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Corr.Sera:ITALIA DEI FURBI
16 .2.2016

LA CONSAPEVOLEZZA CHE SERVE
PER CAMBIARE IL «PAESE DEI FURBI»
Gli ultimi scandali sembrano confermare la definizione che Prezzolini diede dell’Italia…

-di Giovanni Belardelli
CORRIERE DELLA SERA, 16 febbraio 2016, p. 24

In un libretto di quasi cent’anni fa, Giuseppe Prezzolini osservava che gli italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi. Forse la principale conseguenza negativa di scandali come la nuova affittopoli romana o come l’ennesima «truffa del cartellino» (ad Acireale) sta proprio nel confermare questa antica autorappresentazione di ciò che siamo o pensiamo di essere (due cose che poi finiscono col coincidere). Purtroppo si tratta di un’immagine che appunto, a ogni nuovo scandalo, sembra diventare un po’ più vera. Nel senso che ogni nuovo episodio rischia di dare ragione a chi pensa che sarebbe da «fessi» ostinarsi a rispettare le regole, essendo invece da «furbi» trarre vantaggio dall’eluderle. I lettori ricorderanno a questo proposito il lungo elenco di esempi fornito di recente da Gian Antonio Stella (Corriere, 3 febbraio).
Siamo dunque, secondo una definizione diffusissima entro e fuori dei nostri confini, il Paese dei furbi, quasi che la spinta a piegare le regole e le leggi a proprio vantaggio affondi le radici nelle profondità insondabili e immodificabili dell’essere italiani? La domanda rischia di spingere su un terreno scivoloso, inducendo alla conclusione che non c’è da fare nulla di fronte a quell’Italia di sempre raffigurata da Arbasino inUn Paese senza. Ma forse le cose non stanno così. Benedetto Croce, alla domanda su quale fosse il carattere di un popolo, rispondeva: «La sua storia, nient’altro che la sua storia».
È dunque l’insieme di accadimenti che, generazione dopo generazione, hanno plasmato la vita e la cultura di un Paese, e non un Dna immutabile, a renderlo come è, con certe qualità e certi difetti.
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Ciò significa anche che quelle qualità e quei difetti, per quanto radicati, non sono immodificabili, a patto che se ne abbia consapevolezza e non ci si nasconda il problema.
Per spiegare il nostro scarso senso civico si è fatto spesso ricorso alla storia della penisola, sia al periodo di formazione dello Stato nazionale sia ai secoli precedenti. In realtà anche i tempi e i modi della modernizzazione italiana hanno inciso non poco.
Basti pensare a quanto, dopo il 1945 e ancor più dopo gli anni del cosiddetto miracolo economico, le istituzioni si sono dimostrate incapaci di orientare i processi di trasformazione in corso, dando prova esse stesse di un uso delle risorse pubbliche e del potere di governo che, per fini di consenso politico, premiava appunto i più furbi: dall’esercito dei falsi invalidi all’infinito numero di quanti commettono abusi edilizi grandi e piccoli.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi polemizza spesso con l’autorappresentazione negativa degli italiani, che interpreta come un tipico caso di cultura del piagnisteo. E cerca di contrastarla con slogan tipo «l’Italia è tornata», «siamo un grande Paese» e così via, tutti giocati su un certo ottimismo volontaristico. Probabilmente fa bene. A patto di non sottovalutare però che esiste un mondo — al di fuori di quello un po’ artificioso dello storytelling — dove i furbi continuano a fare i furbi e i tanti che ancora non lo sono, stanchi di sopportare certi spettacoli, furbi rischiano di diventarlo. Quel che è veramente essenziale, infatti, è che chi non rispetta le regole cominci davvero a non farla franca, come finora — spentisi i riflettori su questo o quello scandalo (dagli assenteisti seriali agli inquilini abusivi) — non è quasi mai avvenuto. Si tratta di un’opera titanica che oltretutto rischierebbe di sottrarre consensi a chi avesse il coraggio di intraprenderla. Ma è difficile pensare che per l’Italia ci sia una riforma più urgente di questa.



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