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A 200 ANNI DALLA NASCITA, ECCO L’ORDOSSO DOSTOEVSKIJ CHE INNALZA DIO CONTRO L’ATEISMO OCCIDENTALE -di Nicola Zoller °l'ADIGE, 14 febbraio 2022 ("Il genio immortale di Dostoevskij) °MONDOPERAIO,n.2, febbraio 2022 ("L'ortodosso Dostoevskij contro l'ateismo occidentale") In occasione del bicentenario della nascita di Fëdor Dostoevskij, avvenuta l’11 novembre 1821, mi era stato consigliato da competenti slavisti coi quali avevo parlato di alcune opere di Fëdor Dostoevskij, di leggere e rileggere due capitoli del monumentale ''ultimo romanzo'' di Dostoevskij I fratelli Karamàzov[1]: La rivolta e Il grande inquisitore [rappresentando quest’ultimo quasi un libro a sé stante[2]]. Quella rilettura più attenta e meditata – suggerivano – mi avrebbe aiutato a capire meglio il percorso del grande romanziere russo. Ci ho provato, senza reputare di aver raggiunto l’obiettivo che mi era stato prefissato né tantomeno di diventare un esperto di Dostoevskij, memore dell’ammonimento dello studioso Paolo Nori: «Dubito che possano esistere gli esperti di Dostoevskij». Ecco comunque l’esito della mia ricerca. Il primo capitolo menzionato rappresenta una rivolta contro Dio. Ivàn Karamàzov – ateo tormentato – si rivolge al fratello Alëša denunciando come inaccettabili le sofferenze e le crudeltà inflitte dagli adulti ai bambini innocenti, tanto da rappresentare un punto di rottura insanabile – una rivolta, appunto – che mette in discussione l’esistenza di Dio. La via più diretta per giungervi è mettere in evidenza le sofferenze gratuite inflitte ai bambini (che a differenza degli adulti devono ancora conoscere il bene e il male) dagli uomini che sono più crudeli delle belve. Cita il caso dei turchi quando nel 1875 repressero i moti indipendentisti bulgari: «Torturavano con voluttà anche i bambini, cominciando con lo strapparli con i pugnali dal ventre materno, fino a lanciare in aria i lattanti e ad infilzarli sulle baionette sotto gli occhi delle loro madri». Ivàn riporta anche «un altro quadretto»: un generale russo, ricco possidente, ad inizio Ottocento per punire un bambino di otto anni – figlio di servi della gleba – colpevole di aver colpito inavvertitamente con un sasso la zampa del levriero preferito dal generale, lo fa inseguire e sbranare dalla sua muta di cani. Dunque: Perché un Dio che predica l’armonia e l’amore fra gli uomini permette che accadano fatti del genere? E segnatamente: cosa c'entrano i supplizi procurati ai bambini, ancora ignari o inconsapevoli di ogni male? «Immagina – scandisce Ivàn – di essere tu a edificare il destino umano con lo scopo di rendere felici gli uomini, di concedere loro, alla fine, pace e serenità, e che per far questo sia necessario e inevitabile fare soffrire anche una solo creaturina e sulle sue lacrime invendicate erigere quell’edificio. Ebbene acconsentiresti a esserne l’artefice a queste condizioni?». «No, non acconsentirei» disse piano Alëša. «E potresti ammettere l’idea – incalza Ivàn – che gli uomini per i quali tu lo costruisci acconsentano dal canto loro ad accettare una felicità fondata sul sangue innocente di un piccolo martire, e una volta accettata, a essere felici in eterno?». «No, non potrei ammetterlo» riconferma Alëša. Ma aggiunge fermamente: «Fratello, tu poco fa hai chiesto se vi è al mondo un solo essere che possa perdonare o ne abbia il diritto, ma questo Essere c’è e può perdonare tutto a tutti e per conto di tutti perché Lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto. Tu l'hai dimenticato, ma su di Lui si erigerà l’edificio e a Lui sarà gridato: ''Tu sei giusto, o Signore, giacché ci sono state rivelate le tue vie''». Ecco come Alëša riscatta la figura di Dio incarnato in Gesù, rappresentando in maniera esplicita il pensiero maturo di Dostoevskij, a cui l’autore giunge dopo aver descritto – attraverso la forte negazione di Dio espressa da Ivàn – il pensiero opposto. L’azione redentrice di Dio continua ne “Il grande inquisitore”. Nel racconto di Dostoevskij dapprima è la Madre di Dio a rendersi protagonista di un atto di perdono incommensurabile. A Dio che le chiede – indicando le mani e i piedi trafitti dai chiodi – come possa perdonare i carnefici di suo Figlio, lei «intima a tutti i santi, ai martiri, agli angeli e arcangeli di inginocchiarsi con Lei e di chiedere misericordia per tutti, senza distinzione; alla fine Ella lo implora affinché faccia cessare i tormenti dei dannati ogni anno dal Venerdì Santo al giorno di Pentecoste, e i peccatori dall’Inferno subito ringraziano il Signore e lo acclamano». Così anche lo scettico Ivàn ammette che un suo poemetto «mai scritto ma pensato di getto» sarebbe giunto a «qualcosa del genere». È un racconto di sua invenzione dove Cristo ritorna sulla terra, riconosciuto dal popolo come Salvatore, ma presto incarcerato da un grande inquisitore, che lo ha accusato – dopo un miracolo che ha riportato in vita una bambina di sette anni – di essere venuto ad «infastidire» l’ordine chiesastico, di voler portare al popolo una libertà che non gli interessa, perché c'è già la Chiesa che col suo potere lo rende libero e felice. «Rendeteci pur schiavi, ma sfamateci», sembra esser questo l’interesse del popolo, e per ciò l’Inquisitore – già abituato a «bruciare in una sola volta un centinaio di eretici ad maiorem gloriam Dei» - ordina l’esecuzione di Gesù, con gran giubilo del popolo medesimo. Ma ecco che Cristo gli si accosta e «lo bacia sulle sue vecchie labbra esangui». L’inquisitore sussulta, ha un tremito, che gli fa ingiungere: «Vattene e non venire mai più… mai più, mai più». Quel bacio – che secondo l’interpretazione del giurista di origini russe Gustavo Zagrebelsky può essere «una testimonianza d’amore che supera ogni limite umano» come si era verificato nel caso sopra menzionato della Madre di Dio – gli brucia nel cuore, ma il vecchio non muta la sua idea, conclude Ivàn. Questo finale offre ad Alëša il modo di domandare al fratello se l’azione di Gesù lo abbia convertito: «Ma non è che un’assurdità – replica Ivàn – è solo lo sciocco poema di uno sciocco studente». Al che Alëša si alzò, gli si avvicinò e lo baciò dolcemente sulle labbra dicendogli: «Pensavo di avere almeno te al mondo». Ivàn è dapprima turbato come l’inquisitore, quasi accusa il fratello di aver esercitato un plagio letterario rifacendosi alla scena del suo poemetto. Ma si entusiasma comunque, lo ringrazia e infine lo prega: «Dammi un altro bacio… ecco così, e va’…». Ma Ivàn si girò di scatto e andò per la sua strada, senza più voltarsi indietro. Così Dostoevskij attraverso Alëša innalza con mite orgoglio la figura di Dio. Ne ha espresso una negazione formidabile rivoltandosi – assieme ad Ivàn – contro le inspiegabili sevizie comminate ai bambini e poi descrivendo le ruminazioni del grande inquisitore. I peggiori atei del mondo non avrebbero saputo fare di meglio. E poi – conclude Dostoevskij – queste «canaglie deridono la mia ignorante e retrograda fede in Dio! Babbei... ». Non hanno capito – sembra dire – che questa negazione di Dio, così efficace come altri non hanno saputo presentare, lo aiuta col suo romanzo a dare una risposta eterna al bisogno di erigere l’edificio che renda grazie al Dio salvatore, grande e giusto. Dostoevskij muore a neanche sessant’anni di enfisema polmonare leggendo il vangelo di S. Matteo. Il suo funerale sarà seguito da sessantamila persone: la sua parabola si chiude vedendosi incoronato fra i più grandi scrittori nazionali russi. Era partito come geniale rappresentante dell’irreligiosa intellighènzia di orientamento socialista attratta dal mondo europeo pubblicando Povera gente[3], il suo primo romanzo che descriveva le vite dei russi di umili condizioni nella metà del XIX secolo e apponendo a Notti bianche [4]una sentita dedica al poeta Aleksej N. Pleščeev, amico e compagno di frequentazioni tra il 1848-49 al circolo progressista Petraševskij, propugnante un socialismo utopistico: dedica che rimuoverà nell’edizione successiva del 1865, passando poi a rapporti d’amicizia con uno dei più reazionari politici russi Konstantin P. Pobedonoscev. Conclude la vita su un fronte anti-occidentale, esortando la grande Russia alla ortodossa fede divina volgendosi verso l’Asia: e noi – poiché egli è stato il primo a rivendicare e a giustificare consapevolmente il ripudio di ciò che aveva coltivato da giovane [rigetto particolarmente mostrato in Memorie di una casa morta[5] e ne I demoni[6] oltre che ne I fratelli Karamàzov] rispettosamente ci inchiniamo comunque al suo genio immortale. ________________________________________ [1] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Mondadori, Milano, 1994 [2] Fëdor Dostoevskij, Il grande inquisitore, Salani, Firenze, 2016 [3] Fëdor Dostoevskij, Povera gente, Bompiani, Milano, 1977 [4] Fëdor Dostoevskij, Notti bianche, Einaudi, Torino, 1971 [5] Fëdor Dostoevskij, Memorie di una casa morta, Rizzoli Rcs, Milano, 2004 [6] Fëdor Dostoevskij, I demoni, Garzanti, Milano, 1973. torna in alto |