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LEGA: BASTA DENIGRAZIONI
15.7.2018

AI LEGHISTI: BASTA DENIGRAZIONI
-di Nicola Zoller
Giornale “TRENTINO”, domenica 15 luglio 2018, p.1 s

Si può leggere anche in: https://www.facebook.com/dr.nicola.zoller/posts/10216175483049992

Un cappio da forca sventolato in Parlamento nel 1993 da un deputato della Lega appare sul frontespizio di una mia recente concisa ricerca “La caduta di Tangentopoli (1993): come un Paese può tornare indietro di mezzo secolo”. Quel cappio è il simbolo degli avvenimenti d’allora, tanto che Mattia Feltri, ora editorialista de La Stampa, ha inserito nella copertina di un suo libro del 2016 la lama di un’ascia che al pari del cappio poteva essere calata sul collo dei reprobi. Titolo del saggio: “Novantatré – l’anno del Terrore di Mani pulite” (Marsilio). Sono immagini – il cappio, l’accetta – che riconducono all’umore del tempo. Gridavano “Roma ladrona”: era la banda degli onesti sorretti dal motto “la Lega non perdona”. Ma i ricorsi storici sono implacabili con coloro che appunto urlano “onestà, onestà” e poi si rivelano dei falsi moralisti, come con grande preveggenza avvertiva il padre del liberalismo John Locke mostrando diffidenza “verso i criteri etici sbandierati con eccessivo favore”.
Veniamo all’attualità. Ora è la Cassazione a disporre: “Si possono sequestrare i beni della Lega fino a raggiungere la cifra di 48 milioni 969 mila 617 euro”. “Ovvero i soldi – spiega il Corriere della Sera – che secondo il tribunale la Lega Nord avrebbe sottratto allo Stato”, spendendo a fini privati fondi pubblici arrivati alla Lega come rimborsi elettorali. Ripetiamo: soldi dello Stato, non provenienti da dazioni di aziende o privati; operazioni della Lega capitanata da Bossi e nella quale operavano con successo sia l’attuale leader Salvini – capo degli allora “comunisti padani”, prima di approdare al sovranismo di destra – sia l’onnipresente Giorgetti, da sempre ascoltato consigliere economico di ogni segretario leghista.
Non è che svelando le colpe attuali si possano assolvere quelle del passato. Ma per queste colpe nel passato si sarebbero alzati i roghi mediatico-giudiziari; ora succede che vi siano movimenti politici incardinati sulla predicazione forsennata contro la corruzione degli altri che si rivelano peggiori di loro e trovano il beneplacito cangiante delle folle.
Quale possibile lezione ricavarne? Che non è utile affidarsi ai predicatori giustizialisti, pronti a distruggere ma non a migliorare le cose. Basterà ricordare cosa c’era prima. Lo scriveva Carlo M. Cipolla, economista internazionale: «Il bilancio economico del quarantennio postbellico è, in termini quantitativi, a dir poco lusinghiero. Certo, nulla di simile era stato - anche lontanamente - nelle speranze dei padri della Repubblica. Un reddito nazionale cresciuto di circa cinque volte dal 1950 al 1990 colloca l’Italia fra i Paesi a più elevato tenore di vita nel mondo». E basterà rammentare cosa è venuto dopo: il giurista Michele Ainis in un editoriale del 16 giugno 2014 ha ricordato che «all’alba degli anni ’90 la classifica di Transparency International - l’Associazione che misura l’indice di percezione della corruzione, partendo dai Paesi migliori - situava l’Italia al 33° posto nel mondo; ora siamo precipitati alla 69.a posizione» sui 180 Paesi considerati. Anche le dimensioni dei fenomeni turberanno i benpensanti: quella che venne definita la “madre di tutte le tangenti” – la dazione Enimont – ammontava a circa 150 miliardi di lire per finanziamenti a tutti i partiti (Lega compresa, con Bossi condannato nel 1994 a 8 mesi); ora la sola Lega è intrigata per la somma corrispondente a 95 miliardi di vecchie lire.
Quanto ai caratteri dei finanziamenti, durante la prima Repubblica erano in genere rivolti a sovvenzionare irregolarmente i partiti: una pratica che doveva essere fermata, anche se i finanziamenti regolari – cioè registrati, come vediamo oggi nel recente caso di un noto costruttore romano – lasciano perplessi perché comunque indirizzati a condizionare la politica, come avviene su scala amplissima nell’America di Trump e non solo. Pratiche comunque da fermare, ma senza distruggere i partiti e il prestigio della politica democratica; emblematico è quanto dichiarò l’inascoltato vicecapo della procura milanese Gerardo D’Ambrosio su uno dei personaggi più contestati: “La molla di Craxi non era l’arricchimento personale, ma la politica”. Si preferì la denigrazione e la distruzione dell’opera dei partiti democratici citata dal prof. Cipolla; e un problema non solo italiano ma europeo, come quello del finanziamento della politica, venne incanalato anziché sulla strada del confronto politico – come avvenne in Europa - sulla via del giustizialismo populista.
Questa via non è moralmente giusta. Lo scriveva nel gennaio 1993 il filosofo Norberto Bobbio denunciando che le tradizionali forze democratiche erano state messe “rabbiosamente sotto accusa da parte di coloro che per anni le hanno sostenute e offerto il consenso necessario per governare” e concludendo amaramente che “come paese democratico, come Stato di liberi cittadini, abbiamo fatto una pessima prova». Per il futuro dovremmo porre rimedio all’infausta «prova» appena menzionata. C’è sempre di mezzo la sorte del Paese. Ci sarebbe bisogno di una politica mite, non di sprezzanti toni roboanti e di denigrazioni che lisciano il pelo e la pancia dell’animale che alberga in noi: infatti, come in ogni società, prosperità e progresso sono possibili solo dove la contesa politica e sociale resta sul piano civile e si comprende che le operazioni mediatico-giudiziarie dissennate, possono essere dannose per la stabilità democratica ed economica del Paese. Il professor Fadi Hassan, nato a Pavia da genitori siriani, docente di macroeconomia internazionale presso il Trinity College Dublin - considerando che il dato per cogliere la traiettoria economica del nostro Paese è il PIL pro capite in relazione agli Stati Uniti a parità di potere d’acquisto - ha rammentato sul Corriere della Sera del 6 aprile 2017 che “nel 1991 il nostro reddito pro capite era l’86% di quello americano, nel 2016 è sceso al 63%. E’ lo stesso livello - commenta - che avevamo nel 1961: nell’ultimo ventennio siamo tornati indietro di 55 anni”. Possibile che si debba peggiorare ancora?
Nicola Zoller, collaboratore delle storica rivista “Mondoperaio”



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