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L “POLITICO APPASSIONATO” DI MAX WEBER

L “POLITICO APPASSIONATO” DI MAX WEBER
-di Nicola Zoller, giornale l’Adige, lunedì 20 giugno 2020, p. 1 s.
-http://www.avantionline.it/il-politico-appassionato-di-max-weber-nel-centenario-della-morte/

Ritorna alla mente un colto articolo pubblicato da "l'Adige" lo scorso 15 aprile, dedicato dal professor Antonio Scaglia al sociologo e storico Max Weber, ricorrendo quest’anno il centesimo anniversario della morte del grande studioso tedesco. Scaglia si chiedeva quali fossero le qualità del politico che ci deve guidare, rifacendosi ad un sapido trattato di Weber che sotto il titolo “La politica come professione” racchiudeva una serie di lezioni tenute nell’inverno 1918 - 1919 a giovani militari rientrati dalla Grande guerra.

In verità il titolo originario di questo saggio weberiano, “Politik als Beruf”, rimanda al doppio significato del termine tedesco “Beruf”: professione ma anche vocazione. Di questo proverei anch’io a parlarne oggi brevemente, seguendo il filo della riflessione del prof. Scaglia. Si era allora in una fase rivoluzionaria, quando la politica aveva una “tragica grandezza”, mentre oggi siamo reduci da miserevoli disillusioni. E però si resta colpiti dalle affinità tra passato e presente. C’era e c’è “il desiderio di voler costruire un mondo nuovo”, con “le trappole in cui facilmente si cade”. C’era e c’è la voglia di “darsi alla politica nella forma dell’impegno personale”, ma anche la ricerca più prosaica del “possibile sbocco di una precarietà esistenziale”, del “procacciarsi da vivere spesso con mezzi eticamente discutibili”.

La giovane democrazia americana - in una certa fase - aveva sbrigativamente risolto il dilemma dando per scontato il disprezzo verso i politici, ma assicurandosi con il voto un potere di controllo mancante nello scenario europeo: “preferiamo avere come funzionari gente su cui sputiamo piuttosto che, come da voi, una casta di funzionari che sputa su di noi”. Ma Weber constata che in quel dopoguerra tale situazione non veniva più tollerata e tornava d’attualità il contrasto fra la politica come professione con la politica come vocazione, intendendo quest’ultima “come perseguimento del potere allo scopo di realizzare fini”.

Weber allora – ritenendo insolubile questa tensione (ci sarà sempre chi vive di politica e contemporaneamente per la politica) - sposta l’attenzione sui modi di raggiungere i fini. Si viene dunque all’altra questione vera: l’azione politica è attraversata dal contrasto di principio tra etica della responsabilità ed etica dell’intenzione. Quest’ultima è un’etica assoluta, che si affida a princìpi intoccabili e non si preoccupa delle conseguenze. Weber esemplifica: “Avete voglia a spiegare a un militante rivoluzionario, convinto seguace dell’etica dell’intenzione, che le conseguenze del suo fare saranno l’aumento delle possibilità della reazione e della repressione della sua classe. Non gli farete nessun effetto. Se le conseguenze di un agire in base a pura intenzione sono cattive, ritiene responsabile di ciò non chi agisce, ma il mondo, la stupidità degli altri uomini”. Seguendo invece l’etica della responsabilità, si è - appunto - “responsabili delle conseguenze prevedibili del proprio agire” e non ci si prende il diritto di rovesciare su altri le conseguenze del proprio agire.

L’etica dell’intenzione - aggiunge Weber - ha veramente solo una possibilità logica: rifiutare ogni agire che impieghi mezzi eticamente pericolosi. “Ma nel mondo reale - scrive - facciamo continuamente l’esperienza che l’etico dell’intenzione si trasforma in profeta furente: chi predica “amore contro violenza” o “bene contro male”, l’attimo dopo chiama alla violenza, anzi, all’ultima violenza, che porterà poi all’annientamento di ogni ricorso alla violenza. La storia è piena di questi “pacifici sanguinari” e di “incorruttibili” propugnatori di giustizia trasformatisi in disumani giustizieri. Ed anche quando la loro fede sarà soggettivamente “seria”, essi avranno uno stuolo di seguaci che cercheranno solo la “legittimazione etica della voglia di vendetta, di potere, di bottino, di prebende”.

Come uscirne, visto che il desiderio di “abbandonarsi” alla causa per cui si parteggia è sempre ardente? La vocazione politica si manifesta con la capacità di reggere la tensione inevitabile tra intenzione e responsabilità. La politica vien fatta con la testa, non con altre parti del corpo o dell’animo. Eppure la dedizione ad essa, se non si tratta di mero e frivolo gioco intellettuale, ma di autentico agire umano, può essere generata ed alimentata solo dalla passione. Così Weber descrive il “politico appassionato”, il quale si distingue dal mero dilettante politico “sterilmente eccitato”, perché ha la capacità - nella calma del raccoglimento interiore - di valutare le cose e di assumersi la responsabilità verso i risultati generati dalla sua passione per la “causa”. La vocazione per la politica sta qui: tenere sotto controllo le due ottiche - intenzione e responsabilità - con un maturo baricentro interno, fatto di passione e precisione insieme. Chi ci guida sa che in democrazia bisogna convincere e per questo serve la sua passione, però non deve ingannarci.

Nicola Zoller -collabora alle pagine letterarie della storica rivista socialista “Mondoperaio”


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