|
INVITO ALLA LETTURA (rivista NORDSUD, Novembre 2024, n.144) ESSERE AUTENTICI E SOBRI Commento al libro di Paolo Crepet, Non siamo capaci di ascoltarli - Riflessioni sull’infanzia e l’adolescenza, Einaudi -di Nicola Zoller Che futuro hanno gli adolescenti italiani agli albori del XXI secolo? Precario, almeno sul fronte del lavoro: «Possibile mai – sottolinea Paolo Crepet in Non siamo capaci di ascoltarli - Riflessioni sull’infanzia e l’adolescenza – che nessun imprenditore abbia riflettuto sulla semplice evidenza che un lavoro provvisorio produce un’identità interinale, ovvero l’opposto di quell’idea di professione fondata su passione e merito che è l’unica garanzia di qualità nelle prestazioni e di alta produttività?» Dunque passione e merito, da costruire spalancando le porte all’autonomia del giovane uomo. Per diventare 'grandi ' non basta il talento da incasellare in una educazione ''competitiva'': «la competizione non è per tutti, e soprattutto non seleziona i migliori, solo i meno sensibili», afferma Crepet. Cosa serve allora all’adolescente? Occorrerebbe porre attenzione alle sue caratteristiche psicologiche: al suo grado di autostima, alla sua capacità di far fronte ad eventi negativi, di assorbire lo stress, alle sue risorse affettive. Il ragazzo deve abituarsi ad «assumere responsabilità» agendo in autonomia, anche col rischio di sbagliare: «per andare avanti a volte è necessario regredire, come fa l’atleta quando si riposa prima di fare un grande salto». Occorre che «familiarizzi» col dolore e con le frustrazioni della vita: «è importante prendere qualche brutto voto a scuola, riuscire a far fronte a una delusione amorosa, essere in grado di reagire ad una ingiustizia patita». Così si impara a conoscere i propri limiti, le fragilità del proprio corpo e della vita, per poter meglio far fronte agli eventi difficili dell’esistenza umana «senza lasciarsi travolgere o annullare dalla paura». Ricordiamoci che «visto da vicino, nessuno è normale». Promuovere l’autonomia vuol dire educare all’autostima. In «un processo doveroso, pedagogicamente indispensabile», il giovinetto lascerà la casa genitoriale alla fine dell’adolescenza e si diplomerà frequentando poi l’università in una città diversa dalla sua… senza paura. Se proteggiamo il nostro ragazzo da tutto, se gli insegniamo a preferire una «sana mediocrità senza emozioni» piuttosto che a coltivare «fantasia e creatività», gli faremo «apprendere» la noia: egli crescerà senza sapere quanto sia bello e importante costruire ciò che gli manca, dunque essere intraprendente e temerario. Per tendere alla felicità occorre vivere emozioni vere: se invece i genitori le reputano 'pericolose', se diventa più comodo la prospettiva mediocre di un buon reddito piuttosto che impegnarsi nel confronto con «una bell’anima inquieta e inquietante», vuol dire proprio che questi giovani «non siamo capaci di ascoltarli» come recita il titolo del libro: la loro felicità passa per una ricerca di autenticità e di sobrietà, non per una vita dedicata ad accumulare e a standardizzarsi. Nel mondo occidentale 'progredito' esistono sacche di povertà e di emarginazione ancora da sanare, ma parimenti si sta sviluppando un’altra forma di malessere: «il disagio dell’agio»: troppo protetti, i giovani crescono nel culto del denaro, dell’eccedente, favorito da programmi televisivi, riviste, siti internet che promuovono l’ostentazione e il narcisismo. Ma sono intimamente insicuri, non girano più il mondo in autostop, relegano la loro curiosità per ciò che non conoscono alla 'virtualità' del web. L’insicurezza interna porta in altri casi a sviluppare un’aggressività verso l’esterno come mezzo di affermazione: cuccioli di gorilla, crescono! – si potrebbe dire – coccolati in un clima edonistico ed egocentrico che considera la “cattiveria” come l’unica ricetta per raggiungere il successo. In ogni caso vuol dire che non ci sono più speranze da coltivare, che «i nostri giovani assomigliano alla parte peggiore degli adulti». Ma allora vorrebbe dire che la nostra specie – presa di impulsi auto ed etero aggressivi – non avrebbe più speranze di sopravvivenza. Occorre invece ritornare a promuovere sentimenti ed emozioni, partendo dal rapporto tra genitori e figli: da coabitanti sotto lo stesso tetto fra superficialità e convenzioni, a un rapporto più autentico, donandosi più reciproca disponibilità di tempo (non solo i tredici minuti medi che sono stati calcolati per il pasto serale). Una carezza tra figli e genitori vale un futuro di bene. Un figlio educato alle emozioni crescerà meno superficiale e indifferente; quando dirà: «Papà, lasciati accarezzare», «Mamma, fatti coccolare», avrà davanti una vita in cui, più dei soldi e del sesso, conteranno l’affetto e il sentimento. Bene e meglio sarebbe stato che anche nell’insegnamento a scuola, fin dai primi anni, non si fosse disgiunto «l’educare dall’emozionare». Le carezze sarebbero state «un’ imprescindibile forma di comunicazione effettiva». Invece sono state lette come controproducenti per l’apprendimento, i presidi hanno inviato circolari raccomandando al corpo docente di «astenersi da qualsiasi manifestazione fisica d’affetto» per evitare fraintendimenti. Ma – riflette Crepet – come si fa ad educare senza relazione, «senza una comunicazione emotiva, quindi senza una carezza o un bacio?» torna in alto |