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infoSOCIALISTA
25.2.06

Info SOCIALISTA – 25 febbraio 2006
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 – Trento/Bolzano
Quindicinale - Anno 3°



Nel ricordo di Luca Coscioni
L’uomo e la scienza

• da Il Mattino del 21 febbraio 2006, pag. 1

di Piero Craveri

Luca Coscioni è morto a soli 39 anni. Aveva personalità e coraggio grandissimi. Nativo di Orvieto, era sposato con una giovane donna. Dieci anni fa insegnava economia ambientale all’università di Viterbo e si allenava per partecipare alla maratona di New York. Colpito da sclerosi laterale amiotrofica, scrisse nel suo diario: «Mi sono ammalato ed è come se fossi morto. Il deserto è entrato dentro di me, il mio cuore si è fatto sabbia e credevo che il mio viaggio fosse finito».

Quando seppe che, al John Hopkins Institute di Baltimora, Jeffrey Rothstein aveva condotto i primi esperimenti con cellule staminali che aprivano prospettive di cura della sua malattia, realizzò che la vita gli chiedeva ancora qualcosa. Non che si illudesse che i tempi della ricerca scientifica potessero venire in suo soccorso. Ma incominciò un’altra battaglia in cui trovava una nuova ragione di vivere, per sé e per gli altri. Iniziò pressoché così: con il sito www.lucacoscioni.it. e fondando l’associazione Luca Coscioni. Da ultimo, per comunicare, doveva usare il computer. Faceva tutto con determinazione e perseveranza. Trovò subito - come compagni di strada - i radicali, che sostennero la sua azione per la libertà della ricerca scientifica e lo fecero presidente onorario del partito. La ricerca sulle cellule staminali e l’utilizzo degli embrioni sovrannumerari divenne il centro della sua battaglia civile. È stato in prima fila nel referendum abrogativo della legge che in Italia vieta tale uso nella ricerca scientifica. Ma ha collezionato una serie di sconfitte politiche, tanto che il governo ha respinto la sua candidatura al Comitato nazionale di bioetica. Lo ha sorretto il fatto che altri Paesi, come la Gran Bretagna, hanno proseguito sulla strada della ricerca e che questa comunque non si arresta. Al Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica cento premi Nobel hanno reso omaggio alla sua testimonianza. È diventato un simbolo, ma fino all’ultimo si è comportato da militante della sua causa civile e politica. Non ci si può che inchinare al valore della sua testimonianza. Una testimonianza a favore della vita, per risolvere le sofferenze e le speranze di molti: dei malati, dei loro amici e parenti. Questa battaglia, che proseguirà anche nel suo nome, nella misura in cui egli vi ha lasciato un segno, non viene ora condivisa da molti altri. È fonte di discussione politica e anche di pregiudiziale religiosa. Ma su di un punto decisivo credo bisogna attentamente riflettere. Una cosa è l’uso che si fa della scienza, un’altra è la libertà di ricerca scientifica. Non si può fare del primo problema, che nel mondo contemporaneo seriamente esiste, una ragione per impedire la seconda. Una scoperta scientifica è una verità che si aggiunge alle altre. La storia insegna che la verità si può ostacolare, ritardare, ma resta un bene insostituibile per l’umanità. E finché questa rimarrà tale, manifestazione di sentimenti e riflessioni umane, quella troverà il modo di farsi strada. Perciò la libertà di scelta individuale, almeno nell’ambito della ricerca scientifica, dovrebbe essere garantita. Dovrebbero infatti valere per essa le norme costituzionali che assicurano la libertà di pensare. La battaglia di Luca Coscioni ci lascia anche quest’onere, di non perdere un segno distintivo della nostra civiltà.



PUNTO DI VISTA SOCIALISTA SULL’ATTUALITA’

SAGGIO

LE RADICI LIBERALSOCIALISTE DELLA ROSA NEL PUGNO

di Ugo Intini

· editoriale di MONDOPERAIO Gennaio-Febbraio 2006
– rivista Socialista fondata da Pietro Nenni

Il nuovo corso socialista
Oggi noi ci riferiamo a Blair e Zapatero per sottolineare che siamo dei moderni liberalsocialisti. Nel partito socialista europeo, si sottolinea la volontà di conciliare libertà economica e Stato sociale con uno slogan semplice: “Siamo per una economia di mercato, perché il soltanto il mercato porta ricchezza, ma non per una società di mercato, perché la società è fatta di donne e uomini che hanno dei diritto spesso al di sopra del mercato (dalla salute all’istruzione)”. L’aggregazione, in Italia, tra socialisti e radicali si muove esattamente lungo questo binario. E’ l’espressione di una politica liberal socialista, perché Pannella rappresenta proprio la parte più moderna della tradizione liberale. Nel simbolo stesso della Rosa nel Pugno abbiamo scritto “laici, socialisti, radicali”, ma anche “liberali”.
Il liberalsocialismo si prepara dunque a essere la nostra bandiera elettorale. Ma non è nato adesso. Non è un artificio nuovista, non è importato dall’estero. No. E’ l’essenza del nuovo corso socialista lanciato da Craxi nella seconda metà degli anni ’70. Oggi, quasi tutti si definiscono liberali, ma allora quel nuovo corso fu per la sinistra italiana uno sforzo di modernizzazione perfino troppo avanzato e coraggioso rispetto ai tempi. Anche all’interno del PSI si manifestarono reazioni di ostilità o fastidio. Nel Labour Party britannico, non c’era Blair, ma il dominio di vecchi sindacalisti e ideologhi di estrazione marxista, come Michael Foot. Le grandi socialdemocrazie facevano i conti con chi era attratto più dai comunisti che dai socialisti italiani. Noi fummo per i socialisti europei un esempio di rinnovamento, arrivammo prima e non dopo, la nostra produzione culturale fu usata dai nuovi dirigenti spagnoli, a cominciare da Felipe Gonzales (che leggevano l’italiano con facilità) per costruire le basi ideologiche moderne di quel PSOE oggi riportato alla vittoria da Zapatero.
Andiamo dunque a ricordare, in sintesi, il dibattito di quegli anni, per coglierne, e sono molti, gli elementi di attualità.
Il saggio su Proudhon
Il lancio del nuovo corso liberalsocialista, avvenuto nell’agosto 1978 con il famoso saggio di Craxi su Proudhon – e questo va detto innanzitutto – fu visto come uno scandalo, una eresia e una provocazione. Che potesse sollevare scandalo quanto oggi è quasi comunemente accettato appare incredibile e deve perciò essere spiegato in modo non superficiale, ricordando ciò che purtroppo si tende a dimenticare: la straordinaria arretratezza della cultura e della società italiana del tempo, la totale egemonia comunista sul piano delle idee. Erano gli anni del compromesso storico tra PCI e DC, tra comunisti e cattolici, ma quella politica non nasceva priva di solide basi. Esse stavano da una parte nella bigotta accettazione del marxismo leninismo come filosofia dominante, dall’altra in un pauperismo austero, anticonsumista e antimoderno che piaceva sia agli intellettuali di sinistra, sia, ovviamente, al mondo cattolico.
I bigotti del marx-leninismo
Riascoltiamo le voci più autorevoli. E’ eccessivo affermare che il marxismo fosse dominante? Umberto Eco, nel 1977, scrive sulla prima pagina del Corriere della Sera. “A cento anni e passa dalla sua prima proposta, la visione marxista della società si sta imponendo come un valore acquisito. I suoi valori sono diventati di tutti, come nell’Ottocento erano diventati di tutti gli immortali principi dell’ottantanove, le idee della Rivoluzione francese, che pure di fatto gli stessi borghesi che le accettavano contribuivano a rintuzzare sul piano dei fatti. Il fenomeno, in quanto lo si riconosca in tutta la sua portata pone seri problemi a quel movimento operaio che ormai non è più soltanto operaio. Perché quando un sistema di valori diviene accettato dal corpo sociale, al tempo stesso si diffonde e si depaupera. Rischia di diventare flatus vocis, come i principi dell’ottantanove, su cui potevano essere genericamente d’accordo Cavour, Mazzini, Garibaldi e Gioberti. E questo vale anche oggi: mai come oggi quell’insieme di princìpi filosofici e di strategie politiche che va sotto il nome di marxismo è stato minacciato, oggi che viene accettato come valore diffuso e indiscutibile”. Dunque, il pericolo non è che si metta in dubbio l’egemonia marxista. Il pericolo è che la si riconosca soltanto a parole, senza trarne sino in fondo le conseguenze.
Il cattocomunismo berlingueriano
Dalla ideologia, sulla quale vegliano gli “intellettuali chierici”, si trae una visione pessimistica, una condanna senza appello per le prospettive di sviluppo. Berlinguer, nel gennaio 1977, di fronte al gotha della cultura italiana, così lancia infatti la sua ormai famosa dottrina della “austerità”. “Un moto profondo e irreversibile, operando nel vivo del sistema di sviluppo del capitalismo, ne fa esplodere le contraddizioni, determinando in singoli paesi condizioni di gravità mai raggiunte. Avanzano processi di degradazione e di decadenza che da un lato rendono sempre più insopportabili le condizioni di larghe masse, dall’altro minacciano le basi non solo dell’economia, ma della nostra stessa civiltà e del suo sviluppo. L’austerità è il mezzo per contrastare alla radice e per porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale. Nelle condizioni odierne, è impensabile impostare una lotta reale ed efficace per una società superiore senza muovere dalla prima, imprescindibile necessità dell’austerità. Lo scopo dell’austerità è in primo luogo quello di instaurare una moralità nuova”. Pier Paolo Pasolini, uno straordinario artista giustamente oggi ricordato con affetto, gli fa eco (sempre dalle prime pagine del Corriere della Sera) con la sua sensibilità di comunista e cattolico al tempo stesso. Riascoltiamo le sue parole, perché la forza espressiva del grande scrittore fa capire bene quale fosse l’humus profondo del cattocomunismo, quanto distante l’Italia potesse essere condotta dalla modernità e dal sistema di vita occidentale, oggi fortunatamente vincenti. Gli italiani vogliono partecipare alla festa natalizia dello shopping? Pasolini scrive. “Sono tre anni che faccio in modo di non essere in Italia per Natale. Lo faccio con proposito, con accanimento, disperato all’idea di non riuscirci. Con il nuovo capitalismo, che si creda in Dio, nella Patria o nella famiglia, è indifferente. Esso ha infatti creato il suo mito autonomo: il benessere. E il suo tipo umano non è l’uomo religioso e galantuomo ma il consumatore felice di essere tale. E forse è questa assurdità che mi angoscia e che mi fa fuggire. Questo embrassons nous tra religione e produzione è atroce. E infatti quello che ne consegue è intollerabile alla vista e a tutti i sensi”. Gli italiani comunicano a capire che il comunismo produce povertà? Il chierico cattocomunista Pasolini apprezza persino la povertà, purchè comunista. E così descrive la Croazia. “Si sente indubbiamente che tutto è davvero popolare. Anche i gruppi di operai che passano per strada hanno visi piene di certezze e di forza: sembrano sentirsi, sia pure umilmente, protagonisti di questa vita, anche se si presenta così marginale e povera. Il comunismo ha messo dunque direttamente radici su una vecchia cultura contadina”.
La sponda del Corsera
Questo era il cattocomunismo. Questa era la cultura propagandata non da una pubblicazione underground dell’estrema sinistra, ma dal Corriere della Sera, ovvero dall’organo più autorevole di una borghesia e di una grande imprenditoria che si erano già arrese, come negli anni’ 20 si erano arrese al fascismo. Senza riflettere sul clima del tempo, non si capisce l’isolamento del nuovo corso socialista, né lo scandalo dovuto al fatto che esso andava a spezzare giochi apparentemente ormai fatti. Anche all’interno del PSI, la svolta di Craxi fu una coraggiosa forzatura. I socialisti infatti non avevano mai affrontato in campo aperto una battaglia frontale contro il marxismo. Nenni e Pertini stessi avevano difeso contro il PCI i loro valori morali, avevano lottato per “la politica delle cose”, ovvero per la conquista di obiettivi pratici, ma non si erano mai confrontati a fondo sul terreno della lotta ideologica per la contestazione della egemonia culturale comunista. All’interno stesso del PSI, Craxi veniva chiamato “il tedesco”, perché sospettato di simpatia verso il Cancelliere riformista Helmut Schmidt. Alle riunioni dell’Internazionale Socialista, raramente eravamo presenti dopo il ritiro di Nenni, ormai anziano e in minoranza, perché si guardava l’Internazionale stessa con diffidenza, come un covo di socialdemocratici. Da poco direttore dell’Avanti! incontravo malumori all’interno della redazione quando facevo scrivere Luciano Pellicani, allora un giovane professore socialista, ma scomodo perché considerato troppo anticomunista (offesa grave, a quel tempo) e perché figlio di un deputato passato dal PCI alla socialdemocrazia e poi al PSI (un percorso in odore di “tradimento” e, anch’esso, di “anticomunismo”). Fu quel giovane professore il primo architetto, sul piano culturale, del nuovo corso socialista e della scelta liberalsocialista. Perché fu lui a scrivere (Craxi lo firmò, lo avallò e lo sostenne) il famoso saggio su Proudhon, comparso il 28 agosto 1978 sull’Espresso e esploso come una bomba. Con un solo salto, con una accelerazione forse temeraria, il PSI non soltanto raggiunse la sponda della socialdemocrazia (ancora non pienamente conquistata) sulla quale stavano gli altri partiti europei, andò oltre, la superò per ricercare quella liberalsocialista.
Pluralismo economico e società laica
Proudhon era stato nella prima Internazionale il grande avversario di Marx. Aveva contestato la sua idea di statizzazione comunista. Aveva immaginato che il socialismo non si sarebbe affatto dimostrato in antitesi con i valori liberali, anzi, avrebbe messo alla portata di tutti quei valori di affermazione della propria personalità e di libera espressione individuale ristretti nell’800 a una elite di privilegiati. Il socialismo avrebbe “socializzato” i valori liberali. Per questo, fu Proudhon il simbolo del nuovo corso liberalsocialista. Andiamo a leggere le parole esatte del famoso saggio. Il fatto che oggi appaiono semplici, quasi banali o ovvie, mentre allora apparivano rivoluzionarie, la dice lunga sulla arretratezza storica della sinistra italiana e sulla strada che si è faticosamente fatta. “Proudhon – si legge – considerava il socialismo come il superamento storico del liberalismo e vedeva nel comunismo una assurdità “antidiluviana” che, se fosse prevalsa, avrebbe “asiatizzato” la civiltà europea”. Il saggio di “Craxi-Pellicani” arriva infine a tirare le somme. “A questo punto – vi si legge – possiamo trarre alcuni conclusioni di ordine generale. Leninismo e pluralismo sono termini antitetici: se prevale il primo muore il secondo. E ciò perché l’essenza specifica, il principio animatore del progetto leninista consiste nella istituzionalizzazione del “comando unico” e della “centralizzazione assoluta”: il che, evidentemente, implica la statizzazione integrale della vita umana individuale e collettiva. La democrazia (liberale o socialista) presuppone resistenza di una pluralità di centri di poteri (economici, politici, religiosi, ecc) in concorrenza fra di loro, la cui dialettica impedisce il formarsi di un potere assorbente e totalitario. Di qui la possibilità che la società civile abbia una certa autonomia rispetto allo Stato e che gli individui e i gruppi possano fruire di zone protette dall’ingerenza della burocrazia. La società pluralista inoltre è una società laica nel senso che non c’è alcune filosofia ufficiale di Stato, alcuna verità obbligatoria. Nella società pluralista la legge della concorrenza non opera solo nella sfera dell’economia, ma anche in quella politica e in quella delle idee. Il che presuppone che lo Stato è laico solo nella misura in cui non pretende di esercitare, oltre al monopolio della violenza, anche il monopolio della gestione dell’economia e della produzione scientifica. In breve: l’essenza del pluralismo è l’assenza del monopolio”.
Tutto qui. Oggi, persino Bertinotti potrebbe sottoscrivere questo testo. Ma allora le reazioni giocarono durissime non solo dai marxisti leninisti che, attaccati, giustamente avevano il diritto di difendersi. Ma anche dalla grande editoria indipendente, che avrebbe avuto il dovere essa, prima ancora del PSI, di incalzare, quale stampa “liberale” e “borghese”, il PCI affinché si rinnovasse. “La Repubblica” usò l’arma della ironia e della sottovalutazione, cercando di mobilitare una opposizione nel PSI. Disegno – questo – che un anno dopo sarebbe quasi riuscito: quando una rivolta interna al Comitato Centrale socialista, nel dicembre 1979, arrivò a un passo dal portare Giolitti alla segreteria del Partito al posto di Craxi. Enfatizzando le proteste di De Martino, la Repubblica si chiese: “Craxi si è consultato con il Partito oppure in via del Corso, pur di attaccare Lenin, si adottano i metodi del centralismo leninista?”. Giorgio Bocca contrappose il “Paese reale” agli “Iscritti al Club dei Massimi Sistemi”, ridicolizzando la discussione sul leninismo sotto il titolo: “Ma Proudhon si mangia?”. Eugenio Scalfari introdusse una insinuazione che gli parve inquietante: “Non voleva per caso Craxi tagliare la barba a Lenin allo scopo di accrescere la spinta moderata e di avvicinare i socialisti italiani agli Stati Uniti?”.
Il Pci contro la socialdemocrazia
Ma il dibattito non poteva essere soffocato e Berlinguer dovette affrontarlo apertamente, purtroppo arroccando il PCI a difesa delle vecchie ideologie. Alla conclusione del festival nazionale dell’Unità, a Genova, di fronte a un milione di militanti, ottenne infatti una immensa ovazione scandendo. “L’attacco di cui siamo bersaglio sta irrobustendo la coscienza di classe e lo spirito internazionalista, anticapitalistico e antimperialista dei comunisti e di larghe masse di operai, di lavoratori e di giovani. Deve restare ben ferma la consapevolezza che storicamente ciò che ha contraddistinto la socialdemocrazia rispetto ai movimenti comunisti e rivoluzionari e che essa persegue non una vera politica trasformatrice e rinnovatrice, ma una politica riformistica, rivolta ad attenuare le più stridenti ingiustizie e contraddizioni del capitalismo, ma sempre all’interno del sistema capitalistico”.
Le radici culturali “lib-lab”
Con il saggio su Proudhon tuttavia la politica che Berlinguer condannava come “riformistica” (e che tutti chiamano oggi “riformista”) non si fermò: il nuovo PSI andò avanti. Il dado era tratto e lungo la strada del liberalsocialismo accelerammo anzi il passo. Sempre con il consiglio di Pellicani, l’Avanti! (direttore politico era Craxi, direttore responsabile io, vice direttore Villetti) nei mesi successivi cominciò a ricostruire il lungo, solido filo che, partendo da Proudhon, corre lungo un intero secolo, unendo tradizione liberale e socialista. La scuola Fabiana britannica, il cui ultimo rappresentante, Ralph Dahrendorf, fu socialista (e collaboratore di Willy Brandt) per diventare poi liberale. La coppia Atlee (primo ministra laburista) e Lord Beveridge (liberale) che insieme inventarono nel 1947 il Welfare State, diffuso poi a tutte le socialdemocrazie e a tutte le moderne democrazie europee. In Italia, Gobetti e i fratelli Rosselli, Giustizia e Libertà, il Partito d’Azione (che unì nel dopoguerra socialisti, come De Martino o Lombardi e liberaldemocratici, come La Malfa). Sino alla straordinaria fucina de “Il Mondo”, con Pannunzio, Ernesto Rossi e anche il giovane Pannella. Questo sforzo di costruzione e di propaganda “liberalsocialista” culminò nel 1979. Dopo le elezioni europee, che videro un successo del PSI e del PLI, scrissi sull’Avanti! una lettera aperta al segretario liberale Valerio Zanone, che rispose, insieme al segretario del PRI e a decine di altri interessati al dialogo “liberalsocialista”. Pochi mesi dopo, la propaganda “liberalsocialista” si concentrò in un libro realizzato a quattro mani da Enzo Bettiza e da me, con coordinamento di Massimo Pini: “Lib-lab”, secondo la definizione “Liberal-Laburist” che cominciava allora ad andare di moda. Fu ancora Pellicani a suggerirmi gli argomenti di approfondimento. Si tratta di un vero manifesto liberalsocialista che oggi può apparire attualissimo e forse andrebbe ristampato. Sotto certi aspetti, potrebbe essere anche utilizzato per il programma della Rosa nel Pugno, perché vi si trovano già le tracce di quello spirito laico, libertario e liberale che vogliamo portare alla coalizione di centrosinistra.
Dalla libertà religiosa alla libertà politica
A proposito di spirito laico, esso veniva posto da “Lib-Lab” addirittura alla base della rivoluzione liberale e di quella socialdemocratica (non in contraddizione tra loro, bensì l’una continuatrice dell’altra). “La civiltà occidentale – scrivevo – è profondamente segnata da tre tappe decisive, per molti aspetti legate l’una all’altra: la riforma religiosa, la rivoluzione liberale, l’ideologia socialista. La riforma religiosa ha significato la liberazione delle coscienze. Per la prima volta, ciascuno ha capito di potere, nel proprio animo, stabilire autonomamente ciò che è giusto e ciò che non lo è, indipendentemente dall’autorità esterna del confessore e della Chiesa. Ciascuno, senza il diaframma dell’autorità religiosa, si è sentito autorizzato ad attingere direttamente alla Bibbia o al Vangelo, e a trarne la propria lezione di vita. Ciascuno, secondo ragione e secondo esperienza, ha potuto studiare e cercare la verità scientifica, senza accettare l’ “ipse dixit”. Dalla liberazione delle coscienze, si è passati alla seconda tappa: dopo l’assolutismo religioso, è caduto in Occidente l’assolutismo politico. Il passaggio logico è evidente. Se l’individuo può porre in discussione l’autorità religiosa, rivendicando l’autonomia della sua coscienza, potrà pur porre in discussione anche l’autorità politica, rivendicando come unico limite alla sua libertà di azione non la volontà capricciosa del monarca, ma la legge, alla quale il monarca stesso deve essere sottoposto. Ed è questa l’essenza della rivoluzione liberale. A mio avviso, da qui si è passati alla terza tappa, che ha visto come protagonista il movimento socialista. Se gli individui sono liberi e uguali di fronte alla legge, allora occorre che libertà e uguaglianza siano non soltanto formali ma anche sostanziali, occorre che questi valori siano riempiti di contenuti concreti. Ciò richiede sviluppo dell’istruzione, della partecipazione, dei livelli retributivi più bassi, richiede quella emancipazione del proletariato, che fu la nuova bandiera innalzata dai socialisti, seguita da un numero sempre maggiore di progressisti dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Questa tappa ha continuato la rivoluzione liberale e l’ha, in un certo, perfezionata; non l’ha contraddetta in nulla, anzi, ha tentato una nuova e più avanzata costruzione, dando per acquisite, come fondamento alla costruzione stessa, e come fondamento indispensabile, le conquiste liberali”.
Lo spirito critico contro quello dogmatico
Oggi ci scontriamo, in nome dello spirito laico, con la nuova ondata di integralismo cattolico. E può essere utile la lezione di Max Weber, la orgogliosa contrapposizione del nostro spirito critico a quello dogmatico. “Il movimento socialista – scrivevo – fa propria la lezione di Max Weber, che è comune ai liberali. Punta l’attenzione non soltanto alla divisione tra classi sociali, ma anche alla fondamentale divisione tra spirito critico e spirito dogmatico; all’insegna dello spirito critico, si muovono e si sono mossi sia i liberali che i socialisti. Ogni volta che lo scontro tra spirito critico e spirito dogmatico si è determinato, i socialisti e i liberali sono stati dalla stessa parte della barricata: contro il comunismo - leninismo, contro il cattolicesimo integralista, contro il fascismo e i nazionalismi autoritari. Noi socialisti non abbiamo in tasca delle verità dogmatiche accettate in modofideistico, così come non le hanno i liberali: la ricerca della verità e sempre una conquista. Il dubbio, come l’accettazione delle critiche, sono sempre presenti in entrambi i movimenti e li caratterizzano”.
Oggi, nel tentativo di praticare all’economia una iniezione di spirito liberale, ci scontriamo, insieme ai radicali (e quindi ai liberali) con le resistenze corporative del conservatorismo di sinistra e di destra, nati dalle tradizioni leninista, cattolica e anche nazional-fascista. Ma i confini dello scontro erano già allora chiari. In “Lib-Lab” scrivevo. “Si può individuare uno spartiacque tra i sostenitori di una società “conflittuale” e i sostenitori di una società “organica” o “consociativa”. Sicuramente, i socialisti liberali sono tra i sostenitori della società conflittuale, che è poi l’essenza della civiltà moderna occidentale: una società dove i conflitti non sono visti come un male, non come l’eccezione, ma come la regola, come un naturale elemento di dinamismo del sistema fatto di poteri e di contropoteri, nessuno dei quali è destinato a prevalere definitivamente e quindi a bloccare i processi dialettici. I leninisti e i cattolici integralisti sono portatori di una concezione antitetica: quella che abbiamo definita di una società organica. Per i cattolici si tratta di una concezione risalente addirittura a tradizioni medioevali, che vedevano la società come una sorta di corpo unico nel quale ciascun “membro” ha la sua funzione e risponde a un disegno generale, indivisibile. Allo stesso modo, per i leninisti la società nata dalla rivoluzione comunista è un corpo omogeneo, unico, nel quale la vittoria del proletariato ha tolto lo spazio per qualunque conflittualità, per qualunque lotta di classe, per qualunque contrasto di interessi. A ben riflettere, sulla barricata della concezione organica stanno anche i nazionalismi e i fascismi. Per i primi, l’elemento unificante è la Nazione, l’interesse superiore dello Stato visto come una entità che ha un valore in sé, assoluto, tale da sovrastare tutti gli altri, e da comporre, nel suo interesse trascendente, ogni conflitto. Per i secondi, l’elemento unificante è una incarnazione della Nazione che finisce per diventare valore assoluto persino indipendentemente da questa: il Duce, il Fuhrer, il caudillo, verso i quali, come nella morale medioevale, nasce un dovere di fedeltà personale. La superiore armonia divina, il superiore interesse del proletariato, della nazione o del Fuhrer sono per cattolici integralisti, per leninisti, nazionalisti e fascisti il bene supremo che elimina i contrasti sociali e consente di perseguire, addirittura come reato, ogni manifestazione di dissenso. Sono anche il totem intorno al quale si compiono sacrifici umani: dalla santa inquisizione, al terrore rosso, alla Prima Guerra Mondiale, allo sterminio degli ebrei”.
Anche tutto questo, anche l’impasto del fall - out derivante dalle culture leninista, cattolica e nazionalista costituisce ancora oggi un ostacolo al formarsi in Italia di una società aperta, simile a quella anglosassone.
In “Lib-Lab”, si andava anche a cercare la dimostrazione pratica del legame e della continuità tra le tre spinte riformatrici prima ricordate: la riforma religiosa e laica, quella liberale, quella socialdemocratica. Non a caso, tutte e tre si sono affermate l’una dopo l’altra nei paesi anglosassoni e scandinavi del Nord Europa. Nella cattolica Europa mediterranea, dove è mancata la riforma religiosa e laica, liberalismo e socialdemocrazia sono arrivati dopo e con maggiori difficoltà. La Germania è un caso emblematico: il socialismo democratico ha il suo punto di forza nelle ex Repubbliche anseatiche (da Amburgo e Brema), culle della riforma religiosa-laica e di quella liberale; è strutturalmente minoritario nella cattolica Baviera. Al punto che ancor oggi, senza quest’ultima, avremmo Cancelliere non la Merkel, ma Schroeder.
In Italia, il ritardo della riforma liberale e di quella socialdemocratica è un handicap strutturale del Paese, che ha la sua radice nel massimo di egemonia cattolica, ovvero nella mancanza totale della prima fra le tre riforme: quella religiosa-laica. Come diceva Guido Piovene nel suo saggio “L’Europa semilibera”, ogni borghesia ha il proletariato che si merita, ma qui sta la ragione prima, la radice vera di ciò che purtroppo abbiamo meritato e che è sotto gli occhi di tutti: una borghesia poco liberale e un movimento di lavoratori massimalista, un secolo caratterizzato (caso unico in Europa) dalla egemonia fascista e autoritaria sulla borghesia, da quella marxista - leninista sul proletariato.
Se liberali e socialisti…
Nell’uno e nell’altro fronte, si è provato a tendere la mano, se la borghesia liberale e i lavoratori socialdemocratici avessero stretto in tempo una intesa solidale, l’Italia si sarebbe forse salvata dal predominio fascista e comunista. Ci hanno provato Turati e Giolitti, ma non ci sono riusciti. “Un dialogo politico di grande rilievo e prospettive – scrivevo in “Lib-lab”- può essere definito quello tra Giolitti e Turati: fra il liberalismo di Giolitti e il socialismo riformista di Turati. Qualcuno, per esempio Giorgio Galli, vi ha individuato una sorta di “compromesso storico” (almeno potenziale del tempo). Un compromesso storico tra un movimento operaio guidato dai socialisti riformisti e una borghesia avanzata, aperta, che per la prima volta si affacciava con posizioni di rilievo nella storia del Paese, sull’onda dello sviluppo industria e del generale progresso economico realizzato nel primo decennio del Novecento. Prima del giolittismo, d’altronde, non ci fu mai in Italia un liberalismo vero e proprio, ma soltanto governi sostanzialmente autoritari. Questo compromesso, se di compromesso si può parlare, coincise con uno dei periodi più fortunati della storia del Paese, e cadde sotto i colpi da una parte del massimalismo socialista (che in quel periodo era rappresentato, tra gli altri, da Mussolini) dall’altra di quella borghesia non liberale, ma reazionaria, che purtroppo, salvo brevi periodi come quello giolittiano, in Italia è sempre stata prevalente. Forse si può individuare in questo dialogo a distanza Turati-Giolitti, l’embrione del dialogo a livello politico tra socialisti e liberali”.
Per quel “dialogo di oggi”, “Lib-Lab” andava a cercare anche i contenuti programmatici e li indicava nei tanti economisti, da Keynes al nostro Einaudi, che suggerivano politiche al tempo stesso liberali e socialiste. Einaudi, ad esempio, in “Le prediche inutili” lo ha fatto in modo magistrale sostenendo che liberalismo e socialismo hanno avuto i loro eccessi e che soltanto gli eccessi dell’uno e dell’altro li hanno resi incompatibili.
Per il “dialogo di oggi” (e “oggi” era il 1979) indicavo su “Lib-Lab” i necessari interlocutori: PSI, PSDI, PRI, PLI e Radicali. Sul piano culturale, si procedette in modo brillante, anche per il grande contributo di un intellettuale liberale come Enzo Bettiza; sul piano politico e pratico, i risultati non mancarono, ma non furono decisivi per l’ostacolo costituito dalla vischiosità delle strutture esistenti.
Per tutti gli anni ’80, i rapporti tra PSI e PLI furono speciali.
I governi Spadolini e Craxi
La solidarietà “lib-lab” contribuì a portare alla Presidenza del Consiglio prima il repubblicano Spadolini e poi Craxi. Dopo la battaglia sul divorzio, socialisti e radicali condussero insieme quella sull’aborto, sul caso Tortora e sulla “giustizia giusta”. Molti militanti e parlamentari come Fortuna o Giacomo Mancini (o anche me) avevano la doppia tessera (socialista e radicale), sino a che, nel 1987, presentammo insieme al Senato, sotto lo stesso simbolo, i candidati dei due partiti. Con questa politica, Craxi portava a livello nazionale quanto già aveva tentato a livello locale in quel laboratorio che è sempre stato Milano. Poiché ricordano infatti che, con una strategia “liberalsocialista” ante litteram, alle elezioni municipali del 1960, il PSI fece eleggere nelle sue liste due consiglieri comunali radicali (Eugenio Scalari e Sergio Turone). E che alle elezioni successive del 1964 il PSI presentò nelle sue liste i candidati del PRI, facendo eleggere Antonio del Pennino.
All’inizio degli anni’80, Craxi si pose anche il problema del contesto internazionale dove collocare l’aggregazione “Lib – Lab” e capì che l’Internazionale Socialista stessa andava rinnovata, poiché troppo “Europa centrica” e troppo imperniata sul socialismo tradizionale del vecchio continente. Propose perciò di cambiarle nome, ribattezzandola “Internazionale Democratica”: per aprirla al Partito Democratico americano (senza il quale non si può sperare di influire sulla politica del mondo “globalizzato”) e alla componente liberale del disegno “liberalsocialista”. Al congresso dell’Internazionale a San Paolo, nel 2003, ho ripreso io questa proposta a nome dello SDI e ho trovato un consenso potenziale, anche perché in quel congresso, per la prima volta, è entrato a far parte dell’Internazionale, come “membro associato”, il National Democratic Institute (la fondazione del Partito Democratico americano presieduta dall’ex segretario di Stato di Clinton, Madleine Albright).
Lungo gli anni’ 80 oltre non si andò nel tentativo di costruire una aggregazione tra PSI, PSDI, PLI, PRI e radicali, ma la “grande riforma” istituzionale suggerita dal PSI proprio contestualmente all’iniziativa “lib-lab” nel settembre 1979, aveva tra i suoi obiettivi anche quello di rimuovere gli ostacoli alla nascita di una grande forza liberalsocialista. Proponevamo infatti una soglia elettorale di sbarramento, come in Germania, al 5 per cento. E perché mai? Certo, per diminuire la polverizzazione del sistema. Ma anche con un obiettivo pratico: quello di aggregare insieme al PSI, PSDI, PLI, PRI e Radicali: tutti al di sotto del 5 per cento. Capisco che questi Partiti avrebbero potuto temere una furbesca volontà di assorbimento da parte dei socialisti. Sarebbe stata pertanto necessaria da parte nostra una grande dose di generosità e di progettualità politica, per rendere evidente che si voleva non un PSI allargato, bensì un soggetto liberalsocialista veramente nuovo. Ma l’elevatezza della postaci avrebbe fatto trovare le risorse e il coraggio necessario. Tutti insieme, i liberalsocialisti avrebbero potuto sfiorare il 30 per cento, esercitare una attrazione irresistibile verso gli elettori del PCI, avviare finalmente in Italia un bipolarismo dove la sinistra fosse vincente, perché guidata non dagli eredi di Lenin e Gramsci, bensì da quelli di Turati e Giolitti.
“Un pugno di laici radicalsocialisti…”
Heri dicebamus. Ma l’aggregazione liberalsocialista che oggi tentiamo con la Rosa nel Pugno ha sempre gli stessi confini. PRI e PLI non ci sono sostanzialmente più e possiamo raccoglierne soltanto le schegge. Restano lo SDI e il figlio di Craxi, eredi della tradizione PSI e PSDI. Restano i Radicali, che hanno sostanzialmente conservato, a differenza nostra, i loro leader e la loro consistenza elettorale: gli unici liberali rimasti in Italia, come li ha definiti il recente dossier dell’Economist sul nostro Paese. Non possiamo sperare come ieri di sfiorare il 30 per cento, siamo ridotti al formato bonsai. Ma a volte anche un bonsai, se conserva il suo patrimonio genetico originario, con i suoi semi, se è uno stimolo e un esempio, può avere una funzione importante. Il nostro bonsai ha il compito di praticare tre iniezioni. La prima è una iniezione di spirito laico alla società italiana e allo stesso centro sinistra. Ce n’ è bisogno perché la parte integralista del mondo cattolico è all’offensiva e se non reagiamo noi non lo fa nessuno. Scrive infatti Le Monde. “Se si eccettua un pugno di laici radicalsocialisti, nessun Partito si oppone in Italia alla crescente influenza della Chiesa sul terreno della politica. Ciò vale per la destra, ma anche per la sinistra”.
C’è bisogno di una iniezione laica per questo e anche perché l’insufficienza della riforma laica, in Italia, come ho ricordato in “Lib-Lab”, è all’origine della debolezza delle due altre riforme connesse e conseguenti: quella liberale prima e quella socialdemocratica poi.
La seconda iniezione è una iniezione di spirito libertario nel costume. Perché si affaccia la tentazione dello Stato “etico”, il quale pretende di stabilire ciò che è moralmente giusto e ciò che non lo è, imponendo alla libertà degli individui limiti diversi (e aggiuntivi) rispetto a quelli costituiti dalla libertà degli altri individui. Ciò vale per i PACS come per i comportamenti sessuali, per la ricerca scientifica come per le regole che riguardano la nascita e la morte.
La terza iniezione è una iniezione di spirito liberale nella economia. Tanti anni fa, in “Lib-Lab” si criticava la concezione “organica”, non conflittuale ma corporativa, della società, suggerita dalle culture leninista, cattolica e nazionalista. Oggi abbiamo il fall out, il riflesso condizionato o le incrostazioni egoistiche di quelle culture, ma è certo che il loro mix tipicamente italiano rende la nostra economia la più ingessata, chiusa e resistente alla concorrenza tra quelle occidentali. Non è un plus di solidarietà e protezione. No. E’ un minus di concorrenza, di diritti per consumatori e di opportunità per i giovani. I prodotti industriali o agricoli non costano in Italia più che altrove all’origine, perché questi settori sono esposti alla competizione internazionale. Costano spesso di più per le intermediazioni parassitarie. Costano di più (il 30 per cento rispetto all’Europa) soprattutto i servizi, perché non sono esposti alla concorrenza, perché monopoli e oligopoli privati si sono sostituiti a quelli pubblici (dalle tariffe telefoniche a quelle dell’acqua, dalle assicurazioni alle prestazioni bancarie e professionali). I servizi vengono organizzati (dalla sanità, all’università) più nell’interesse delle corporazioni cheli riforniscono che nell’interesse degli utenti. In nessun Paese occidentale i figli dei notai, dei medici o dei meccanici hanno probabilità più alte che in Italia di continuare l’attività del padre. Perché da noi e solo da noi la mobilità sociale è al minimo: un handicap grave, un prezzo altissimo che si paga con lo spreco di talenti e con la cancellazione amara di tante speranze giovanili.
Il futuro è aperto
Il bonsai liberalsocialista può spargere nel centro sinistra i semi dell’innovazione stimolando e spingendo alle tre iniezioni descritte. Può irrobustirsi, perché i voti di PRI e PLI, gli stessi voti di PSI e PSDI, non ci sono più sotto le sigle di un tempo, ma ci sono in Forza Italia, nei DS e anche nella Margherita: voti liberali, repubblicani, socialisti e anche voti di cattolici che sono sì, cattolici, ma non integralisti. Il bonsai liberalsocialista non può tuttavia immaginare un futuro di chiusura in se stesso. Irrobustito, se veramente la politica italiana si normalizzerà con la nascita a sinistra di un grande partito democratico, può infatti dare a questo partito un apporto indispensabile. Diciamo la verità. Una aggregazione tra DS e Margherita rischia di non essere il compromesso storico liberalsocialista, fallito con Turati e Giolitti, vanamente sognato per il resto del secolo. Rischia di essere piuttosto una alleanza tra post leninisti e cattolici, ovvero la riedizione pallida del compromesso storico cattocomunista nato negli anni ’70. Anche in funzione di freno a quel compromesso, lanciammo nel 1979 il tentativo di aggregazione “lib-lab”.
Verso un partito laicamente democratico
Diciamo la verità. La normalizzazione della politica italiana comporta che il grande partito democratico auspicato assomigli al partito democratico americano e ancor più ai partiti socialdemocratici europei. Assolutamente a entrambi questi modelli, perché non sono per nulla dissimili. Tutti questi partiti comprendono infatti al loro interno anche i cristiani nei Paesi protestanti e i cattolici (purché non integralisti) in quelli mediterranei. Ma qual è la loro caratteristica essenziale? E’ la piena acquisizione della riforma religiosa-laica e di quella liberale. La aspirazione alla riforma socialdemocratica, ovvero innanzitutto al Welfare State (per il partito democratico americano) o il suo consolidamento (per i partiti europei). I partiti moderni della sinistra occidentale sono il simbolo della connessione e continuità, sulla quale insiste la teoria “lib-lab” tra le tre riforme: religiosa-laica, liberale, socialdemocratica. I partiti moderni della sinistra sono, nella loro essenza, liberalsocialisti. Sarebbe tutto ciò un partito democratico italiano fondato su due pilastri (quello post comunista e quello cattolico) che non hanno metabolizzato pienamente le tre riforme e che per decenni ne sono stati la antitesi? Certo esistono, e sono tanti, i laici, i liberali e i socialdemocratici, sia nei DS che nella Margherita. Ma senza il nostro bonsai, senza la rosa nel pugno, rimarrebbero in parte prigionieri di un passato dalla tradizione antitetica. Senza il nostro bonsai, il partito democratico italiano rischierebbe di essere più cattocomunista che liberalsocialista. (sottotitoli a cura della redazione di infoSOCIALISTA)

Alleati scomodi (però alleati):
Rosa nel pugno e Ds.

• da Corriere della Sera del 22 febbraio 2006, pag. 1

di Paolo Franchi

Secondo la vulgata del vecchio Pci, il motto di Palmiro Togliatti, quando sentiva forte il rischio che i suoi compagni perdessero il controllo dei nervi e si cacciassero nei guai, era: «Calma e gesso». E «calma e gesso» verrebbe da dire anche ora ai dirigenti della Quercia. Stavolta, oltretutto, non ci sono di mezzo tragedie, ma liste elettorali.

Più precisamente: la decisione dì alcuni riformisti «storici» del Pci prima, dei Ds poi, di candidarsi con la Rosa nel Pugno radicale e socialista, o di appoggiarne attivamente la battaglia, nella convinzione che il loro vecchio partito si sia rassegnato a pagare un prezzo troppo elevato alla Margherita in tema di laicità dello Stato, di diritti civili, di libcrtà individuali. Che una simile scelta al Botteghino dispiaccia è, si capisce, comprensibile: ma probabilmente anche ai socialisti di Enrico Boselli è spiaciuto constatare che un numero anche maggiore di loro compagni sta trovando ospitalità, pure stavolta, nelle liste diessine. E in ogni caso, prima di inalberarsi, è sempre bene fermarsi un momento a riflettere. Perché forse non è solo di qualche seggio che si sta parlando, ma pure di questioni che riguardano da vicino la natura dell'Unione, e in primo luogo delle sue componenti riformiste.

Può darsi che, in un domani più o meno lontano, prenda corpo il Partito democratico su cui tanto si almanacca, e che i riformismi italiani si contaminino e si fondano, lasciando le loro divisioni all'archivio del Novecento. Intanto è certo, però, che la sinistra e il centrosinistra italiani sono e resteranno a lungo plurali; e che di una simile pluralità le questioni summenzionate, a cominciare da quelle che vengono definite «eticamente sensibili», fanno parte a pienissimo titolo. Non solo. Le risposte che si formulano in materia riguardano da vicino, assai più che in passato, l'identità stessa delle coalizioni e dei singoli partiti. Come ora dimostrano la nascita della Rosa nel Pugno, certo, e la corrente d'opinione favorevole che i radicalsocialisti cominciano ad incontrare in zone non proprio marginali dell'elettorato di centrosinistra; ma come sul versante opposto ha già abbondantemente dimostrato in questi anni, e continua a dimostrare la Margherita: il primo, tra i partiti dell'Unione, a cogliere la novità, e a investirci sopra politicamente.

Non è un caso se i Ds si sentono un po' stretti in questa specie di tenaglia, specie dopo il mezzo disastro di un referendum, quello sulla fecondazione assistita, nel quale Piero Fassino si era (meritoriamente) impegnato assai nonostante gli fosse chiara l'inevitabilità della sconfitta. Per Dna, ripugna alla Quercia la sola idea di correre il rischio di aprire le porte, in Parlamento e nel Paese, a una sorta di bipolarismo etico. E poi ci sono le ragioni del realismo politico: se Partito democratico, prima o poi, avrà da essere, è con la Margherita che bisognerà costituirlo, cominciando con il pagarle i prezzi del caso, per quanto pesanti sembrino a una parte (minoritaria) della sinistra.

Una scelta legittima? Sicuramente sì. Anche una scelta onerosa, però. Perché dà luogo non a dei tradimenti di voltagabbana, ma a dei distacchi (altrettanto legittimi) di dirigenti e di intellettuali che, nei lunghi anni trascorsi senza che il loro partito venisse a capo dei suoi problemi identitari, in tema di libertà, diritti e laicità hanno maturato posizioni di tipo liberalsocialista, e vedono questi loro orientamenti meglio rappresentati altrove. Ma pure, e forse soprattutto, perché questo «altrove» è la Rosa nel Pugno. Un alleato scomodo. E, nel suo piccolo, anche un concorrente. Nonostante tutto, la saggezza politica, e una visione compiutamente pluralista della sinistra, dovrebbero indurre i Ds a considerare questo soggetto in formazione una ricchezza potenziale per l'Unione e (magari) pure per il futuro Partito democratico. Probabilmente, invece, lo considereranno un fastidio, o peggio. E sbaglieranno.

Quei Ds nella Rosa

• da Corriere della Sera del 21 febbraio 2006, pag. 1
di Pierluigi Battista

Apparentemente è solo una notizia che rende più vivace la giostra delle candidature, sempre in vorticosa attività alla vigilia di ogni appuntamento elettorale. Ma la scelta di correre con la lista della Rosa nel Pugno da parte di due eminenti figure della storia comunista e post-comunista come Lanfranco Turci e Biagio de Giovanni è il segnale di un sommovimento tellurico destinato a cambiare il profilo politico- culturale dello schieramento di centrosinistra.

Le famiglie politiche del Novecento si scompongono e si riaggregano secondo disegni sinora imprevisti. Tramontano appartenenze obsolete e se ne affacciano di nuove, si incrociano biografie divise da decenni, si mescolano culture che apparivano, fino a una manciata di anni fa, rigide e immodificabili. Gli scettici che hanno interpretato la nascita della Rosa nel pugno come una sommatoria obbligata dalle circostanze tra la pattuglia radicale e uno dei frammenti della diaspora socialista forse dovranno ricredersi, perché nell’arcipelago del centrosinistra quel principio di fusione ha accelerato movimenti profondi.
Sul versante moderato si stava già consolidando il disegno di Francesco Rutelli, nel quale l’attenzione al mondo cattolico si combina con una più netta sottolineatura della scelta di campo occidentale e un ascolto non sporadico ai temi della modernità industriale. Poi, nell’area della Quercia, si è resa visibile l’emersione di una cultura sempre più emancipata dalle zavorre ideologiche del passato (anche per questo Piero Fassino ha voluto partecipare in prima persona al battesimo della nuova formazione che ha messo insieme i radicali di Pannella e i socialisti di Boselli). E adesso il marcato profilarsi di un’area culturale che nella Rosa nel pugno trova l’espressione di una sensibilità liberale di cui il centrosinistra ha vitale bisogno e anche un’opzione occidentale senza tentennamenti, tanto da suggerire a Emma Bonino dichiarazioni di esplicito consenso alla proposta di non modificare la linea dell’attuale governo su Israele avanzata da Rutelli: proprio il Rutelli così frequentemente preso di mira dai radicali sulla «questione cattolica».

L’adesione di Turci, di de Giovanni (e di Salvatore Buglio) alla Rosa nel pugno è il sintomo che questo variegato lavorio in favore di una nuova identità politico-culturale del centrosinistra sta dando i suoi visibili frutti. E sta seminando scelte nuove anche in un’area politico-culturale, quella che si coagula attorno a una rivista come le Nuove ragioni del socialismo di Emanuele Macaluso, che in passato era apparsa più refrattaria a disfarsi della vecchia identità socialdemocratica della sinistra. Un’area (che proprio pochi giorni fa, nei festeggiamenti per i dieci anni della rivista di Macaluso, ha accolto Pannella come uno dei suoi protagonisti) vicina, contigua o addirittura compenetrata con quella del Riformista, il cui direttore Antonio Polito si presenterà alle elezioni per la Margherita «in quota partito democratico » e sulle cui pagine arancioni ha trovato espressione l’ala più liberal dei Democratici di sinistra.

Può darsi, sostengono i disincantati, che tutto questo terremoto di appartenenze e di identità non porterà a niente di stabile e di strutturato. Ma almeno questo mischiarsi di culture ha sottratto la prospettiva del «partito democratico» al quadro poco entusiasmante di una confluenza di apparati, di un incontro deludente, variante del ventunesimo secolo di un nuovo compromesso storico, tra ex democristiani di sinistra ed ex comunisti. L’apparente confusione di oggi può essere la base per qualcosa di meno effimero domani. Può insomma accadere che, anche grazie alle nuove aggregazioni che si realizzano attorno alla Rosa nel pugno, il nucleo del nascituro partito democratico contenga in sé un frammento di anima liberale di cui era sinora drammaticamente priva. Qualcosa di molto più profondo di una competizione sulle candidature.


Turci lascia i Ds, è candidato con la Rosa
La Quercia, che gli aveva offerto un posto al governo in caso di vittoria: «Siamo stupiti».

• da La Stampa del 21 febbraio 2006, pag. 7
di r. i.

Lanfranco Turci e Biagio de Giovanni lasciano i Ds e si candidano con la Rosa nel pugno. ”E’ una decisione nata negli ultimi giorni anche se chiaramente le sue origini sono più lontane, sono nel lavoro comune che abbiamo fatto durante la campagna referendaria». Lanfranco Turci, diessino non ricandidato, comunica a Radio Radicale la decisione esposta anche al segretario del partito Fassino: Proprio oggi (ieri, ndr) - ha detto Turci - ho inviato una lettera al segretario del mio partito, Piero Fassino, comunicandogli questa decisione. Devo anche dare atto che nel momento in cui i Ds hanno ritenuto di non concedermi la deroga per la candidatura, il segretario del mio partito mi ha proposto, nel caso di vittoria del nostro schieramento, un incarico di sotto-segretario. Di questo voglio dare atto a Fassino, perche è un atto di lealtà e perche non si dica che questa mia scelta di impegnarmi nella candidatura insieme alla Rosa nel pugno è una scelta per un posto. E’ invece una scelta tutta politica, ideale, della ricerca di un modo più efficace per dar luogo ad una continuazione di una battaglia».

”C’è anche il fatto - ha aggiunto Turci - che dopo il referendum, da parte dei Ds, è calata una sorta di cortina di silenzio su quello che è successo e sull'impegno necessario per dare continuità a quanto richiesto con il referendum. A fronte di una linea molto spregiudicata da parte di Rutelli e delle forze che si erano opposte al referendum nel centrosinistra, ho visto un atteggiamento silenzioso, quasi remissivo, da parte dei Ds, e questo lo ritengo sbagliato anche da un punto di vista di prospettiva».

Con una nota i Ds commentano la vicenda: “Apprendiamo con stupore della decisione di Turci di candidarsi con le liste della Rosa nel pugno. Soltanto pochi giorni fa Turci aveva accolto con soddisfazione la proposta avanzatagli direttamente dal segretario dei Ds, Piero Fassino, di essere impegnato in una significativa funzione di governo, nell'auspicata prospettiva di una vittoria elettorale del centrosinistra».
Biagio De Giovanni spiega “aderisco all'invito di partecipare alla lista politica della Rosa nel Pugno, che mi è giunto da Emma Bonino e Marco Pannella. La mia vuole essere una semplice testimonianza, calorosa e convinta, per l'affermazione di una sinistra moderna, laica, radicale, socialista, liberale che porti aria fresca».

De Giovanni: scelgo un partito riformista e liberale

• da La Repubblica del 22 febbraio 2006, pag. 8

di Daniela D’Antonio

Dice che i DS, ormai, hanno molti difetti che segnarono il vecchio PCI, ma che di quel partito hanno ereditato pochi pregi. E nel salutare i compagni di una vita, il filosofo Biagio De Giovanni traccia un’analisi severa: “Meglio la Rosa nel Pugno, non c’è dubbio. Insieme con la Margherita sono gli unici soggetti politici interessanti del centrosinistra. La mia è una candidatura puramente di testimonianza: non avendo accettato di essere nel gruppo di testa, non ho alcuna possibilità di essere eletto. Con la mia presenza in lista mostro fiducia per un partito veramente riformista e liberale”.

L’opposto dei DS?

“Più che altro non capisco che cosa siano veramente i DS oggi. Mi domando quale sia la loro strategia politica e non trovo una risposta soddisfacente. Ormai sono una realtà anfibia, un aggregato di consenso e di potere. Eppure sono il primo partito d’Italia, dovrebbero avere una linea chiara sui grandi temi. La realtà è che non hanno praticamente azzerato il dibattito interno. Molto più interessante la tattica politica di Rutelli”.

E’ stato tentato anche dalla Margherita?

“Siamo troppi distanti sui temi della laicità e per me non è un argomento secondario”.

Maggiore affinità con Emma Bonino?

“Sono attratto da un soggetto autenticamente riformista e liberale, il valore di questo partito è metapolitico, la sua importanza va al di là del programma”.

Ritiene che i radicali e i socialisti possano reggere alla campagna elettorale?

“Di sicuro in questo ultimo periodo sono usciti dalla clandestinità e sono entrati nel dibattito politico. Merito anche dei radicali che hanno messo l’accento sul tema dei diritti civili e sulle oligarchie politiche

E ora Buglio stringe la Rosa nel pugno

• da La Stampa del 22 febbraio 2006, pag. 43
di Giuseppe Legato

La sinistra che fino a ieri assisteva ridacchiando al mercato elettorale del centrodestra è letteralmente impietrita. Perché tutto avrebbe potuto immaginare tranne che un giorno un parlamentare come Salvatore Buglio, 54 anni, origini catanesi, operaio, uno dei duri e puri dei ds, annunciasse a radio radicale il suo passaggio a un altro partito. E invece è successo. Quel giorno è arrivato: addio Quercia, «entro nella Rosa nel pugno». La federazione di Torino non ne sapeva nulla. I suoi fedelissimi, nella roccaforte di Nichelino, neanche.
Choc. Se ne va davvero? Se ne va. Sabato incontrerà le forze politiche del suo territorio, poi firmerà la candidatura. «Ero cardinale - dice - volevo tornare a fare il parroco, ma non mi hanno concesso neanche quello. Giorno dopo giorno mi sono reso conto che il nostro era un rapporto che stava fmendo e che mi avevano lasciato solo». E ancora: «Mi restano le mie idee, alcune delle quali sono state combattute nel partito in Piemonte, ma un conto è non essere d'accordo, un altro è mettersi a lavorare per cancellarmi come ha fatto parte della nomenclatura».

La scelta di Buglio rafforza il progressivo processo di deriva laica della Quercia dopo le uscite verso i radicali dei nazionali Biagio De Giovanni e Lanfranco Turci. Motivo della scelta: «Nei Ds - dice Buglio - c è una sorta di remissività ad affermare la laicità su alcuni temi come i pacs e la fecondazione assistita. Sono condizionati dal mondo cattolico e dalla Cei. Mi candido in una forza politica che darà più equilibrio al futuro partito democratico. Mettiamola cosi: non è un addio ma un arrivederci a quando saremo tutti insieme».

Dove correrà? «Forse in Sicilia, forse in Piemonte». Delle due la prima è la più probabile. Inevitabile il parallelo con Deodato Scanderebech. Vorrà mica salire su un altro carro solo per prolungare la sua vita da parlamentare? «Per cortesia - replica seccato - ho fatto una scelta perché credo in un progetto riformista. Nel mio partito non c'era questo spazio e poi da alcuni ero considerato ormai come un corpo estraneo»,

E i Ds? Diramano a tarda sera un comunicato stampa. Lapidario: «Siamo rimasti increduli e sorpresi». Rocco Larizza segretario provinciale si dice “addolorato per la decisione di Buglio”. «Per quanto mi riguarda - aggiunge con il sindaco Giuseppe Catizone - la porta del partito sarà sempre aperta per lui e mi auguro che ci ripensi. In caso contario farà un torto al partito e ai suoi elettori».


La rogna radicale
La Rosa cresce rigogliosa nel pugno di polemiche su Pacs e laicità.
Tra Ds e dintorni c’è chi si preoccupa.

• da Il Foglio del 15 febbraio 2006, pag. 1

A quelli della Rosa nel pugno, nel nome del progetto Blair-Fortuna-Zapatero, e con l’accurata specifica di laici-socialisti-liberali- radicali, quasi non pare vero. Il rilancio delle polemiche su come la faccenda dei Pacs è uscita dai tira e molla dell’Unione, con l’aggregato della discussione sulla laicità o non laicità dello stato, ha messo di buon umore il nuovo partito. Che fiuta un vento, magari solo una brezza, di favore nell’aria. Ieri mattina ne ha dato conto anche Renato Mannheimer sul Corriere della Sera, parlando addirittura di “una forte crescita”. Conferma Ugo Intini: “Assolutamente sì, è così”. Rivendica la posizione “laica e ferma” su questioni come i finanziamenti alla scuola privata, “nel ’64 Nenni fece cadere il governo Moro su un tema del genere”, e i Pacs. “Lo stato deve seguire l’evoluzione del costume, non giudicare se è bene o male”. Ha un sogno Intini, che è poi lo stesso della Rosa nel pugno. “Storicamente, tra socialisti, Pli, Pri e Psdi, più i radicali, in Parlamento i partiti laici avevano circa il 25 per cento. Oggi non c’è più rappresentanza…”. E i contorcimenti del centrosinistra si stanno rivelando una vera manna per quelli di via di Torre Argentina. Anche se tra una decina di giorni, pure loro dovranno sottoscrivere il programma di Prodi, e allora… Replica Intini: “L’opinione pubblica capisce benissimo che, alla fine, bisogna firmare, e remare insieme. Ma capirà anche che più peso avrà la Rosa nel pugno più potrà condizionare l’azione del futuro governo”. Per ora, radicali e socialisti non mollano la presa. Sul loro sito compaiono “appelli gay” per un voto al partito, “l’unico che non ci considera cittadini di serie B”, gente incazzata che si fa viva “perché la sinistra (Ds, Rifondazione, Verdi e Pdci) ci ha preso per i fondelli”. E’ un aggregato che molto si porta, in questi giorni, quello della Rosa nel pugno. L’immagine di Emma Bonino che fiera lascia il tavolo del pasticcio del centrosinistra si è rivelata vincente. Niente rottura, ma distanze marcate. E dal forum del sito del partito esce musica celestiale, “è venuto il momento di votare l’unico partito che si batte per un’Italia laica e civile”.

Si spende per la causa Vasco Rossi, si contatta il professor Veronesi, benedetta ogni accusa di Mastella (“o noi o loro”), gradita ogni sortita di Rutelli. E persino Oliviero Diliberto, quando paragona i radical-socialisti a una “rogna” da grattarsi, può essere annoverato tra i benemeriti. Del resto, non sono solo i diretti interessati a pensare che il vento del dissenso potrebbe favorire le loro liste. Racconta al Foglio Alessandro Zan, consigliere dei Ds a Padova e responsabile nazionale per la campagna sui Pacs dell’Arcigay: “L’abbandono della Bonino del tavolo del programma dell’Unione ha sollevato un dibattito nel movimento gay e nell’elettorato laico. Una riflessione sull’opportunità di spostare il proprio voto su una forza nuova e molto impegnata sul fronte dei nuovi diritti, oppure di insistere a chiedere ai partiti della sinistra italiana di esporsi in modo più deciso”. E questa è la soluzione che Zan indica al suo partito: “Fassino faccia una dichiarazione forte a nome dei Ds per rispettare l’impegno programmatico a sostenere i Pacs, anche distinguendosi dall’accordo raggiunto con gli altri”. Altrimenti, “il rischio di una migrazione del consenso verso la Rosa nel pugno” si farebbe concreto. Tutt’altra opinione è quella di Titti De Simone, parlamentare di Rifondazione, fondatrice di Arcilesbica: “Per me non sarà così. Non abbiamo cose da farci insegnare su questo punto dalla Rosa nel pugno. La sceneggiata di questi giorni non li distingue particolarmente, usano solo la vicenda per una visibilità che altrimenti non avrebbero mai avuto”. Ammette, Titti De Simone, che “abbiamo subito l’ennesimo ricatto dai moderati della coalizione”, ma “l’alternativa era non avere niente”. Ma un’altra storica esponente del movimento omosessuale, Imma Battaglia, non è di questo avviso. “Non basta dire che dobbiamo battere Berlusconi. E’ assolutamente vera la sensazione che la Rosa nel pugno potrebbe guadagnare voti, c’è una sollevazione popolare nel mondo gay, e non solo. Serve un cambiamento radicale, e mi pare l’abbia individuato Emma Bonino”. Addirittura, Imma Battaglia – “non vivo della mia omosessualità, ho un lavoro” – in nome del “cambiamento culturale” lancia una “sfida” anche al Cav.: “Se lui fosse pronto a incontrarci… Quando chiediamo di veder riconosciute le nostre unioni familiari, anche noi collaboriamo alla ricostruzione di valori morali: siamo tutti figli”. Intanto la Rosa nel pugno fiuta l’aria e ritarda la firma. Che non negherà, ma spenderà esattamente sul fronte lasciato (forzatamente) sguarnito dagli altri.


Il crocifisso arricchimento di Turco

• da Il Riformista.it del 17 febbraio 2006
di Emanuele Macaluso

Ho sempre pensato che in questo paese la conquista delle libertà individuali sia stata sempre difficile e lo sarà ancora. Per questo ho sempre apprezzato le battaglie dei radicali per il divorzio, la legge sull’aborto e altre cose. Ed è per questo che considero importante il ruolo che la Rosa nel pugno potrà svolgere nel centro-sinistra e nel Parlamento. Sottovalutarlo sarebbe un errore di prospettiva. Lo dico soprattutto ai Ds. Per quel che mi riguarda, pur essendo un non credente, non ho mai dato gran peso al fatto che nelle aule scolastiche vi sia il crocifisso. Tuttavia non ho neppure mai pensato che «arricchisse» la concezione della laicità dello Stato. Invece commentando la sentenza del Consiglio di Stato che ha respinto il ricorso fatto a questo proposito da una cittadina finlandese, Livia Turco la definisce «importante perché afferma una concezione più ricca di laicità» (Il Messaggero). Che Livia, cattolica, avverta il crocifisso nelle aule scolastiche o nei tribunali come un «arricchimento» è comprensibile. Ma c’è anche chi lo avverte come una violazione della propria coscienza e della laicità. E’ una minoranza? Ma proprio queste dovrebbero essere rispettate. O no?


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