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Info SOCIALISTA – 10 maggio 2006 a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei socialisti e del centro sinistra n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 – Trento/Bolzano www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it Quindicinale - Anno 3° SOMMARIO: - Un libro, per cominciare: Socialismo liberale di Carlo Rosselli (4) - I valori della laicità e il voto dell’ulivo - GIORGIO NAPOLITANO Quel comunista socialdemocratico - Il regno dei politici di professione - Ciò che il primo maggio deve riconquistare UN LIBRO, per cominciare “Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges Autore: Carlo Rosselli Titolo: Socialismo liberale Einaudi editore Socialismo liberale (4) di Carlo Rosselli Il movimento operaio (le parti 1.-2.-3. sono state riportate nelle precedenti infoSOCIALISTA) La prassi riformista – meglio direbbesi: antimarxista – del movimento operaio socialista, si è affermata in tutti i paesi quasi in sordi-na, più per forza maggiore e per la lezione delle cose, che per consapevole elezione; e sovente contro i disegni dei teorici. I quali, a cominciare da Marx, che quasi lo ignorò, hanno sempre diffidato un poco del movimento sindacale. Nel sistema marxista la sfera di azione utile assegnata al sindacato è ristrettissima e vale solo per i suoi riflessi politici. In tutta Europa, esclusa l’Inghilterra dove il partito sorse come espressione politica delle Trade-Unions, si verificò sin dagli inizi un contrasto tra partiti e sindacati, a spese appa-rentemente del moto sindacale che si volle subordinare al partito, ma il realtà a tutto danno dei partiti che si videro costretti a conci-liare l’inconciliabile: cioè il momento pratico col teoretico, il semplicismo messianico del loro programma finalistico con le concrete rivendicazioni sindacali, la tattica rivoluzionaria e la pratica intransigente della lotta di classe, con i quotidiani fenomeno di transa-zione e di collaborazione dei sindacati. In nome dei fini ultimi i partiti socialisti si vedevano costretti a intervenire a favore di mode-ste frazioni operaie o di rivendicazioni di dettaglio, compromettendo la loro purezza rivoluzionaria per una indefinita serie di piatti di lenticchie. Ma non v’era possibilità di scelta. La marea proletaria, cadute le dighe reazionarie, era salita incontenibile, invadendo ter-ritori sconosciuti, abbattendo muraglie teoretiche, superando tutti gli ostacoli logici, i non possumus, le scomuniche e i sinaistici ba-gliori del “Manifesto”. O accompagnare questo moto, sacrificando le formule, o restarne travolti. Saggiamente anche i marxisti più intransigenti si appigliarono al primo corno del dilemma, salvo nascondere nell’equivoco verbale la resa avvenuta. In sostanza il movimento sindacale non ha mai aderito al programma, e più che al programma, allo spirito e alla forma mentis marxi-stica. Di tutte le tesi marxistiche non ha salvato – coi dovuti temperamenti – che il principio della lotta di classe e della autoemanci-pazione proletaria. Principio tattico e pedagogico certo fondamentale, che Marx più di ogni altro scrittore ha contribuito ad illustrare, ma che non può considerarsi monopolio della scuola marxista (Marx rubò di peso la formula a Blanqui), non foss’altro perché fu sempre regola istintiva delle organizzazioni operaie. Per il resto esso ha rinnegato istintivamente tutte le tesi marxiste affermando la possibilità e la desiderabilità di una trasformazione graduale della società borghese con le armi del voto, della contrattazione, dell’agitazione, cioè col ricorso al metodo democratico. Pur facendo leva sulla forza del numero e sul peso degli interessi, si è guar-dato bene dall’irridere, secondo quanto vuole il marxismo, la vecchia piattaforma giusnaturalistica e moralistica; e non invano ha fat-to appello agli innati diritti della personalità e a un principio superiore di giustizia. Lungi dal legittimare in linea storica il potere e la funzione borghese, e dall’inchinarsi di fronte alla necessità, sia pur transeunte, delle leggi di scambio della forza lavoro in regime capitalistico, ne ha contestato la validità in sede etica e ne ha iniziata la erosione in sede contrattuale. Alla visione drammatica e pes-simistica del processo sociale ha sostituito una visione ottimista, costruttiva, ripugnante dai semplicismi e dalle contraddizioni lineari in cui si compiaceva il marxismo. Al posto dei piccoli clan rivoluzionari, vegetanti nell’ombra in attesa della crisi finale, sono suben-trate le possenti organizzazioni sindacali muoventesi alla luce del sole, dirette da uomini dal cervello quadro e dalle capacità realizza-trici, che hanno dato il colpo di grazia alle figure romantiche del cospiratore e del rivoluzionario, uomini che, provenendo dalle stesse fila operaie, si rifiutano ad ogni astratta contemplazione del moto sociale, ad ogni eccessiva idealizzazione delle virtù proletarie. Av-vocati delle masse, espressione dei valori, delle speranze, dei bisogni medi, e non alfieri di piccoli gruppi d’eccezione, si battono per fini concreti ed immediati, come l’aumento salariale, la diminuzione della giornata lavorativa, l’allargamento del suffragio, la demo-cratizzazione del regime di fabbrica; e così facendo vanno talvolta anche troppo oltre nel loro pragmatismo. Dal partito politico non attendono più il comando per l’insurrezione, ma pretendono invece la organica azione in Parlamento e nei corpi pubblici per la difesa di un’atmosfera di piena libertà e il conseguimento di una legislazione protettrice del lavoro. La progressiva consapevolezza dei limi-ti dell’azione sindacale, il contatto con la realtà economica, l’abito del contraddittorio e della responsabilità, la stessa imponenza dei risultati via via conseguiti, che creano una inattesa anche se parziale solidarietà col mondo circostante, tutto coopera così a spegnere nel movimento operaio le facili illusioni sulla possibilità e soprattutto sulla convenienza di un rivolgimento improvviso e violento. Il proletariato, dopo il sorgere del moto sindacale e cooperativo e la conquista delle libertà politiche, sente sempre più chiaramente che non è più vero che abbia tutto da guadagnare e nulla da perdere da una catastrofe sociale, Specie nei paesi più progrediti esso sa di essersi assicurato un tenore di vita e un complesso di istituti e di diritti che si conservano solo preservando l’organismo sociale da scosse violente e soprattutto mantenendo immutati il livello di produttività e il ritmo del progresso. E’, in una parola, il capovolgimento della posizione marxista, ciò che gli estremisti chiamano la “degenerazione” riformistica dei sin-dacati. Ma è una “degenerazione” che dura da più di mezzo secolo, che si accentua ogni anno che passa, una “degenerazione” con la quale ormai sono costretti a fare i conti i più puritani. A questa decisa deviazione nella sfera pratica ne corrispose un’altra in sede ideologica. Il blocco dottrinale marxista che era rimasto saldissimo sotto la furia delle persecuzioni, rivelò ben presto, in una atmosfera di libera critica, profondissime crepe. Sorgeva il revi-sionismo, commento critico di tutta la nuova imponente fenomenologia. Il revisionismo. Il revisionismo, più che sforzo sistematico di critica e di integrazione del marxismo ad opera di una corrente solidale di scrittori, deve considerarsi come la protesta, variamente atteggiata e motivata, della nuova generazione socialista contro il piatto conformistico dei marxisti puri incapaci di adattare la teoria alla nuova prassi operaia e di concepire un socialismo non strettamente legato alla posizio-ne materialista in filosofia. Tra Bernstein, Sorel, Jaurès, Croce, Labriola, Mondolfo – per limitarsi ai più noti – il rapporto è più d’ordine psicologico e polemico, che positivo: l’esigenza che li spingeva era comune, ma le conclusioni cui pervennero intorno all’essenza e al significato dell’insegnamento marxista spesso divergevano e financo si contraddicevano. Ciascuno di questi scrittori avanzò una propria personale interpretazione, non di rado dando vita a una “tendenza” e a una “scuola” come il Bernstein in Germa-nia e il Sorel in Francia e in Italia. Pure, nonostante le tante discordanze di voci, un quid comune li lega e ci permette di parlarne co-me di un movimento unitario. Tutto il revisionismo, sia di destra che di sinistra, può infatti riassumersi nello sforzo di far posto, nel sistema marxista, alla volontà e all’ottimismo del moto operaio. Anche i rivoluzionari sono dominati dallo stesso motivo: romperla col concetto di necessità storica, così severamente affermato da Marx, o ridurlo ad una formula così elastica da piegarlo alle esigenze di un volontarismo blanquista. Lo stesso leninismo, pure tanto rispettoso per la lettera marxista, non ha fatto che sviluppare in modo autonomo e originale tutti gli aspetti volontaristici del sistema, vale a dire la dottrina relativa ai periodi di transizione e alla funzione della dittatura e del terrore. Non sempre i revisionisti furono consapevoli della portata delle loro critiche. Bisogna anzi riconoscere che agli inizi i loro propositi erano stati più che modesti. Si trattava solo di correggere alcune unilateralità, di combattere atteggiamenti troppo assoluti in materia di tattica e soprattutto di dare un valore relativo e secondario al catastrofismo. Nessuno pensava di attentare ai fondamenti del sistema cui tutti professavano ossequio. Bernstein non ha mai pensato di contrapporsi a Marx. La revisione voleva mantenersi interna al si-stema e procedere cautamente con l’aiuto di innumerevoli citazioni marxiste, per sostituire al Marx tutto angoli e spigoli della tradi-zione ortodossa, un Marx più complesso ed umano. Non bisogna credere che a questo risultato siano giunti solo per abilità dialettica, attraverso aprioristiche interpretazioni. Essi furono potentemente aiutati – e sino a un certo punto giustificati – dalla straordinaria complessità della personalità di Marx, il cui rivolgi-mento intimo ebbero il merito di rivelare. Marx non si esaurisce nel marxismo e per molti lati anzi lo confuta. In tutta la vita di Marx – e di riflesso anche nei suoi scritti – fondamentale è il contrasto tra sentimento e ragione, scienza e fede. C’è in Marx uno spirito e-ternamente giovane e ribelle – spirito di moralista, di apostolo, di combattente – che pare prendersi beffe del gelido scienziato. Se-condo il classico dramma di tutti gli intellettuali cui è preclusa l’azione, gli stimoli repressi reagirono sulla sfera teoretica, degene-randola. Nonostante la condanna d’ogni slancio etico e d’ogni impeto di fede, Marx non pervenne mai, anche nei ragionamenti più aridi e astrusi del “Capitale”, a celare il calore religioso di una fede preesistente al sistema. Col risalire dal sistema all’autore, col ricostruire le fasi attraverso le quali il suo pensiero passò, coll’insistere abilmente sulle espe-rienze e influenze giovanili, e coll’interpretare poi, alla luce di questi più complessi elementi, i secchi teoremi marxisti, non riuscì difficile ai revisionisti dimostrare il semplicismo e l’unilateralità della interpretazione sino allora corrente. Vagliando ogni parola, richiamando ogni precedente, gli stati d’animo, le concrete situazioni storiche, finirono per complicare inverosimilmente le discus-sioni; e dove Marx aveva parole lapidarie e proposizioni perentorie, introdussero il bacillo del dubbio. Ma…chi gladio ferit, gladio perit. Il marxismo è una costruzione dogmatica, non sopporta il bacillo critico, Anche il revisionismo, nonostante tutte le cautele, attenua-zioni, riserve, non poté sottrarsi al fato di tutte le eresie: che cominciano appunto con riserve di carattere marginale per finire con la totale sovversione. Ciò che conta in questi casi non è il proposito, ma il metodo. E il metodo impiegato dai revisionisti fu singolar-mente distruttivo. In poco tempo le divergenze, che erano secondarie, si fecero insuperabili. Dalle questioni d’ordine pratico e tattico fu giocoforza passare alle questioni più generali fino a che non si giunse ad impugnare la stessa teoria del materialismo storico, perno del sistema. Invano i revisionisti tentarono di attenuare la profondità dell’erosione compiuta, rifiutandosi di erigere un bilancio con-clusivo e continuando a proclamare il loro sostanziale conformismo. Il bilancio lo fecero gli ortodossi e specialmente gli scrittori borghesi: ed era un bilancio quasi fallimentare. Per rendersi conto della gravità della frane basterà fare un cenno sommario della po-sizione che vennero assumendo intorno al ‘900 i due più tipici esponenti del movimento revisionistico: Bernstein e Sorel. Bernstein iniziava il suo libro famoso (“De versetzungen des Sozialismus”) dichiarando di condividere le premesse filosofiche del marxismo e rivendicandone il carattere altamente scientifico. Suo scopo era solamente quello di “chiarirne” ed “allargarne” la portata fondando su basi infrangibili i principi della nuova scienza socialista. In questa scienza marxista distingueva una parte pura, intangi-bile – il materialismo storico – da una parte applicata, la quale invece era suscettibile di modificazioni senza danno ai principi. Quan-do però passò alla determinazione di questa parte pura cominciarono i guai. Col pretesto che Marx era stato talvolta tradito dall’espressione e che, come tutti i novatori, aveva esposto in modo troppo unilaterale la nuova teoria, la adulterò siffattamente da renderla irriconoscibile. Bernstein ad esempio affermava “la necessità di rendere piena ragione, accanto alle forze e ai rapporti pro-duttivi, alle idee di diritto e di morale, alle tradizioni storiche e religiose, agli influssi geografici, a quelli della natura e del tempo in cui rientrano” – si noti l’abilità di questa inclusione in sordina – “la natura e le tendenze spirituali dell’uomo”. Sosteneva inoltre che nella società moderna va ognora crescendo la capacità di guidare lo sviluppo economico, appunto per la maggiore conoscenza che abbiamo di questo sviluppo: così che individui e gruppi riescono a sottrarre una parte sempre maggiore della loro esistenza all’influsso di una necessità affermatesi contro o senza il loro volere. E concludeva asserendo che in fatto di ideologia, altrettanto rea-le dell’economia, la società moderna è più ricca delle società preesistenti, appunto perché il nesso causale tra sviluppo tecnico-economico e sviluppo delle tendenze sociali si fa sempre più indiretto. Osservazioni sacrosante, ormai accettate tacitamente da tutti i socialisti contemporanei; ma verità che davvero non possono dedursi dalle premesse marxiste. Ma non basta. Bernstein, che pure si professava, nella sostanza, marxista al cento per cento, patrocinava nel suo libro nientemeno che l’abbandono…dell’idea di necessità storica. Di quella idea, egli commentava, che dà l’illusione che il mon-do cammini verso un regime predestinato. E la sosteneva, naturalmente, sulla base di quelle troppo famose note giovanili di Marx a Feuerbach, che sono il punto di partenza e d’arrivo di tutto quanto il revisionismo. La ingenuità di Bernstein rasentava addirittura l’incredibile quando faceva mostra di credere che la sua non era che “una interpreta-zione diversa, una forma attenuata di esposizione, che non intaccava in nulla l’unità del sistema e anzi ne aumentava la ‘scientificità’ (sic!)”. “Il problema starebbe ormai solo – così concludeva – nell’assodare con precisione il rapporto quantitativo dei fattori, delle forze storiche predominanti”. Caspita, ma se era proprio questo il problema che Marx si vantava di aver risolto categoricamente. (4. segue) @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ I valori della laicità e il voto dell’ulivo (riportato parzialmente dal CORRIERE DEL TRENTINO –mercoledì 3 maggio 2006 p.8) Si resta davvero meravigliati nel sentire le valutazioni sul voto politico espresse qui in Trentino da Margheri-ta e Ds, entrambi propensi a cercare di giustificare il calo dell’Ulivo in Regione per “l’eccessivo peso dato alla laicità” da parte di componenti della coalizione di centro-sinistra come la Rosa nel Pugno, in quanto ciò avrebbe “rafforzato il messaggio rassicurante del centrodestra in tema di famiglia”. C’è proprio da trasecola-re: par di vedere i nostri alleati - gli amici e i compagni di Margherita e Ds - subire gli umori dell’indegna campagna contro di noi inventata dal centrodestra che ha fatto intravedere l’ipotesi di un collegamento tra chi ha orinato in una chiesa di Trento e chi avrebbe affisso nostri manifesti su spazi parrocchiali di fronte a detta chiesa per giungere da qui a diffondere due giorni prima del voto un indecente documento contro di noi e il centrosinistra, rei di ignorare i valori della famiglia e della religione! Sta di fatto che noi laico-socialisti onoriamo meglio la famiglia di chi nel centrodestra blatera sul ruolo “sacro” della famiglia, e poi – da per-fetto fariseo - di famiglie ne ha in giro due o tre da mantenere. Questo i trentini – specialmente i veri credenti – lo sanno benissimo. Se poi sui temi etici si vogliono considerare i nostri conterranei (assieme a tanti altri italiani) degli zotici arretrati, restiamo sempre più stupiti: ad esempio tutti i Paesi europei – escludendo solo la Grecia e l’ Irlanda – riconoscono le unioni da fatto, che nella stragrande maggioranza sono coppie norma-lissime che vorrebbero accedere a normali diritti derivanti dal loro stare insieme. No, non crediamo proprio che il centrosinistra – pur vincente – abbia registrato difficoltà perché noi abbiamo sostenuto questi temi o temi analoghi. Come ad esempio il problema del Concordato sottoscritto sotto il go-verno fascista, sul cui “superamento” sono d’accordo tante libere e vitali coscienze cristiane e su cui si sta incamminando la cattolicità italiana tutta ( i Concordati si possono fare e accettare sotto i regimi dispotici per legittima difesa, non in democrazia); o come la valorizzazione della scuola pubblica secondo il dettato dell’articolo 33 della Costituzione repubblicana – che prevede la libertà di insegnamento e quindi anche delle scuole private “senza oneri per lo Stato” - restando dunque un compito sociale e finanziario primario dell’ente pubblico quello di garantire a tutti “uguali basi di partenza”, partendo appunto dall’età scolastica con una scuola pubblica efficiente, moderna e laica, cioè aperta a tutti senza distinzioni di credenze, sesso, razza. Sostenere tutto ciò avrebbe fatto perdere voti al centrosinistra a favore della destra? Non scher-ziamo. Semmai conveniamo che sono stati i temi degli interessi economici di corto respiro a pesare più di tutti, sull’onda una campagna demagogica brandita da Berlusconi sulle tasse chiamando a raccolta tutti “dai monti e dalle città” contro i presunti mostri onnivori della sinistra pronti a svuotare le tasche dei privati cittadini. Sarà ora compito del centrosinistra seguire invece la via di norme più giuste e liberali in materia fiscale e economica, destrutturando il vasto malcostume dell’ evasione fiscale ma alleggerendo nel contempo il peso degli oneri a carico del mondo del lavoro; più in generale nel campo economico e del mercato del lavoro vanno combattuti i monopoli privati e delle corporazioni professionali, garantendo a favore dei cittadini con-sumatori maggiore concorrenza nei settori delle utilities (dall’energia elettrica alle telecomunicazioni, dal gas all’acqua) mentre ai giovani va assicurato un accesso più libero ma anche più dignitoso al lavoro e alle pro-fessioni. Venendo infine al dunque del risultato considerato “non brillante” della Rosa nel Pugno, a cui alludono i no-stri alleati di Margherita e Ds, è ben vero che si poteva pensare ad un risultato migliore. Ma un milione di voti che fanno della Rosa nel Pugno il quarto partito del centro-sinistra alla Camera dei deputati, con 18 parlamentari, non è un risultato negativo per una nuova formazione come quella sorta dall’incontro tra le tradizioni socialiste e radicali. Certo al Senato poteva andare meglio, consentendoci anche qui col superamento della soglia del 3% dei voti (alla Camera la bislacca legge elettorale berlusconia-na prevedeva una soglia più bassa, quella del 2%), di ottenere una adeguata rappresentanza come alla Came-ra; cosa del tutto fattibile se non ci fossero stati gli intralci sostenuti in tante parti d’Italia proprio dai Ds, dai quali ci arriva ora qualche puntuto e peloso rimprovero. Già, perché in giro per l’Italia i diessini hanno aller-tato in concorrenza con la Rosa nel Pugno una serie di liste “civetta” soprattutto per il Senato, raccogliendo per esse anche le firme e i candidati necessari (a partire dalla lista di Bobo Craxi, al quale era stato garantito in cambio di tale opera di “disturbo” un seggio senatoriale sicuro non già nella propria lista ma direttamente e sfacciatamente in quella dei DS, giacché si sapeva che la sua formazione non sarebbe stata in grado di e-sprimere alcun seggio ma appunto solo un danno per noi: poi si è perso su per il camino anche il seggio “si-curo” promesso). Tiriamo innanzi. Sì, andiamo avanti, abbastanza orgogliosi del nostro risultato anche qui in Regione: Trento, con il 3,5% dei voti rappresenta uno dei migliori dati della Rosa raccolti nelle città capoluogo, mentre a Bolzano passiamo dai circa 900 voti ottenuti dallo Sdi alle comunali dell’autunno 2005 agli oltre 2000 delle politiche 2006; è certo inoltre che se sapremo ripetere un analogo risultato alle prossime elezioni regionali del 2008 ri-conquisteremo in Trentino un rappresentanza in Consiglio provinciale. Da soli o all’interno di una più ampia formazione democratica davvero aperta ai valori laici e riformisti, la vita del nostro movimento politi-co continua, nonostante i nostri limiti personali e delle circostanze: perché portiamo un idea che non muore, come la libertà. Nicola Zoller coordinatore regionale della Rosa nel Pugno per lo Sdi GIORGIO NAPOLITANO Quel comunista socialdemocratico • da Corriere della Sera del 11 maggio 2006, pag. 8 di Paolo Franchi Socialdemocratico? Certo, e da un pezzo, e seppur con tutte le sue proverbiali prudenze sempre più apertamente, fin dai tempi in cui il Pci intratteneva (in primo luogo grazie a lui) una fitta rete di re-lazioni con tutte o quasi le socialdemocrazie, ma in Italia a un approdo socialdemocratico fieramen-te si negava. E però se qualcosaGiorgio Napolitano proprio non sopporta sono le ricostruzioni di comodo, spesso caricaturali, e grottesche, della storia del Pci. Del partito in cui entrò, poco più che ragazzo, già da dirigente, visto che quando gli fu chiesto di prendere la guida della gioventù comu-nista napoletana, nel ’45, la tessera non ce l’aveva, per via soprattutto dei «dubbi di carattere essen-zialmente ideologico» che si portava appresso. Per quella storia e per quel partito (per quasi cin-quant’anni la sua storia, e il suo partito) che già nella Napoli del dopoguerra «non si formalizzava», e con tutto il suo stalinismo sapeva spalancare le porte ai «giovani intellettuali dotati provenienti da famiglie borghesi», Napolitano ha e pretende anzitutto rispetto, un rispetto che è tutt’altra cosa dalla liquidazione sommaria, certo,ma pure dalla rimozione. Scriveva quasi un quindicennio fa: «Chi è stato comunista, anche nel modo più indipendente, è partecipe della sconfitta. Può averla subìta co-me conferma della propria critica a modelli e comportamenti aberranti, della validità delle proprie convinzioni democratiche e socialiste. Può non sentirsene travolto. Ma non vi si può sentire estraneo. Nella coscienza di chi sia rimasto comunista fino all’89, o al ’91, anche se comunista di una particolarissima specie come in Italia, si è spezzato qualcosa che non si è riusciti a superare e trasformare ». Superare, trasformare. Napolitano il socialdemocratico non ha mai detto (o lasciato intendere): rinnegare, abiurare. Non lo disse ai tempi della svolta di Achille Occhetto, che appoggiò, certo,magli parve improvvisata e incerta nelle motivazioni e più ancora nei fini, e soprattutto affidata a un gruppo di (allora) quarantenni che del berlinguerismo erano stati un po’ la giovane guardia, e quanto ad antisocialismo avevano dato (quasi tutti) dei punti persino a En-rico Berlinguer. E non l’ha detto nemmeno in tempi assai più recenti, tanto meno nell’autobiografia politica (Dal Pci al socialismo europeo) pubblicata l’anno scorso da Laterza, in cui Napolitano rico-struisce, maneggiando con la proverbiale cautela ma senza reticenze quel materiale incandescente che è la memoria storica, la sua lunga vicenda nella sinistra italiana. La tesi di fondo è nota: il Pci avrebbe potuto e dovuto salvare naturalmente non tutto il suo passato, ma il meglio della sua semi-na, per ricondurlo nell’alveo del socialismo democratico, in Europa, certo, ma anche in Italia; e in-vece si attestò, negli ultimi anni di Berlinguer e oltre, a difesa di una sua supposta diversità politica e morale (quasi fosse una sorta di riserva di massa della democrazia repubblicana in anni di decli-no), e nello stesso tempo, sempre per non finire socialdemocratico, si mise in cerca di inesistenti terze vie, così esponendosi all’isolamento e, nello stesso tempo, a una deriva radicale e settaria. Ve-ro. Ma chi non si riconosceva in questa strategia, o in questa assenza di strategia, e quindi in primo luogo lui, Napolitano, che, in un partito ufficialmente senza correnti, della destra migliorista prima, dichiaratamente riformista poi, era il leader o quanto meno il punto di riferimento principale, diede battaglia per quanto avrebbe dovuto, o si limitò a duellare di fioretto quando sarebbe stata d’obbligo la sciabola? Aquesta domanda antica e ricorrente, talvolta astiosa, quasi sempre polemica, anche perché contiene un giudizio (o un pregiudizio) radicato su un presunto eccesso di diplomatismo e su una scarsa disposizione alla sfida in campo aperto, si può rispondere in molti modi. Magari con altre domande. Per esempio chiedendosi se e quanto una simile evoluzione sarebbe stata effettivamente possibile in un partito che, come dice Napolitano nella sua autobiografia, aveva fatto i conti con il Sessantotto restando «impastoiato nella falsa coscienza di sé come forza rivoluzionaria», e aveva preso sì una più netta distanza dall’Unione Sovietica, ma rimanendo «dentro l’universo storico e i-deologico nel quale era nato al pari di tutti gli altri partiti comunisti». O raccontando puntigliosa-mente, come fa sempre Napolitano, e come confermano sul versante opposto gli appunti riservati di Tonino Tatò per Berlinguer, gli scontri di quegli anni nel gruppo dirigente comunista, e il clima te-sissimo, molto più teso di quanto si potesse percepire da fuori, in cui si svolgevano. Certo è che Na-politano non fu d’accordo né sulla ricerca di improbabili «terze vie» tra comunismo e socialdemo-crazia né sulla guerra civile a sinistra esplosa, con Bettino Craxi presidente del Consiglio, sulla sca-la mobile; e il prezzo pesante di un dissenso sempre più evidente lo pagarono, lui e tutti i migliori-sti, tacciati di essere una sorta di quinta colonna craxiana, ridotti al rango di ospiti non troppo desi-derati in quella che continuavano a considerare, comprensibilmente, casa loro, anche negli anni suc-cessivi. Fino alla svolta di Occhetto. E persino oltre, perché gli eredi di Berlinguer continuarono a pensare, e pure a teorizzare, la necessità di «andare oltre» non solo il comunismo appena seppellito, ma an-che una socialdemocrazia che insistevano a disprezzare in cuor loro, di sicuro non solo per via di Craxi e del craxismo. Più tardi, molto più tardi, soprattutto da parte di Piero Fassino, è arrivato il ri-conoscimento aperto dei meriti di Napolitano, primo tra tutti quello di essersi inoltrato con pruden-za, sì, ma soprattutto con coraggio, in tempi nei quali per farlo si pagava dazio, sul terreno giusto. Napolitano, naturalmente, ne è stato lieto. Ma certo si è chiesto anche se e quanto lo abbiano seguito e intendano seguirlo davvero, su questo terreno, i suoi compagni, e più in generale la sinistra. Il Pci, il partito che voleva «trasformare», e «superare», e del quale gli capita talvolta, specie alle viste del-le mestizie del presente, di rimpiangere alcune virtù, non c’è più da un pezzo. La ricomposizione in un unico, grande partito delle diverse famiglie del socialismo italiano non c’è stata, e probabilmente non ci sarà mai. Della prospettiva di un novello partito democratico si parla a giorni alterni: e in o-gni caso non lo ha mai entusiasmato più di tanto. Forse nell’affetto con cui viene salutata non solo a sinistra la sua elezione (a proposito: auguri di cuore, presidente) c’è anche una punta di rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. IL REGNO DEI POLITICI DI PROFESSIONE Nel Parlamento appena eletto nell’aprile 2006 “dopo oltre dieci anni di retorica antipolitica… sono quasi triplicati i politici di professione” rispetto a quelli eletti verso la fine della prima Repubblica nelle elezioni del 1992, quando erano “solo un terzo di quelli odierni”. Riportiamo tra virgolette questi dati tratti dal Corriere della Sera del 28 aprile 2006 che in un articolo di Luigi Covatta nella rubrica “Economia e carriere” prosegue affermando anche che è meglio così. Sì, perché i politici di professione sono “i più adatti a far funzionare quella fabbrica di leggi che è il Parlamento” in quanto “il legislatore migliore è quello che ha una competenza generalista, mentre per lo specialista è più facile cadere nel conflitto di interessi”! Insomma, a fare gli “specialisti” ci sarebbero nella pianta organica del Parlamento già “funzionari selezionati con grande rigore” che possono fornire ai legislatori “eccellenti analisi dei problemi su cui devono decidere”. Dunque non servirebbe al Paese eleggere in Parlamento tanti professionisti e tecnici provenienti dalla cosiddetta società civile. No, servono di più le qualità dei politici di profes-sione… Beh, fino a ieri ci avevano raccontato tutta un’altra storia, sulla quale più d’uno ha finito per costruire una vera e propria politica professionale… predicando – guarda che caso ! – l’antipolitica. Sì, vengono alla mente tanti politicanti populisti e falsi nuovisti “di professione”, che per sbaraglia-re gli avversari tuonavano contro la partitocrazia a favore della “società civile” e con ciò facendosi eleggere in Parlamento in gran numero, appunto “tre volte di più” rispetto a quelli del “lontano” 1992, quando – a loro dire – saremmo stati ridotti a miseri sudditi del “regno” partitocratico dei po-litici di professione. Ora che quest’ultimi sono triplicati ed assurti al seggio parlamentare grazie ad una graduatoria stabilita direttamente dai vertici nazionali dei partiti – assecondati da una legge elettorale definita una “porcata” dagli stessi proponenti anche in quanto esclude agli elettori la possibilità di esprimere le preferenze tra i vari candidati – in quale regno mai ci avranno scaraven-tato? DOCUMENTI Ciò che il primo maggio deve riconquistare · TRENTINO (dal Diario di Franco de Battaglia) – 3 maggio 2006, p. 10 117 anni or sono, al congresso di Parigi del 1889 venne promossa dall’ Internazionale socialista la celebrazione del 1° Maggio come “Festa del Lavoro” o “Pasqua degli operai di città e campagna”. La ricorrenza ha mantenuto da allora il carattere di manifestazione per i diritti dei lavoratori, di solidarietà internazionale e di pace. Via via il “Primo Maggio” ha superato i confini partitici e sindacali per diventare una Festa aperta a tutta la popolazione che ha fiducia nel progresso sociale e civile della comunità umana. Ma la particolare temperie attuale – solcata ancora da venti di terrore e di guerre - im-pone una rilevante sottolineatura. Cosa significa precisamente oggi aver “fiducia nel progresso civile e sociale della comunità umana”, operare per “i diritti dei lavoratori, la solidarietà inter-nazionale, la pace”? Essere seriamente progressisti e pacifisti dovrebbe ancora e sempre più significare “mettere in opera i mezzi concreti per applicare i principi fissati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, adottata fin dal 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale dell’ONU. Ora, quanti conoscono esattamente questi principi “proclamati” da tutti i Paesi del mon-do? E fra coloro che li conoscono, quanti li applicano? Non sono domande oziose, giacché la Dichiarazione punta ad affermare quei diritti indi-viduali e di cittadinanza che dovrebbero essere alla base di “una società democratica”. Ma quanti sono i Paesi effettivamente democratici? In quanti trova applicazione l’articolo 3 della Dichiarazione: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”? In quanti l’articolo 18: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”? In quanti l’articolo 21: “Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti… La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraver-so periodiche e veritiere elezioni”? (Il testo completo della Dichiarazione può essere facilmente trovato anche entrando nella prima pagina del sito www.socialistitrentini.it). Taluno ha azzardato che affermare la democrazia nel mondo sarebbe segno di un “im-perialismo culturale”, di una invadenza oppressiva rispetto ad usi e costumi consolidati e sa-gomati attorno a tradizioni diverse. Ma quale imperialismo, quale invadenza? Tutti i Paesi del mondo, membri dell’ONU, hanno testualmente “adopted and proclaimed” – almeno a parole – la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Quindi e piuttosto sarebbe da dire: perché si è stati così miopi, così egoi-sti, nel non essere intervenuti per tempo e quotidianamente per far applicare e per estendere sempre più quei Diritti così “universali” contro ogni dittatura e intolleranza civile e religiosa? Sappiamo che solo così si potrebbe preparare una pace duratura. Proprio per questo Al-do Capitini, un autentico propugnatore di pace, ha lasciato scritto indelebilmente: “Se vuoi la pace, prepara la liberazione”. Ecco quale può essere il messaggio attuale per una manifestazione internazionale come il Primo maggio: la rivendicazione radicale della democrazia e dei diritti dell’uomo in ogni parte del globo. Sappiamo da socialisti umanitari che una rivendicazione così risoluta va portata pri-ma di tutto sulle spalle della cultura, piuttosto che sulla punta delle spade. Lo sapevano anche coloro che scrissero la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Non a caso richiamarono tutti i membri dell’Onu – “senza distinzione di status politico dei Paesi e dei Territori” – all’obbligo di pubblicizzare il testo della Dichiarazione, facendola “leggere e spiegare principal-mente nelle scuole e nelle altre istituzioni educative”. Ripartiamo da qui, con un impegno con-creto: dall’obbligo – così mite e così radicale - di leggere e spiegare in tutte le scuole di tutti i Paesi del mondo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Nicola Zoller @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ torna in alto |