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POESIA: GIORNO DELLA MEMORIA 27 gennaio 2017 Voi che sapete -di Charlotte Delbo, 1970 partigiana francese, sopravvissuta ad Auschwitz O voi che sapete sapevate che la fame fa brillare gli occhi che la sete li appanna O voi che sapete sapevate che si può vedere la propria madre morta e restare senza lacrime O voi che sapete sapevate che al mattino si vuole morire che alla sera si ha paura O voi che sapete sapevate che un giorno è più di un anno un minuto più di una vita O voi che sapete sapevate che le gambe sono più vulnerabili degli occhi i nervi più duri delle ossa il cuore più solido dell'acciaio sapevate che le pietre della strada non piangono che c'è una sola parola per il terrore una sola parola per l'angoscia sapevate che la sofferenza non ha limite l'orrore non ha frontiera Lo sapevate voi che sapete… ******************************* LIBRO: Meditazione post 27 gennaio Pubblicato il 27-01-2017 da AVANTIonline http://www.avantionline.it/2017/01/meditazione-post-27-gennaio/#.WI7t_-kzWZQ -di Nicola Zoller Ho trovato da tempo una lettura che ci immunizza dal trasformare la ricorrenza del 27 gennaio – “giorno della memoria” per le vittime dell’Olocausto – in una ricorrenza retorica d’occasione, spingendoci invece a un pensiero più radicale, che vale per tutti i giorni della nostra vita. Fred Uhlman, ebreo tedesco nato a Stoccarda, cittadino adottivo degli Stati Uniti dal 1933, sul finire della sua vita ci ha consegnato tre racconti autobiografici. “Niente resurrezioni, per favore” chiude la sua desolata trilogia. Qui Uhlman narra la peregrinazione fisica e spirituale di Simon Elsas, giovane ebreo che è riuscito a fuggire dalla Germania hitleriana. I suoi parenti sono stati trucidati; egli, riparato in America, “… aveva passato settimane e mesi in cui, addormentandosi, aveva un solo desiderio: quello di non svegliarsi più. Non essere mai vissuto è meglio, dicono gli antichi scrittori. Non aver mai respirato la vita. Non aver mai guardato nell’occhio del giorno. In mancanza di ciò: buonanotte e un rapido allontanarsi”. Era sopravvissuto prima a Hitler e poi alla propria disperazione: faceva il pittore e non leggeva un libro tedesco da quando aveva sentito la parola Auschwitz. Trent’anni dopo torna, di passaggio, nella sua città natale, lì dove erano cresciute le prime amicizie e i primi affetti, dove aveva frequentato il liceo imparando ad amare i classici antichi – greci e latini – e quelli moderni, della Germania. Come mai questo popolo di poeti e pensatori, “das Volk der Dichter und Denker”, era poi precipitato nelle mani di un macellaio come Hitler? Simon rivede casualmente alcuni suoi amici di scuola riuniti a convivio e trova qualche risposta. Se c’è un von Muntz – ex ufficiale SS – che afferma stentoreamente di aver “agito sempre e soltanto per principio, come il Führer”, l’accorgimento prevalente è quello di difendersi con l’ipocrisia e l’ignavia. Scorre qualche bicchiere di vino, finché Hausmann, il giudice Hausmann, confessa: “Eppure… secondo me siamo tutti colpevoli. Colpevoli di viltà, colpevoli perché apparteniamo a una nazione… sì, mille volte sì, una nazione di assassini”. Si dirà: che esagerazione! Ma se questa fosse invece una vocazione più estesa, la sorte stessa del “progresso” umano? Lindner, l’intellettuale della compagnia, l’aveva già detto: “In che magnifica età viviamo, in cui si arrostiscono bambini e donne incinte come castagne! Come capisco bene adesso il desiderio di Caligola, che l’intera umanità avesse un solo collo. Come tutto migliorerebbe se la terra potesse liberarsi di questa razza predatrice, crudele e ripugnante, cui abbiamo la disgrazia di appartenere”. Sì, ritornano le parole dei poeti: non essere mai vissuto è meglio. E se abbiamo dovuto vivere? Charlotte, l’antico amore giovanile di Simon, risponde per noi: “Niente resurrezioni, per favore. D’inferni ne basta uno”. torna in alto |