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Nel centenario: KAFKA E LA COLPA NON COMMESSA -di Nicola Zoller* Giornali l’ADIGE, 20 settembre 2024 e ALTO ADIGE, 17 settembre 2024 CONTRO LA TIRANNIA DEGLI APPARATI GIUDIZIARI: “Arrivederci, mite Josef, assiduo compagno delle nostre vite” Molti di noi,"risospinti senza posa nel passato" perché tanti sogni sono alle spalle, coltivano operosamente una reazione al declino scettico, impegnandosi a rileggere proprio "senza posa" - come scriveva F. Scott Fitzgerald - testi formativi che hanno animato le nostre vite, quando pensavamo di prepararci a costruire una "storia" di valore, con le basi e i contravveleni necessari. Ciò succede particolarmente quando arriva una ricorrenza a suggerirci una rimembranza ricostituente. È il caso del centesimo anniversario della morte di Franz Kafka: il 2024 è l’anno dedicato a quest’uomo, che la critica letteraria definisce “riservato e sensibile, le cui opere vanno necessariamente lette ancor oggi”. Il libro qui prescelto da rileggere - e che concisamente viene commentato, consigliandolo a tutti - è ‘Il processo’ (Einaudi), col suo celebre incipit: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato”. Parte così il capolavoro di Kafka, una spietata trattazione contro il potere burocratico, in particolare contro la tirannia degli apparati giudiziari, inaccessibili e programmaticamente vessatori verso il cittadino-suddito. E non tanto per “la durezza di cuore” del singolo burocrate. Kafka fa dire ad uno di loro: “...forse a noi tutti piacerebbe aiutare, ma essendo impiegati giudiziari assumiamo facilmente l’apparenza della durezza, di chi non è disposto a dare soccorso”. E’ dunque la ‘machina’, l’implacabile ruota tribunalesca, che abbrutisce i singoli operatori. E’ una tematica pressante in tutta l’opera kafkiana. “La colpevolezza è sempre fuori discussione”, era il motto dell’ufficiale con funzioni anche giudiziarie di cui Kafka parla in un altro memorabile romanzo, ‘Nella Colonia penale’. Questo clima di cupezza e di rovina è per Kafka la norma fondamentale del mondo moderno. Nel romanzo ‘Amerika’ così egli scolpisce il destino dell’umanità tapina: “Il verdetto era determinato dalle prime parole che salivano alla bocca del giudice in un impeto di collera”. Ma è ne ‘Il processo’ che l’angoscia, il terrore, l’amarezza... raggiungono i livelli insoliti che dopo d’allora verranno appunto definiti “kafkiani”, quando si mescolano ad un filone di comicità che rende ancor più definitivo lo scacco per l’umanità caduta nella trama burocratica. E questa comicità è resa ancor più struggente sapendo che Kafka, leggendo con gli amici passi del romanzo, scoppiava a tratti in risate irrefrenabili. Non è tragicomica la scena finale de ‘Il processo’? I due carnefici prelevano Josef K. e quest’ultimo senza proteste, senza cercare di capire, lascia mettere le sue mani nelle loro mani: “Josef K. procedeva rigido tra loro; i tre formavano adesso una tale unità che se qualcuno avesse voluto fare a pezzi uno di loro, sarebbero andati in pezzi tutti. Una unità come la formano solo le cose inanimate”. E quando infine uno gli stringe la gola e l’altro lo trafigge al cuore con un coltello, Josef non grida: egli si spegne passivamente, imprimendosi negli occhi le facce - “guancia contro guancia” - dei carnefici che stanno guatando il suo momento finale. Josef K. riesce solo a dire: “come un cane”. Muore proprio come un cane, vinto nella vita e anche dopo la morte: muore per una colpa non commessa, ma “di questa colpa - ha commentato Primo Levi - si può portare vergogna, fino alla morte e forse anche oltre”. Sì, come un cane - e queste sono le ultime parole del romanzo - “come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”. Arrivederci, mite Josef, assiduo compagno delle nostre vite, paradigma d’umani destini. *Nicola Zoller -collaboratore delle pagine letterarie della storica rivista “Mondoperaio” torna in alto |