rientro in Vaticano, al trionfo di quelli che Romano definisce i suoi “nemici”: “le industrie, le ferrovie, i movimenti socialisti, i sindacati, i filosofi miscredenti, la stampa, l’opinione pubbli-ca, le metropoli ingrossate dalle immigrazioni contadine, la borghesia liberale, gli ebrei, i mas-soni, i continui attentati alle prerogative ecclesiastiche e ai beni terrieri della Chiesa”. All’invasione di una inaspettata e sconosciuta modernità, quel Papa reagì - sostiene lo storico - “eroicamente”. Se non eroiche, le sue risposte alla modernizzazione incalzante furono certo pronte e durissime, dal dogma dell’Immacolata Concezione (1854) all’enciclica “Quanta Cura” e al Sillabo (1864), ai provvedimenti assunti dopo il 1870 anche per contrastare il “Kulturkampf” bismarckiano. Non molto dissimile, il percorso del suo successore Leone XIII. La sfida della modernità è da allora l’ossessione della Chiesa.

Il momento quanto meno simbolico del rovesciamento dei rapporti tra Stato italiano e Chiesa viene colto invece nell’immagine di papa Pio XII che leva le braccia al cielo sul piazzale del Ve-rano, sconvolto dal bombardamento del 19 luglio 1943, per invocare l’aiuto divino sul paese di-sastrato. In quel momento, secondo Romano, si consuma l’esperienza della costruzione di uno Stato nazionale laico capace di inglobare e inserire nelle proprie logiche - secondo l’ispirazione liberale, o anche giacobina - tutte le spinte centrifughe affioranti nel sociale, comprese quelle religiose e chiesastiche. Qualcuno ha parlato di “morte della patria” come conseguenza della guerra perduta nel 1943. Consentendo qui con Romano, a noi pare che si debba parlare, piut-tosto, di “morte dello Stato nazionale” di modello europeo, di cui quella guerra aveva scoperto fino in fondo gli equivoci e le tragiche inadeguatezze. Una sostanziale rettifica vorremmo però introdurre circa la tempificazione del rovesciamento. Ci aiuta a farlo, ancora, uno dei saggi contenuti nel libro su “le ragioni dei laici”, quello di Francesco Margiotta Broglio - “La laicità dello Stato” - che identifica nella firma del Concordato mussoliniano l’inizio dell’arretramento della laicità statuale e il reingresso massiccio della Chiesa nelle vicende sociopolitiche italiane. L’elenco da lui fornito dei cedimenti consentiti da quell’accordo è impressionante: sono quelli i gradini sui quali la Chiesa si è issata al di sopra della statualità italiana mettendola in crisi. La seconda guerra mondiale, con la sconfitta dell’intera classe dirigente italiana, la stessa fine del-la monarchia dei Savoia, che del laicismo ottocentesco di modello positivista aveva fatto un punto fermo e qualificante, aggravarono la situazione. Le classi politiche repubblicane, in evi-dente difficoltà di legittimazione, si sarebbero sempre più adagiate sulle indicazioni provenienti da Oltretevere liquidando e vanificando - vorremmo qui almeno ricordare - le illusioni che ave-vano dettato ad Arturo Carlo Jemolo, alla metà degli anni ’50, la sua celebre opera, “Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni”, o che ispirarono un politico spesosi a lungo su questi temi con spirito risorgimentale, Giovanni Spadolini: ahimè, dai suoi tempi il Tevere si è ben ri-stretto e - come malinconicamente annota Romano - il confine tra lo Stato e la Chiesa viene “sbadatamente attraversato con sempre maggiore frequenza”.

Forte della sua esperienza di diplomatico, Romano presta attenzione agli aspetti e riflessi in-ternazionali della “questione romana”, con il giovane Stato italiano allergico al ricordo della massiccia intrusione della Francia di Napoleone III in difesa dello Stato Pontificio e dunque at-tentissimo ad evitare l’ingerenza di altre Potenze nelle vicende romane. Durante la prima guer-ra mondiale, in uno dei contatti avuti con l’ambasciatore di Germania, il ministro degli esteri Sidney Sonnino ancora avvertiva, “a scanso di equivoci”, “che l’Italia si sarebbe opposta all’’ammissione di un rappresentante del papa nella futura conferenza per la pace…”. Romano ricostruisce in chiave diplomatica anche le vicende del 1948, con le elezioni italiane vinte dalla DC certamente grazie al coinvolgimento totale della Chiesa, ma con l’attenuante (diciamo così) della drammatica situazione europea, che vedeva l’inizio della guerra fredda, la crisi di Berlino e l’accentuarsi della spinta dell’URSS verso occidente, caratterizzata da episodi inquietanti co-me il sequestro, nel 1949, del Primate d’Ungheria Mindszenty. Romano riconosce a Papa Ron-calli, anche lui esperto diplomatico, il merito di essersi accorto tra i primi dello squagliamento di quel gelido clima ed avviare un dialogo nuovo tra Est e Ovest.

Ci permettiamo qui una digressione, che può apparire anche una indebita intromissione. Forse, date le dimensioni e il tono del suo lavoro, non toccava a Sergio Romano, prestare un pizzico di attenzione anche al contesto generale in cui nasce la “questione romana”, un contesto carat-terizzato, in tutto il mondo, dalla spinta alla laicizzazione dello Stato proiettato verso la moder-nità tecnologica e culturale. E’ un fenomeno che si verifica con diverse forme dovunque, anche se con particolare durezza nei paesi cattolici. Crediamo sia stato finora trascurato. Al più, come è ovvio, si fa riferimento alle cose di Francia: la presa di Roma è diretta conseguenza della ca-duta di Napoleone III e dell’instaurazione a Parigi della Repubblica laica figlia di una cultura borghese già tendenzialmente positivista. La cultura politica italiana si modellava su questa (non senza influssi della Germania bismarkiana) subendone i contraccolpi fino all’Affaire Dre-yfus e alle sue conseguenze, le memorabili leggi Combes ancor oggi motivo di accesi dibattiti. Sarebbe, ci pare, utile una analisi di eguale spessore sui casi della Spagna, la cui laicizzazione tardò (crediamo) ad esplodere fino agli anni ’30 del secolo scorso, ma partendo da lontane ra-dici che spiegano almeno in parte la violenza dell’anticlericalismo durante la guerra civile; o anche sul caso messicano, con la sua rivoluzione ferocemente laicista. Uscendo poi dall’ambito cattolico (pur così significativo) vanno almeno citati i casi del Giappone, della Turchia o della Russia, dove la rivoluzione bolscevica impose in chiave totalitaria lo sradicamento della religio-ne e l’instaurazione di un regime ateo. Questi esempi ci pongono anche la questione del perché nulla di analogo si sia verificato nei paesi anglosassoni. A nostro modesto avviso, nelle chiese riformate, la luterana come la calvinista o l’anglicana, il potere passò di mano (anche brutal-mente, come nel caso inglese) dall’autorità religiosa a quella laica, togliendo alla prima ogni possibilità di confronto/scontro con lo Stato. Nel mondo cattolico, invece, la Chiesa è riuscita a mantenere una sua forte autonomia formale e sostanziale rispetto allo Stato, con il quale ha continuato a trattare da potenza a potenza. In Francia lo Stato nazionale in evoluzione verso la sua assolutizzazione avviò un processo di distinzione polemica che non poteva non avere il suo sbocco in un aperto conflitto alla seconda metà dell’ottocento quando le forze radicali, masso-niche, progressiste, positiviste e laiciste, misero alle corde la Chiesa, convinte della sua pros-sima scomparsa, che esse interpretavano come la scomparsa di una anacronistica superstizio-ne. Il nostro ingombrante excursus meriterebbe qualche maggiore considerazione e potrebbe portare a scoperte inaspettate: alla constatazione, per dire, che molte delle vicende asiatiche del XX secolo - quelle della Cina di Mao-tse Tung o quelle vietnamite segnate dalla presenza di Ho Chi Minh, fino a quelle dell’Irak e del Baath di Saddam Hussein - si spiegano e trovano le loro fondamenta nell’assorbimento di una cultura e logica politica tendente alla formazione di una statualità “nazionale” di stampo laico, o meglio laicista, sul modello della Francia ottocen-tesca e più in generale dell’Europa dei nazionalismi. Sia Mao-tse Tung che Ho Chi Minh che Saddam Hussein sono di formazione culturale europea, quando non direttamente francese…

Torniamo al Romano. Il processo di laicizzazione venne presto, in Italia, temperato e indirizza-to verso sbocchi di conciliazione, anche a dispetto del “non expedit” e della paura della moder-nità che ossessionava il Vaticano. Tentativi conciliatoristi furono ancora vanificati; invano, nel 1886, l’influente cardinale Bonomelli scriveva a Leone XIII supplicandolo di por mano alla “pa-cificazione della Patria nostra, sospiro di tutti i buoni”, se non altro per evitare che “la gioventù studiosa” potesse ulteriormente allontanarsi dalla Chiesa, preparando inevitabilmente “l’apostasia di tutta la Nazione”. In questa sua separatezza dal secolo - sostiene Romano - la Chiesa arrivò ad essere “più vigile e profetica delle grandi potenze” di fronte alla prima guerra mondiale: le diffidenze del papa si incrociarono con l’oggettiva crisi del modello nazionale eu-ropeo. Ma proprio quella guerra avrebbe segnato il punto di svolta della riconciliazione, almeno per quanto riguarda la società civile nella quale, già in occasione della guerra di Libia, era affio-rato il fenomeno dei cattolici nazionali(sti), vale a dire la rappacificazione di fatto dei credenti con il nuovo Stato. Di lì a pochi anni, la nascita del Partito Popolare di Don Sturzo, secondo Romano, dimostrò che “i preti italiani, da Gioberti a Sturzo, sono ‘nel mondo’ più dei loro colle-ghi di altri paesi europei, e che la società italiana riconosce docilmente al clero, da tempo im-memorabile, una funzione dirigente”. Anche senza Mussolini e il Concordato, in definitiva, non è vero che i cattolici italiani sarebbero stati cittadini di seconda classe o che il Vaticano avrebbe sofferto di restrizioni inaccettabili. Forse, ad accelerare la stipula del patto influì lo scoppio del-la rivoluzione bolscevica in Russia: ancora una volta, un evento internazionale. Il capolavoro di Pio XII ebbe come prezzo la scomparsa del “laico” Partito Popolare, il pontificato di papa Ron-calli avviò un processo di revisione che sembrò favorire una certa “laicizzazione” della stessa Chiesa; dopo la caduta del muro di Berlino, i riflessi della politica internazionale indirizzarono su strade che sono ancora da esplorare la chiesa di papa Woityla e di papa Ratzinger.

In definitiva, Sergio Romano ci consente di riesaminare, nella prospettiva storica, alcune que-stioni: 1) il rapporto tra Stato italiano e Chiesa; 2) il rapporto tra Chiesa e cattolici italiani; 3 )il rapporto tra Chiesa e modernità; 4) il rapporto tra Chiesa e contesto internazionale. Tutti que-sti temi si ripresentano oggi, come abbiamo accennato, in una chiave diversa, nuova e dagli sbocchi imprevedibili. Un discorso di tipo teorico dovrebbe affrontarli con la consapevolezza di questa novità. Ma è a questo compito che manca, ci pare, il secondo volume, che pure ha, ap-punto, ambizioni teoriche. Impossibile analizzare partitamene i quattordici interventi (Remo Bodei, Carlo Galli, Francesco Remotti, Vincenzo Ferrone, Francesco Margotta Broglio, Tullio De Mauro, Claudio Magris, Pietro Scoppola, Andrea Riccardi, Khaled Fouad Allam, Anna Foa, Ida Dominijanni, Umberto Veronesi). Vogliamo ribadire tutta la nostra considerazione per quello, già menzionato, di Francesco Margiotta Broglio, che corregge, più che integrare, la troppo ire-nica ricostruzione di Sergio Romano. Della impostazione difensiva che si infiltra nella (interes-santissima) ricostruzione che Tullio De Mauro ci offre circa il significato del termine “laico” ab-biamo pure detto. L’impostazione difensiva ritorna, più o meno sottilmente, in molti degli altri interventi. Non ci saremmo aspettato altro da Piero Scoppola, il quale rivendica il nesso a suo avviso prioritario e inscindibile tra il cristianesimo (anzi, come egli sottolinea, il cristianesimo “occidentale”) e la democrazia liberale. Vorremmo qui, solo per incidens, ricordare che il mes-saggio cristiano trovò a Roma l’opportunità di espandersi nelle forme da lui indicate (separa-zione tra sacro e profano, tra Chiesa e Stato, ecc.) grazie alla scomparsa dell’Impero d’Occidente. Nell’oriente bizantino, dove l‘Impero mantenne a lungo un suo forte potere istitu-zionale, le cose sono andate altrimenti. Il Vangelo delle due Chiese era lo stesso ma i due cri-stianesimi, l’”occidentale” e l’’orientale”, batterono strade diverse. In parte, ricalca questa im-postazione critica il saggio di Vincenzo Ferrone che giustamente rivendica a Sant’Agostino la più riuscita operazione “d’interpretazione e di integrazione” della storia profana “all’interno del disegno salvifico” mentre, sia prima che dopo, i rapporti tra le due Città, la terrena e la celeste, conobbero più scontri che dialogo, come la stessa Chiesa sembrò ancora avvertire, in occasio-ne del Giubileo del 2000, con la nota lettera apostolica “Tertio millennio adveniente”, un invito al popolo di Dio “a compiere un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze com-piute” dai cristiani.

Da segnalare anche la messa a fuoco dei difficili rapporti tra islam e politica di Fouad Khaled Allam, attento ma equilibrato osservatore di quei temi, e l’analisi della cosiddetta “legge sul velo” francese ad opera di Ida Dominijanni. Esaustiva, e quindi un po’ manualistica, la ricostru-zione della complessa tematica (la laicità non è “relativismo”, la religiosità non è solo “privata”, ecc.) di Remo Bodei e dello stesso curatore, Geminello Preterossi, il quale però insiste troppo su una pregiudiziale antiliberista. Francesco Remotti riprende (anche lui sulla difensiva?) il con-cetto di una laicità monca e deficitaria “senza” le doti o privilegi etici che spettano invece al credente. Da una osservazione di Preterossi prendiamo spunto per un ulteriore, e finale, nostro distinguo: “l’autonomia e l’esistenza delle ragioni dei laici” - egli osserva - non possono essere “oggetto di contesa”. A noi questa impostazione pare timida, condizionata dal clamore con cui la pattuglia degli “atei devoti” e dei “teocon” aggredisce i dissenzienti. Il vero problema è af-frontare, cogliendone nel cuore le aporie e le inaccettabili pretese, l’atteggiamento di “riconqui-sta” posto in essere dal potere clericale e dai suoi affini e subalterni. La laicità non ha bisogno di ”altro” avendo in sé, serenamente ma fermamente, tutte le sue buone ragioni. Noi facciamo nostre le considerazioni del filosofo Biagio De Giovanni (“Il Riformista”, 18-3-06): “La laicità ri-torna ad essere questione centrale per l’irrompere violento dei fondamentalismi, e perché è l’unica risposta a questo drammatico evento. (…) Laicità è dunque la forma di coscienza decisi-va di cui dispone il mondo civilizzato per riaffermare la fiducia nella storia umana, perché essa non precipiti nel nichilismo del reciproco terrore” rispondendo al fondamentalismo con altro fondamentalismo.

- Sergio Romano: “Libera Chiesa. Libero Stato? Il Vaticano e l’Italia dal Pio IX a Benedetto XVI”. Longanesi & C., 2005. Pag. 154, 14,50 euro

- “Le ragioni dei laici”. Quattordici voci autorevoli unite dal rifiuto di ogni integralismo. A cura di Geminello Preterossi. Editori Laterza, 2005. Pag. 192, 12,00 euro



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