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Da Mani Pulite ai reazionari
10.7.2018

Da Mani Pulite alla "Casta", l’antipolitica ha finito per avvantaggiare i reazionari
-di Sofia Ventura
10 luglio 2018

http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/07/10/news/cosi-la-sinistra-ha-aperto-la-strada-alla-destra-1.324719

«Se vince il No, vincono il sistema e la nomenklatura che vogliamo sconfiggere». Era il 13 aprile 1993, erano le parole di Mario Segni. Il 18 aprile quasi 29 milioni di cittadini dissero sì all’abolizione di un passaggio della legge elettorale per il Senato che l’avrebbe trasformata in una legge maggioritaria. Un plebiscito per scuotere un sistema politico percepito come immobile e incancrenito; il maggioritario come arma, e speranza, per un rinnovamento della politica. Sostenendo la necessità del referendum, scriveva Leo Valiani sulla prima pagina del Corriere della Sera del 12 gennaio 1993: «Una politica senza ideali conduce invariabilmente alla corruttela. A sua volta, la corruttela finisce con lo sbocco nel vicolo cieco della paralisi. Non ne siamo lontani».

Intanto nel 1992, annus horribilis, l’anno dei tragici attentati a Falcone e Borsellino, si apriva Mani Pulite. La nemesi per un ceto politico corrotto, la via giudiziaria al rinnovamento del paese. Probabilmente, per alcuni degli stessi magistrati si trattava di compiere una missione salvifica. Comunque, vi era la consapevolezza di star partecipando a ben altro che una semplice serie di inchieste giudiziarie, pur rilevanti: nel 2011, Francesco Saverio Borrelli, che guidò il Pool Mani Pulite, amaramente ammise «Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».

Il vento della rivoluzione fu alimentato dai media e soffiò potente sull’opinione pubblica. Mani pulite divenne la «serie» più seguita. La drammatizzazione mediatica di quegli eventi prese forma oltre che attraverso la stampa, attraverso le immagini televisive: le dirette dal Palazzo di Giustizia di Milano, i volti di uomini sino a quel momento potentissimi che entravano improvvisamente nelle case degli italiani, attraverso le immagini dei TG, seduti al banco degli imputati, spesso impauriti e confusi.

Chi ha l’età per farlo, ricorda Arnaldo Forlani, intimorito, con la bocca secca, con lo sguardo a tratti spaesato, di fronte ad un agguerrito Antonio di Pietro. Di Pietro e gli altri. Accanto ai potenti nella polvere, sottoposti a quelli che Giglioli, Cavicchioli e Fele, in un volume del 1997, definirono «riti di degradazione mediatica», spiccavano gli eroi del pool, i buoni, i magistrati.

La loro enorme popolarità fu registrata dai primi sondaggi dell’epoca e il sentimento antipartitico fu confermato dal risultato di uno dei referendum che si tennero nel ’93 insieme a quello elettorale, quello per l’eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti: più di 31 milioni di sì. Pochi, come hanno osservato Colarizi e Gervasoni (La Tela di Penelope, Laterza, 2012), si sforzarono di spiegare agli italiani che le difficoltà del Paese, i suoi conti pubblici in dissesto trovavano le proprie ragioni anche nel fatto che a lungo il paese stesso aveva vissuto al di sopra delle proprie possibilità.

Molto più semplice era trovare un capro espiatorio nella corruzione dei partiti. Dimenticando che l’esplosione della spesa pubblica si era accompagnata a pratiche del consenso, distributive e clientelari, delle quali gli stessi cittadini avevano usufruito. E che la stessa corruzione era un fenomeno che poneva in relazione la politica con quella società civile che si voleva monda da ogni colpa.

Da questo contesto nacque la Seconda Repubblica. Da un profondo sentimento antipolitico. Per Mauro Calise la mobilitazione referendaria ebbe il merito di canalizzare la profonda sfiducia verso i tradizionali circuiti rappresentativi (La Terza Repubblica, Laterza, 2006). Anche la riorganizzazione del sistema politico attorno ai due poli del centrodestra e del centrosinistra ha rappresentato un nuovo tipo di offerta politica in grado di mobilitare gli elettori dopo il crollo del precedente sistema. Ma nell’uno e nell’altro caso, un confuso sentimento di avversione ha continuato, pur canalizzato, a perpetuarsi.

Nel 1993 l’ondata per il maggioritario si accompagna all’ondata contro il finanziamento ai partiti. La differenza «antropologica», rimarcata sin dagli esordi da Berlusconi, dell’imprenditore homo faber rispetto alla precedente politica «di chiacchiere inutili, di stupide baruffe e di politicanti senza mestiere», nonostante il passare degli anni e lunghe esperienze di governo non scompare mai e si ripropone, ad esempio, ogni volta che il leader della coalizione denuncia i politicanti alleati che frenano l’homo faber. E si confonde e parzialmente si sovrappone all’altra dicotomia: «noi», i liberali, «loro», i comunisti.

Dal canto suo, la sinistra, anche nella sua reincarnazione nel Partito democratico, e intesa anche in senso lato, come universo culturale, per lungo tempo non rinuncia alla speranza di una via giudiziaria che possa mettere fuori gioco il potente «nemico», corruttore del costume e dell’immaginario degli italiani (e non solo).

Sopravvissuta senza troppi danni al ciclone di Tangentopoli, si fregia della pretesa di una superiorità morale. Una pretesa che riprende, o perpetua, quello scartamento dalla politica all’etica del Pci berlingueriano, riproponendone i gravi limiti. « La sinistra di tutte le sfumature ha trovato nella denuncia morale un comodo surrogato dell’iniziativa politica - notava alcuni anni fa Claudia Mancina (Berlinguer in questione) - E proprio come Berlinguer (…) non coglieva la necessità di intervenire su nodi istituzionali come la definizione giuridica dei partiti, le forme del finanziamento pubblico, i regolamenti parlamentari, ecc., così i Ds prima, e poi il Pd non hanno saputo sviluppare iniziative coerenti su questi temi, muovendosi sempre di rimessa, sempre in ritardo».

Le elezioni del 2008 creano l’illusione di un sistema che si consolida su due grandi partiti, il Pdl e il Pd. Ma entrambi continuano a privilegiare il messaggio del nemico da abbattere, del «noi» e «loro», sottovalutando la necessità di intervenire sui meccanismi della cosa pubblica e sui nessi perversi tra politica, economia e amministrazione (o forse non trovando conveniente farlo), così come sui propri meccanismi di funzionamento, dalla formazione e reclutamento del proprio personale politico al raccordo tra centro e periferia. E la corruzione, il malcostume, l’uso partigiano delle istituzioni, a livello nazionale e soprattutto locale, insomma, una pessima politica, continuano ad essere lo stigma del «caso italiano», nonostante l’illusione purificatrice di Tangentopoli.

La nuova politica non è migliore della vecchia, anzi, come qualcuno ha osservato, se prima si rubava per fare politica, sempre più nuovi arrivati, dentro a partiti sempre più liquefatti e al tempo stesso abbarbicati alle risorse del potere, fanno politica per rubare. Semmai, l’eredità della quasi-tabula rasa di Tangentopoli è la casualità delle carriere, l’incompetenza, la mediocrità. E nessuno interviene, nessuno guarda dentro di sé, perché il messaggio è sempre che «è colpa loro».

E così il pessimo spettacolo che la politica offre di sé, amplificato da pratiche trasformistiche che il cinismo italiano trasforma in linguaggio comune («come uno Scilipoti qualunque») e in maschere come il Razzi di Maurizio Crozza, nutre di nuovo una reazione che utilizza l’unico vero linguaggio egemone della politica italiana, l’antipolitica.

Alimentato dagli stessi partiti che avrebbero dovuto consolidare una nuova Repubblica (ma che, in modi diversi, hanno le loro radici nella «rivoluzione giudiziaria» degli anni Novanta), ora si trasforma nella cifra di una nuova forza politica, il Movimento Cinque Stelle, che a lungo su questo piano non avrà rivali. E ancora una volta i media forniscono un contributo fondamentale. Il pluriennale racconto di una società corrotta a causa di una politica corrotta (che assolve i cittadini e identifica facili colpevoli) si trasforma nel frame dominante della «casta» - alla quale opporre una politica anti-casta - con il travolgente successo (un milione e settecentomila copie in sette mesi) del libro di Stella e Rizzo, La Casta, appunto, pubblicato nel 2007, che rappresenterà un modello vincente per il racconto della politica.

Modello fatto proprio anche da diverse trasmissioni televisive e talk show, sino ad oggi. Anche il tentativo di rinnovamento del Partito democratico, e poi dell’Italia, messo in campo da Matteo Renzi non riesce a sfuggire alla gabbia dell’antipolitica, dall’idea della rottamazione della vecchia guardia del partito a, soprattutto, una legittimazione del proprio agire attraverso la costruzione di continui nemici «dell’Italia» più o meno immaginari, sino alla messa a punto di una riforma costituzionale costruita alla bell’e meglio per potersi rappresentare come il grande innovatore che ha sconfitto, ancora una volta, anche lui, la vecchia politica: «questa riforma (…) è contro la Casta, contro il sistema vigente: non a caso la proponevamo dai tempi della Leopolda» (QN, 22 novembre 2016). Alla fine la strada è stata aperta a chi dell’antipolitica è risultato maestro, perché privo di ogni vincolo culturale o tabù. Il M5S, si è detto, e ora anche la Lega di Salvini, che ha trasformato l’originaria Lega Nord di Umberto Bossi, che già aveva contribuito al surriscaldamento del discorso politico e al clima anti-politico della Seconda Repubblica, in una estrema destra populista.

Tra i maggiori responsabili del fallimento della Seconda Repubblica, i grandi partiti (con la corresponsabilità di un sistema mediatico troppo invischiato nel confronto politico e al tempo stesso sedotto dal racconto facile e popolare da somministrare ad una opinione pubblica sempre più resa irresponsabile) hanno soprattutto proiettato fuori di sé ogni problema e cercato consenso nella demonizzazione dell’avversario, inibendo ogni seria progettualità per sé e per il paese. Oggi osservano, come pugili suonati, il populismo, l’antipolitica al potere. E quel che è peggio è che pensano di combatterla semplicemente facendo dell’anti-anti-politica, che però, di fronte al messaggio cinico e potente dei nuovi governanti, appare nulla più che un lontano balbettio, un rumore di sottofondo. Per la pars construens, se qualcosa di loro sopravvivrà, dovremo forse aspettare la Quarta Repubblica.
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SOFIA VENTURA: Laureata in Scienze politiche all'Università di Bologna ha poi conseguito il titolo di dottore di ricerca in Scienza Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri, dell'Università di Firenze. Allieva di Angelo Panebianco, è professore associato all'Università di Bologna, dove è titolare dei corsi di Scienza Politica e di Leadership e Comunicazione Politica e docente a contratto presso la Luiss School of Government. I suoi principali ambiti di ricerca hanno riguardato le politiche scolastiche, il federalismo, le istituzioni federali nei sistemi politici multinazionali; i suoi ultimi studi concernono la comunicazione politica e il sistema politico francese, al quale ha dedicato numerosi articoli e saggi. È editorialista del Corriere della Sera di Bologna, del settimanale L'Espresso e del mensile de Il Sole 24 Ore IL.



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