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infoSocialista
10.12.2005

Info SOCIALISTA – 10 dicembre 2005
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei socialisti e del centro sinistra
n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 – Trento/Bolzano
Quindicinale - Anno 2°




UN LIBRO, per cominciare “Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges
Autore: Pietro Ichino

Titolo: “A che cosa serve il sindacato?”
Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino.
Il sistema sindacale Italiano, bloccato dai suoi paradossi, genera mostri.
Il sindacato conflittuale e quello disponibile a scommettere sull’impresa devono potersi confrontare apertamente, senza paralizzarsi a vicenda. E’ un passo necessario per uscire dal declino.

Mondatori ed. - € 17,50


di Giacomo Rindonone – dal sito web della UIL


A che cosa serve il sindacato? Bella domanda.
Le risposte possono essere diverse, dipende dai punti di vista. In questi giorni sto leggendo di Pietro Ichino, (ex sindacalista della Fiom-CGIL, responsabile del coord.serv.leg.della Camera del Lavoro di Milano, deputato del Pci, professore universitario) il suo ultimo lavoro intitolato proprio: “A che cosa serve il sindacato?”

Dal suo libro vorrei citare alcuni passi che rendono l’idea del suo pensiero che condivido.

“ Nell’ottobre del 2000, proprio mentre la Fiat prendeva la decisione di chiudere lo stabilimento dell’Alfa Romeo di Arese, la casa automobilistica Giapponese Nissan annunciava di voler produrre in Europa un suo nuovo modello destinato al mercato comunitario. Si candidarono un sito industriale spagnolo, uno francese e uno inglese.

Da noi, invece, a candidare lo stabilimento di Arese con i suoi duemila operai in procinto di perdere il posto, non ci pensò nessuno. Fu distrazione? Disinformazione? No. Il sistema Italiano dei rapporti di lavoro e sindacali non avrebbe neppure consentito di aprire una trattativa sulla base delle proposte della casa nipponica.

La gara venne vinta dalla Gran Bretagna.
Bassi stipendi? Lavoro precario? Niente affatto: nello stabilimento inglese, scelto poi dalla Nissan, il lavoro è retribuito il doppio di quello dei metalmeccanici italiani, è sicuro e altamente qualificato.

Ma è regolato da un accordo sindacale incompatibile con il contratto collettivo di settore. Così, mentre all’Alfa di Arese i lavoratori restano in cassa integrazione per anni e il nostro sindacato vagheggia un impossibile intervento pubblico che consente di non mettere in discussione nulla del vecchio modello di relazioni industriali, il sindacato inglese negozia e accetta di sottoscrivere una scommessa comune con l’investitore straniero.

Pietro Ichino ripropone, come una cronaca giornalistica, questa vicenda emblematica e alcune altre parimenti significative del difficile stato delle relazioni sindacali nell’Italia contemporanea: dal caso dell’Alitalia, dove le hostess si ammalano a comando per scioperare anche quando è proibito, a quello del ministro del Lavoro che appoggia il sindacato che le organizza; dalle agitazioni che paralizzano due volte al mese ferrovie e trasporti urbani, all’incredibile vicenda degli uomini radar, che guadagnano più di tutti e scioperano più di tutti (anche perché durante lo sciopero non perdono la retribuzione). E ne prende spunto per formulare una proposta di riforma molto chiara e semplice. Una riforma che assume anch’essa il carattere di una scommessa comune a tutte le parti responsabili del futuro economico dell’Italia. Perché il nostro paese non può uscire dal declino senza eliminare i fattori istituzionali e culturali che paralizzano il suo sistema di relazioni sindacali.”.
Come dice l’autore,” merita di essere riportato il primo articolo dell’accordo Nissan Sindacato:

Principi generali
a) Gli obbiettivi di questo accordo sono:

i. di sviluppare e mantenere la prosperità dell’impresa e dei suoi lavoratori,

ii. di promuovere e mantenere la fiducia reciproca e la cooperazione tra l’impresa, i suoi lavoratori e il sindacato,

iii. di stabilire procedure mediante le quali ogni questione inerente a queste relazioni possa essere risolta in modo veloce ed efficace,

iv. di riconoscere che tutti i lavoratori, a qualsiasi livello, hanno un ruolo apprezzabile da svolgere per il successo dell’impresa.

b) A questo fine entrambe le parti concordano sulla necessità:

i. di dare vita a una compagine impegnata a raggiungere i più alti livelli di qualità produttività e competitività, utilizzando tecnologie e forme di lavoro moderne e pronta ad apportarvi i mutamenti necessari per mantenere quei livelli di eccellenza,

ii. di evitare qualsiasi azione che interrompa la continuità della produzione,

iii. di valorizzare attivamente il contributo di tutti i lavoratori per il perseguimento di questi obbiettivi,

iv. di rispondere flessibilmente e rapidamente ai mutamenti della domanda dei prodotti dell’impresa,

v. di mantenere aperta e diretta comunicazione con tutti i lavoratori sulle questioni che riguardano e interessano entrambe le parti.

c) Il sindacato riconosce il diritto dell’impresa di programmare, organizzare, gestire e assumere le decisioni finali sulle questioni operative dell’impresa stessa.

d) L’impresa riconosce il diritto dei lavoratori di appartenere al sindacato e il diritto del sindacato di rappresentare i propri membri.

e) L’impresa e il sindacato riconoscono la predominanza dei principi contenuti in questo articolo e concordano che è loro responsabilità congiunta di fare il possibile per assicurare che questi principi siano attuati e mantenuti. Se altri articoli di questo accordo dovessero risultare in contrasto con l’articolo 1, dovrà essere data la prevalenza all’articolo 1.”

Mi vengono spontanee alcune riflessioni:

E’ un problema serio avere il 40% del lavoratori tutelati e un l’altro 60 % no, oppure tra quelli tutelati per la stessa categoria avere delle differenziazioni, o all’interno della stessa unità produttiva, lavoratori con contratti diversi.
Oppure aver condiviso e sottoscritto accordi anche innovativi, nel settore, per vederli abortire o non applicati. Per poi chiedersi perché? E i patti tra gentiluomini?
Ancora, cosa dire delle morti bianche?
E la 626? Una rottura di scatole, che costa applicarla e quindi, si prende tempo, fino a quando non succede l’incidente.
Chi è causa del suo mal pianga se stesso…..

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Più sindacato meno conflitto

di Giuseppe Berta
· L’Espresso, 2 dicembre 2005

Le relazioni industriali e la politica sindacale in Italia sono oggi in una posizione di stallo.
Stentano a ritrovare una logica che dia al sistema della contrattazione collettiva quella duttilità e quella capacità di aderire alle situazioni concrete di lavoro utili ad accompagnare il mutamento economico e sociale del paese.

Le proposte di riforma del mondo delle relazioni sindacali che avanza Pietro Ichino (uno degli studiosi più noti di diritto del lavoro, con un'esperienza giovanile alle spalle fra i metalmeccanici della Cgil e in seguito come parlamentare comunista) muove da un'analisi di casi emblematici per comprendere i rischi provocati da un'impasse prolungata ('A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino', Mondadori, pp. 287, E 17,50).

Ponendo a raffronto la strategia sindacale realizzata nello stabilimento automobilistico della Nissan di Sunderland, nel Regno Unito, con quanto è avvenuto all'Alfa Romeo di Arese, Ichino conclude che da un rapporto di tipo cooperativo con l'impresa, come quello perseguito dal sindacato inglese, i lavoratori avrebbero tratto maggiori benefici sia sul terreno dell'occupazione sia su quello del salario.

Ciò che manca nella realtà italiana è un confronto aperto fra i differenti modelli sindacali: lo stallo è accentuato da uno stato di compromesso fra l'anima conflittuale e quella orientata in senso cooperativo, presenti entrambe nel movimento dei lavoratori.

La tesi di Ichino è radicale e mina alla base il tabù dell'unità sindacale: occorre una nuova regolamentazione della rappresentanza, che attribuisca all'organizzazione sindacale in grado di riscuotere più consensi e pieno potere negoziale.
Questo porterebbe a un'assunzione di responsabilità che gioverebbe al mondo del lavoro nel suo complesso.



Pietro Ichino

è nato a Milano il 22 marzo 1949 si è laureato in Diritto del lavoro ed è stato dirigente sindacale della Fiom-Cgil nella zona di Cusano Milanino dal 1969 al 1972; successivamente, dal 1973 al 1979, è stato responsabile del Coordinamento servizi legali della Camera del Lavoro di Milano.
Dal 1975 è iscritto all'Albo degli Avvocati e Procuratori di Milano ed esercita la professione forense.
Nell'ottava legislatura (1979 - 1983) è stato membro della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, eletto nelle liste del Partito comunista italiano.
Ricercatore dal 1983 presso l'Università statale di Milano, dal 1986 al 1991 è stato professore straordinario di Diritto del lavoro nell'Università di Cagliari; dal 1991 è professore ordinario della stessa materia nell'Università statale di Milano.
Nel 1985 ha assunto l'incarico di coordinatore della redazione della "Rivista italiana di diritto del lavoro" (diretta dal prof. Giuseppe Pera), della quale è stato vicedirettore dal 1991 ed è ora direttore responsabile.
Dal 1997 è presidente del Collegio arbitrale per i dirigenti del settore delle assicurazioni.
Dal 1999 è direttore del Master Europeo in Scienze del Lavoro dell'Università degli Studi di Milano.
Giornalista pubblicista dal 1970, dal 1997 è editorialista del Corriere della Sera. Dall'aprile 1998 al marzo 1999 ha collaborato anche con l'Unità. Al suo libro Il lavoro e il mercato è stato assegnato il Premio Giancarlo Capecchi - Intersind 1997 sia per la sezione socio-economica, sia per la sezione giuridica; inoltre il Premio Walter Tobagi 1997 per la saggistica.


PUNTO DI VISTA SOCIALISTA SULL’ATTUALITA’

MANIFESTO

Socialisti e Radicali,
dal liberalismo riformatore di Roosevelt al socialismo liberale di Blair e Zapatero



I Socialisti Democratici italiani, l'Associazione Coscioni, Radicali italiani e la Federazione Giovanile Socialista hanno intrapreso un percorso comune per la costruzione di un nuovo soggetto politico laico, socialista, radicale e liberale. Il primo impegno, dopo lo svolgimento della "Convenzione per le libertà di Fiuggi", è quello della presentazione di un primo pacchetto di riforme nel campo dei diritti civili, delle istituzioni, dell'economia e della politica estera. Radicali e socialisti si impegnano a trasformare i singoli obiettivi in proposte anche legislative da depositare in Parlamento nelle prossime settimane.
Tali proposte rappresenteranno al tempo stesso il cuore delle nostre indicazioni programmatiche rivolte all'Unione, la base comune per l'azione parlamentare della prossima legislatura e le finalità per una mobilitazione popolare in grado di coinvolgere energie e risorse per la creazione di un nuovo soggetto politico.
Una comune memoria per un comune futuro
Tony Blair, Loris Fortuna e José Luis Rodriguez Zapatero sono i riferimenti scelti per un nuovo e creativo progetto per le libertà.
La cultura, laica, socialista, radicale e liberale appare oggi di rinnovata e urgente attualità. Risalendo alle radici, troviamo in un gigante della civiltà europea dell'Ottocento, John Stuart Mill, sia l'indissolubilità di libertà e di democrazia e la difesa dei diritti delle minoranze (e di quella maggioranza, "l'altra metà del cielo", a lungo oppressa da oscurantismi e pregiudizi e tuttora, spesso, in situazioni di non parità), sia l'impegno a politiche di sostegno verso i ceti più deboli. Il liberalismo riformatore di Franklin Delano Roosevelt e quello di William Beveridge hanno profondamente influenzato, in un intenso dialogo ideale con il socialismo democratico nelle sue varie espressioni, a cominciare da quello di origine fabiana, il corso della storia del Novecento.
Rigetto di un'impronta marxista o di stampo statalista che ingabbi o mortifichi gli 'animal spirits' del capitalismo; accettazione dell'economia di mercato come necessario quadro per la piena valorizzazione della libertà e responsabilità individuale insieme alla messa in opera di politiche sociali; rifiuto di qualsiasi rapporto meccanico tra l'espansione della sfera pubblica e lo sviluppo della democrazia; questi sono i cardini di quella profonda revisione innovativa del socialismo che, soprattutto con Blair e con Zapatero, ne ha rinnovato e potenziato l'impatto politico e di governo, aprendolo al dialogo e alla convergenza con il liberalismo riformatore e il radicalismo.
In Italia, il cammino comune tra liberali e socialisti è già stato avviato da esponenti di rilievo dell'antifascismo, sostenitori di uno stato laico e attento al progresso sociale e civile, oltre che economico, dei ceti meno fortunati: da Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi, da Piero Gobetti a Luigi Einaudi, da Carlo e Nello Rosselli a Eugenio Colorni, da Guido Calogero a Piero Calamandrei, da Mario Paggi a Norberto Bobbio e Altiero Spinelli. Tra i socialisti e i liberali c' è chi, come i socialisti e radicali, Bruno Zevi e Loris Fortuna, considerarono necessario superare il regime concordatario per modernizzare i rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Il sogno della vecchia tradizione socialista non marxista, "abolire la miseria", fu la materia dell'opera più impegnativa di un liberale, radicale e federalista europeo come Ernesto Rossi.
Le grandi lotte nonviolente contro la violenza di regime trovano il loro storico emblema nella figura di Gandhi. In Italia il suo spirito si ritrova esplicitamente richiamato da Aldo Capitini, che contribuì alla fondazione del "Partito d'Azione" e che mise la "giunta religiosa alla politica" - felice traduzione della crociana "religione della libertà" - tra i punti fermi di ogni volontà e iniziativa riformatrice. La ribellione civile, fondata sulla responsabilità individuale del cittadino e rigorosamente basata sulla nonviolenza, esprime una forte carica morale e un modello di agire politico essenziale per contrastare l'autoritarismo, le oligarchie del potere e i corporativismi che lambiscono e corrodono sovente i fondamenti delle società aperte e libere.
La difesa e valorizzazione del territorio, del patrimonio artistico e naturale costituiscono la frontiera sulla quale si trovò schierato Umberto Zanotti Bianco, amico di Gaetano Salvemini, in un impegno che anticipò in Italia le moderne battaglie riformatrici nel campo dell'ecologia e dell'ambiente.
Socialisti e radicali, forti delle esperienze unitarie maturate nelle lotte per l'estensione dei diritti civili e per l'introduzione in Italia del divorzio e della legalizzazione dell'aborto, hanno un grande patrimonio ideale e politico in comune, ancora da esplorare e da rendere operativo. Non ci si deve meravigliare ma considerare naturale che tornino oggi a incontrarsi, guardando assieme al futuro dell'Italia perché sia laica, equa e libera in un'Europa da costruire e in una "comunità delle democrazie e del diritto alla democrazia" che contribuisca a far crescere nel mondo sicurezza e pace con giustizia e libertà.

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Il sole deII'avvenire


• da Il Riformista del 9 dicembre 2005, pag. 6

di Giacomo Properzj

Dunque la Rosa nel pugno è arrivata anche a Milano. Nella grande sala dell'Hotel Michelangelo e nei corridoi adiacenti si accalcava martedì scorso una grande folla allegra, plaudente entusiasta. Si trattava di socialisti d’ogni estrazione, radicali e «sinceri democratici», come si sarebbe detto un tempo, venivano anche dalla provincia e, come accade nelle folle socialiste, avevano un vago contenuto interclassista per cui dalla vampata di aglio dell’operaio si passava al profumo di Chanel della signora elegante. Tutti entasiasti però, e convinti nell'applaudire Boselli ma soprattutto la Bonino, questa Edith Piaf della politica italiana: «Je ne regret rien», non rinnego nulla del mio passato, ha gridato rievocando la sua vita milanese del 74. Però, a differenza dei molti esponenti della sinistra, è stata assai ferma nel sostenere le ragioni della Tav. Se il successo si vede dal mattino, questa alba milanese della Rosa nel pugno dovrebbe far splendere tra poco tempo il vecchio caro sol dell'avvenire, recuperare i senza tetto politici che sono molti, penetrare col suo entusiasmo nel mondo giovanile, insomma mettere in fuga le signore dei girotondi, cacciare nelle valli i leghisti ruttanti, contenere la prepotenza delle parrocchie. Naturalmente come sempre, non c'è da farsi grandi illusioni: dietro il tavolone della presidenza e dispersi nelle file del pubblico occhi furbi di politici attenti alla formazione delle liste e pronti a chiudere porte efinestre a qualsiasi ingresso in ragione del nuovo sistema elettorale che dà spazio solo alle oligarchie politiche. A proposito della nuova legge elettorale essa prevede, tanto per facilitare lo sviluppo democratico, che le nuove liste come la Rosa nel pugno, per presentarsi debbano raccogliere le firme (180.000 in tutta Italia, ma divise in proporzione regionale). Questa è un'enorme vigliaccata che potrà creare non pochi problemi soprattutto nelle regioni marginali dove l'organizzazione dei due partiti originari non è presente. D'altro canto il correre in giro con tavoli e altro per raccogliere le firme potrebbe essere un modo assai efficace per fare propaganda elettorale per un partito che non disponga dei mezzi berlusconiani Si vedrà, nessuno ha mai pensato di poter vivere senza speranza.



Boselli: centrosinistra vincente solo con noi
"Il no a Veronesi candidato è stato un errore".


• da La Repubblica - ed. Milano del 7 dicembre 2005, pag. 9
r.s.

Il simbolo della Rosa nel pugno anche alle elezioni comunali. “Sarà la carta fondamentale per sconfiggere il centrodestra in questa città”, dice Enrico Boselli in una sala strapiena del Michelangelo. E’ il battesimo milanese del nuovo tandem politico: quello che vede pedalare insieme socialisti e radicali. Sul palco, accanto al segretario dello Sdi, ci sono Emma Bonino e i dirigenti locali della Rosa nel pugno. Che a Roma sta ancora bussando alle porte dell'Unione, mentre a Milano nel centrosinistra è già stata accolta a braccia aperte. Però, insiste Boselli, “è stato un errore rinunciare alla candidatura a sindaco di Umberto Veronesi”. Un errore commesso ”dai conservatori che purtroppo sono molti anche a sinistra”. L'appoggio a Brumo Ferrante sembra scontato, ma “adesso la strada è in salita e noi che a Milano rappresentiamo una grande tradizione possiamo dare un contributo decisivo alla vittoria del centrosinistra”. Emma Bonino ricorda che proprio a Milano è cominciata la sua battaglia per la contraccezione e contro gli aborti clandestini. Ovazione dalla platea, applaude anche l'ex sindaco Paolo Pillitteri.


La rosa nel pugno di Boselli e Bonino per un'Italia laica

• da La Stampa del 7 dicembre 2005, pag. 38

di Francesca Paci

Progettano un'Italia tecnologicamente avanzata e basata sulla ricerca scientifica, promettono di dare battaglia alla «nuova ondata neointegralista e clericale» che si sta rovesciando sul Paese, garantiscono il marchio liberal sulle questioni sociali, politiche, economiche. Emma Bonino ed Enrico Boselli ricordano ai militanti e ai curiosi riuniti ieri all'Hotel Jolly di Torino le credenziali che fanno de «La rosa nel pugno» una miscela originale di «socialisti, radicali, laici, liberali». L'occasione è il lancio della lista simboleggiata dalla mano serrata intorno alla rosa rossa, il primo in una regione del nord, che alle prossime elezioni correrà insieme all'Unione.
«Altri cinque anni di governo di centro-destra sarebbero una iattura», afferma decisa la Bonino, che ha già pagato con una crisi in famiglia il divorzio dal Polo: da una parte lei Pannella e il grosso dei «liberisti» storici, dall'altra i Radicali Liberi di Taradash e Della Vedova rimasti tra le fila azzurre.
«La rosa nel pugno» si propone di riportare al centro del dibattito politico «le promesse di riforma ventilate da Berlusconi al momento della sua discesa in campo e non mantenute». La scommessa, auspica Boselli, è che quella sfida venga raccolta ora dal centro-sinistra: «Ci collochiamo nella grande tradizione laica e socialista europea che va dal premier inglese Tony Blair a quello spagnolo Zapatero, la sola forza politica capace nel 2005 di fare le riforme mantenendo la pace sociale».

La parola d'ordine è rinnovare l'Italia conservando le libertà civili guadagnate negli anni. Dalla tutela della legge 194 sull'interruzione di gravidanza al sostegno alla Ru486, la pillola abortiva sperimentata in Piemonte dal medico radicale Silvio Viale, seduto accanto a Boselli e la Bonino. Dalla vocazione europeista che passa anche per la Tav («un'opportunità imprescindibile per l'Italia, su cui non si può riconoscere il diritto di veto alle comunità locali») alla sponsorizzazione alla ricerca scientifica che «potrebbe essere finanziata con 1’8 per mille attribuito in gran parte alla Cei attraverso un inghippo burocratico». Spiega infatti il socialista Enrico Buemi che «venti milioni d'italiani non barrano nessuna delle sette caselle in calce alla denuncia dei redditi per l'assegnazione dell'8 per mille, ma quei soldi finiscono ugualmente alla Chiesa per via d'un meccanismo redistributivo». Una cifra a parecchi zeri che i leader de «La Rosa nel pugno» calcolano raggiungere quota «un miliardo di euro».
Il dado è tratto per radicali e socialisti. Resta da vedere se riusciranno a presentare le liste, chiosa Boselli: «Il governo è compatto nel tentativo di boicottare la Rosa nel pugno con una norma inserita ad hoc nella legge elettorale che ci obbliga a raccogliere 200 mila firme».


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LIBERTÀ DI RICERCA SCIENTIFICA


A Orvieto il partito dei prof. e degli agnostici ha riorganizzato le truppe contro il ritorno dei chierici


• da Il Foglio del 6 dicembre 2005, pag. VI


Sono 38 i professori esponenti dell’Associazione Luca Coscioni, erano un centinaio quelli pronti a candidarsi alle Regionali sotto il nome del presidente “maratoneta” (titolo del libro di Coscioni) dei Radicali e dell’organizzazione che porta il suo nome. Sono coordinati da un altro leader pannelliano, Marco Cappato, e dalla sua squadra di tavolinari della libertà di ricerca scientifica, ma stanno diventando qualcosa di più di un gruppo di scienziati al servizio di una battaglia politica. Sta nascendo il partito dei prof. (agnostici e no)? Forse sì. Ecco come.

Dal Vangelo secondo Luca, versetti 45 e 52 del capitolo 11: “Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito. Guai a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito”. Chi si affida a questi versetti è lo stesso Coscioni, nel presentare l’associazione che ha appena concluso il suo quarto Congresso a Orvieto. Mutando un po’ anche la sua natura, da soggetto radicale doc a punto di riferimento e strumento di lotta politica per decine di “dottori”, scienziati e accademici, che non sono riusciti a mandare giù la legge 40/2004 e nemmeno la sconfitta referendaria. “Quello che mi è piaciuto – aveva detto Elena Cattaneo, direttrice del laboratorio sulle cellule staminali all’Università di Milano, durante l’Assemblea dei Mille, la settimana dopo il voto referendario – è che ciascuno di noi si è reso disponibile. Noi siamo ricercatori, noi stiamo bene solo quando siamo nei laboratori. La comunità scientifica per il sì al referendum era composta di tante persone come me, eppure ognuno di noi si è messo a disposizione. C’è stata una reazione, perché abbiamo capito che qualcosa non va, sia nella proposizione della scienza in Italia sia all’interno della comunità scientifica, che non deve solo pensare al proprio laboratorio, ma deve anche un po’ aiutare la società. Adesso la comunità scientifica è molto più coalizzata”. Detto, fatto e ribadito: i prof. hanno preso il gusto della politica attiva. Carlo Flamigni, docente di Ostetricia e Ginecologia all’Università di Bologna e membro del Comitato nazionale di Bioetica (CNB), al congresso dell’Associazione ha ribadito l’obiettivo di “ripartire da 25”, intendendo quel 25 per cento di italiani che sono andati a votare al referendum. C’è poi Mauro Barni, membro del CNB, che “a titolo personale”, sempre a Orvieto, ha spiegato di sentirsi più a suo agio a parlare su quel palco che al Comitato. Sempre più attivo è Piergiorgio Strata, direttore del “Rita Levi Montalcini Center for brain repair”, impegnato a reclutare illustri ricercatori da tutto il mondo per il Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica, convocato dall’Associazione per il prossimo febbraio a Roma. Gilberto Corbellini, docente di Storia della Medicina alla Sapienza di Roma, da anni si batte al fianco dell’Associazione come membro del Consiglio generale e nelle giornate di Orvieto ha lanciato l’idea di un “Manifesto degli scienziati” per “contrastare i tentativi sistematici di censurare la scienza e il suo progresso, contro le ideologie fondamentaliste e clericali”. Demetrio Neri, membro del CNB, insiste con la battaglia per la “dolce morte”, perché “nessuna soluzione è soddisfacente al cento per cento, ma non possiamo permetterci di non decidere in fretta”.

Ma perché gli accademici escono dai laboratori ed entrano in politica? Lo ha spiegato al Consiglio generale dell’Associazione Coscioni Antonino Forabosco, professore di genetica medica all’Università di Modena e Reggio Emilia: “Gli scienziati devono avere una presenza pubblica più marcata e definita, anche per poter proseguire il loro lavoro. La presenza pubblica diviene un impegno civile per contrastare le agguerrite crociate antiscientifiche che sempre più si leveranno contro i progressi della scienza e della medicina. Il mondo dei partiti deve risvegliarsi e attivarsi subito per confrontarsi con la scienza e inserire contenuti scientifici nei programmi politici. Io credo che una risposta concreta in questo senso sia quella lanciata dall’Associazione Coscioni che progetta di organizzare un Congresso Mondiale per la Libertà di Ricerca scientifica, che si propone di indagare i meccanismi che sono all’origine di quelle percezioni distorte della scienza che favoriscono la strumentalizzazione politica di atteggiamenti irrazionali al fine di giustificare la limitazione delle libertà di ricerca e di cura e lo spazio di libertà individuale nelle scelte riguardanti la salute e la malattia”.



Attualità di Galileo e della sua condanna

• da La Repubblica del 28 novembre 2005, pag. 20

di Mario Pirani

Anche un opuscolo programmatico può essere affascinante.
E affascinato sono rimasto sfogliando l’opuscolo scritto dall’illustre astrofisica Franco Pacini dell’osservatorio di Arretri e dalla sua collaboratrice, Lara Albanese, per proporre la creazione di un centro dedicato alla astronomia contemporanea. Il progetto, già corredato da uno studio di fattibilità, dovrebbe dar vita ad uno spazio integrato, intitolato la “Città di Galileo”, nello splendido parco della Torre del Gallo, un castello poco lontano dalla casa, denominata “Il Gioiello”, dove il grande scienziato, condannato per eresia e confinato, trascorse gli ultimi anni della sua esistenza. Il centro sede di ricerca e diffusione della cultura scientifica comprenderebbe anche l’osservatorio, un planetario modernissimo, un parco scientifico, un museo innovativo sul modello dell’Exploratorium di San Francisco dove gli strumenti messi in mostra possono essere toccati e utilizzati, una “torre delle stelle”. Da qui, con Firenze per sfondo, i visitatori potranno, attraverso un computer, collegarsi a un telescopio gigante, il Grande Binocolo costruiti in Arizona dagli astronomi di Arretri, e osservare gli anelli di Saturno o lontane galassie.

Un’iniziativa che rientra appieno in quella trasformazione del paradigma orientativo dell’economia italiana di cui altre volte abbiamo parlato che dovrebbe incentrarsi sulla valorizzazione del patrimonio più competitivo di cui disponiamo, il nostro territorio. Un bene unico in cui interagiscono splendori paesaggistici, sorgenti di cultura, città d’arte, turismo, produzione agro alimentare, artigianato e tradizione locale. Al più alto grado della qualità si collocano iniziative come quella di Arretri. Un paese che torni a credere in sé dovrebbe assumerla come obiettivo nazionale.
A meno che le elezioni non siano inaspettatamente vinte (lo dico per scaramanzia!) dalla CdL, che nei loro elaborati ideologici sono giunti persino a rivalutare l’Inquisizione e che farebbero probabilmente pagare al professor Pacini il peccato di aver ripubblicato, nell’opuscolo di cui sopra, la sentenza del Tribunale del Sant’Uffizio e sottolineato come l’iniziativa si stata prevista per il 400 anniversario della scoperta che la Terra non è l’unico mondo dell’Universo. Mi affretto quindi a riprodurre anche per i lettori di questa rubrica che non l’avessero sottomano, il celebre documento di condanna. Eccolo:

“Diciamo, pronuntiamo, sententiamo e dichiariamo che tu Galileo suddetto, per le cose dedotte in processo e a te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Off.o, veementemente sospetto d’heresia, cioè d’haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il Sole sia il centro della terra e che non si muova da oriente a occidente, e che la terra si muova e non sia al centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura, e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni et altre costituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, purché prima, con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li suddetti errori et heresie et qualunque altro errore et eresia contraria alla Cattolica et Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà data. Et acciocché questo tuo grave e pernicioso errore e trasgressione non resti impunito, et sii più cauto nell’avvenire et esempio all’altri che si astenghino da simili delitti, ordiniamo che per pubblico editto sia prohibito il libro de’ Dialoghi di Galileo Galilei”. La ben nota abiura permise a Galileo di evitare un destino peggiore e di ritornare in esilio nella casa sul colle di Arretri dove morì l’8 gennaio 1642, quando le sue opere erano riconosciute in Europa ma restavano vietate in Italia. Il Dialogo sui Massimi Sistemi – ricorda sempre l’opuscolo – fu cancellato dall’Indice dei libri proibiti solo nel 1835.

Successivamente, nel 1992, la conclusione di un nuovo processo ecclesiastico ha portato alla riabilitazione completa di Galileo circa un quarto si secolo dopo la discesa dell’uomo sulla Luna.
Chissà quanti anni dovremmo attendere perché la ricerca sulle staminali, l’utilizzazione degli embrioni, la libera procreazione assistita, l’uso degli anticoncezionali non siano più considerati eresie. La differenza sta nel fatto che i divieti non vengono più emanati dal Sant’Uffizio ma “suggeriti” dal papa o dal cardinal Ruini agli organi dello Stato repubblicano.

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STATO E CHIESA
Incontinenza religiosa


• da La Stampa del 27 novembre 2005, pag. 1


di Barbara Spinelli

Quando il contrasto tra esigenze e opinioni diverse viene vissuto come sconfitta, quando smette di esser visto come un elemento che feconda le democrazie e si comincia a giudicarlo mortifero, quando lo si vuol sradicare per non averlo saputo governare, fa apparizione nella storia europea quello che Karl Popper ha chiamato - dandogli un colore negativo - mito della cornice. L'incontro con chi la pensa in modo differente dal mio o ha bisogni diversi dai miei diventa impossibile e minaccioso, se tra me e l'altro non pre-esiste una cornice comune di valori che hanno il proprio fondamento non solo nelle leggi, nelle costituzioni, nella politica, ma essenzialmente nella cultura e nella religione. Ma la cornice deve fondarsi su valori non prevaricatori da parte di una maggioranza o una religione. Il rispetto dell'altro non è negoziabile e tuttavia va sempre ridiscusso e riorganizzato, se si vuole che il nemico della società aperta (il cannibale descritto da Popper) sia persuaso. Chi mitizza la cornice vede in essa qualcosa di eternamente statico, fondato esclusivamente sul vocabolario ultimo di Dio (o meglio: sull'idea che ci si fa del vocabolario ultimo di Dio). Per costoro, cultura e religione prevalgono su costituzioni e leggi, come cemento destinato a tenere assieme gli individui, gli Stati, e quell'insieme di nazioni che hanno deciso di fondare un'unità superiore come accade nell'Unione europea.

Va da sé che cultura e religione sono, in simili casi, quelle di chi auspica la cornice intesa come prevaricazione: in Occidente sono la cultura e la religione cristiane, considerate uniche vere garanti delle unità nazionali e sovranazionali. Va da sé che i garanti in questione si sentono chiamati a far politica al posto dei politici classici, e non solo si sentono chiamati ma giustificati: senza la loro continua interferenza, il politico d'oggi non saprebbe che dire, come decidere. È così che le correnti dell'ortodossia radicale cristiana (gli evangelicali da cui sono scaturiti i theo-con) hanno preso il potere negli Stati Uniti, stringendo un'alleanza con Bush e lanciandosi con lui in una guerra mondiale tra culture. Lo stesso accade ultimamente in alcuni paesi dell'Unione europea, specie in Italia e Polonia. In ambedue i casi siamo di fronte a una variante dei fondamentalismi musulmani e anche ebraici. Una variante meno violenta ma che alla lunga può avere effetti nefasti, sulle religiosità individuali e sulla Chiesa stessa. Una variante che s'esprime in forme d'incontinenza patologica, a giudicare dalla sistematicità con cui la religione viene mescolata alla cosa pubblica.

I promotori della cornice prevaricatrice sono in Italia parti importanti del clero, a cominciare dalla Conferenza episcopale e dal suo presidente Ruini. In Polonia è la maggioranza politica guidata dai fratelli Kaczynski a esigere che l'Unione europea accetti l'incontinenza cattolica polacca come comune e uniforme tavola delle leggi. Al patriottismo costituzionale, che l'Europa voleva darsi e che avrebbe fatto fallimento a seguito dei referendum in Francia e Olanda, occorrerebbe ora sostituire un patriottismo cristiano, di carattere culturale. Forse vale la pena ricordare che il patriottismo costituzionale non è un'invenzione delle sinistra e di Habermas. Fu coniato dal filosofo Dolf Sternberger - antinazista, conservatore - in un articolo sulla Frankfurter Allgemeine del 23-5-1979.

In Italia va sempre più crescendo, quest'interferenza di parte del clero nella politica e nelle deliberazioni dei partiti, di governo e d'opposizione. È un immischiarsi ormai quasi quotidiano: nelle leggi e nei referendum sulla fecondazione assistita come sulla devoluzione, nelle procedure che regolano l'interruzione della gravidanza come nelle riforme costituzionali, nelle unioni di fatto come nell'uso giudiziario delle intercettazioni telefoniche e perfino nella scelta di chi dirige la Banca d'Italia. Il giurista Gustavo Zagrebelsky ha descritto con preoccupazione quest'attacco ai fondamenti laici della costituzione italiana, dovuta a due fattori concomitanti: l'indebolirsi della separazione fra politica e religione che il Concilio Vaticano II aveva sancito, e lo svuotarsi del preambolo sulla laicità della costituzione. È per questa via, secondo Zagrebelsky, che alcuni in Vaticano vorrebbero trasformare il cattolicesimo in religione civile, come in America. Costoro si sentono giustificati a intervenire nella politica perché giudicano la politica priva di idee integratrici forti (la Repubblica, 25-11-2005).

La scarsa legittimazione del potere politico e il venir meno di un partito cattolico è all'origine di quest'intromissione di parti consistenti del clero nella politica italiana: un'intromissione che avviene all'insegna della dismisura, che è ormai interferenza diretta perché non più mediata dalla Dc, e che al tempo stesso è profondamente selettiva. Il potere ha bisogno di sentirsi legittimato da autorità religiose perché in fondo si ritiene delegittimato: questo è vero non solo per Berlusconi ma anche per gli eredi del Pci (i Ds), per Rifondazione di Bertinotti, e per quei cattolici che pur essendo minoritari nei due schieramenti aspirano all'egemonia culturale. Ma anche i rappresentanti della Cei credono di avere bisogno della politica, per conquistarsi una legittimazione. L'esasperata ansia di rendere la Chiesa politicamente visibile rivela una condizione di sfinimento, di non-autosufficienza. La Chiesa come la vede Ruini non si sente abbastanza profetica, e per questo si erge a Chiesa del potere quasi senza accorgersi che nello stesso momento in cui ha l'impressione di ergersi, si degrada. È una Chiesa che non riesce a evangelizzare, che cerca le stampelle nei palazzi politici e che si trasforma in lobby, assetata di esenzioni fiscali e privilegi come altre lobby. È una Chiesa che riduce la religione all'etica, ma che nelle stesse battaglie morali si mostra oscuramente selettiva. La lobby ha i suoi rappresentanti nella Conferenza episcopale e in uomini come Lorenzo Ornaghi, già allievo-consigliere dell'ideologo leghista Gianfranco Miglio, oggi consigliere di Benedetto XVI e rettore della Cattolica (un articolo illuminante è apparso ieri su questo giornale, firmato da Giacomo Galeazzi), e l'etica è da essa usata in funzione di quel che si prefigge come lobby. Pronta a battersi su embrioni o aborto, il suo silenzio è totale sulla morale del politico: sulla corruzione, la mafia, il crimine che si mescola al potere, la Conferenza episcopale è muta, abissalmente. Le parole violente di Giovanni Paolo II contro la mafia - il Convertitevi! lanciato nella valle dei templi ad Agrigento dodici anni fa - è da anni introvabile nel sito internet del Vaticano.

Questa debolezza del cristianesimo che si nasconde dietro l'affermazione di un potere politico non unisce la Chiesa ma la lacera, oltre a minare la religiosità delle coscienze. Le iniziative ecumeniche di Assisi sono messe in forse dalla decisione di togliere l'autonomia alla basilica. Esperienze non ortodosse faticano a esistere. Ed è significativo l'allarme accorato, forte, con cui uomini della Chiesa reagiscono alla sua trasformazione in lobby. È il caso di Monsignor Casale, arcivescovo emerito di Foggia. In un'intervista al Corriere del 25 novembre, Casale insorge contro la benedizione impartita dal vescovo Fisichella a Casini: «Torna con insistenza una concezione della cristianità che il Concilio ci aveva fatto superare, l'idea della Chiesa difesa da uno Stato che ne tutela i valori. Ma noi dovremo esser difesi solo dalla parola di Dio».

La Conferenza episcopale che promuove partiti, candidati: secondo Casale, molti tra coloro che guidano la Chiesa «fanno un'opera di supplenza che sta diventando eccessiva e pericolosa», e che provocherà possenti reazioni anticlericali. Tanto più che l'interventismo è, appunto, selettivo: la Chiesa interviene su embrioni «ma non si occupa dei bambini che muoiono di fame o non hanno né casa né scuola, della giustizia sociale, della pace». Così come è concepita da parte dei propri vertici, la Chiesa «si ritira nelle trincee dell'Occidente» e si fa fondamentalista, pur di fuggire i nuovi compiti connessi alla propria debolezza. È una linea di condotta pericolosa: per la religione, la Chiesa, la politica. E lo è anche per l'Europa, perché il mito della cornice prevaricatrice tende a escludere chi la pensa e crede in modo diverso, e rischia di sfociare in guerre tra culture. Guerre tra culture e religioni che l'Europa ha conosciuto in passato, e cui nel secolo scorso ha tentato di rispondere con una Comunità che per definizione è incompatibile con una cultura religiosa omogenea. L'Europa ha certo radici cristiane ma il suo patriottismo difficilmente potrà essere altro che costituzionale, essendo plurale.

Ha detto giustamente lo storico delle religioni Jeffrey Stout, nel suo bel libro su Democrazia e Tradizione, che il problema non è di sapere se le Chiese possono o non possono esprimere con forza le loro opinioni su temi delicati come aborto, fecondazione artificiale, divorzio. La libertà d'opinione e di religione consente a ciascuno di dire la propria convinzione. Viviamo in società dove la politica è stata secolarizzata dal XVII secolo, ma questa secolarizzazione obiettiva non si identifica in alcun modo con le dottrine secolariste che bandiscono la religione dalla conversazione cittadina. Il problema non nasce a causa dei temi di società su cui parte delle gerarchie ecclesiastiche intervengono sistematicamente, e non concerne neppure il loro diritto a parlare. Il problema sono gli interlocutori e gli alleati che tali gerarchie si scelgono: e gli interlocutori non sono le coscienze dei singoli, ma i poteri politici su cui si esercitano pressioni. Il problema è l'aspirazione a imporre una comune cornice basata sulla religione a società obiettivamente plurali, nelle nazioni e anche nell'Unione europea. È un'aspirazione che Stout considera del tutto irrealistica, solo ideologica, a meno di non optare per una coercizione che il cristianesimo ormai da secoli respinge (Jeffrey Stout, Democracy and Tradition, Princeton 2004).

Per una parte della Chiesa - e pensiamo qui al clero polacco - l'Unione europea è invisa proprio per questo: perché con la sua pluralità, con l'indispensabile secolarizzazione della sua politica, l'Europa è incompatibile con il mito di una cornice cristiana imposta a tutti. Il potere di lobby, le Conferenze episcopali locali lo esercitano meglio dentro gli Stati, restando per il resto, come in Polonia, uniche depositarie di un'autorità universalista. La difesa della cultura religiosa rischia di non differenziarsi molto, in simili casi, dalla difesa di un'etnia. Anche questa difficoltà di accettare l'Europa laica e plurale, da parte di alcuni frammenti del cattolicesimo, è un problema per la Chiesa tutta intera. Il pericolo che essa corre è l'affievolirsi delle fedi, l'emergere di un anticlericalismo vero, lo spreco di un patrimonio universalista impareggiabile, e lo stesso vocabolario ultimo delle Sacre Scritture.


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ANNIVERSARI

Quelli che non mollarono

• da Tuttolibri del 26 novembre 2005, pag. 8

di Angelo d’Orsi

Nel 1925 in Italia si giocò l'ultima partita fra libertà e tirannide. Avrebbe vinto Mussolini, mettendo in mora lo Stato liberale per un ventennio, ma l'antifascismo, a prezzo di sacrifici enormi, seminò e anche se la Resistenza armata, nel '43-'45, non sarebbe stata la sua prosecuzione, certo ne avrebbe tratto incitamento e linfa. Furono eroiche minoranze quelle che tentarono, con mezzi scarsi e nessuna professionalità della lotta clandestina, di opporsi alla devastazione delle istituzioni liberali, al conculcamento dei più elementari diritti civili e politici, alla violenza cieca di un movimento che stava, con la complicità della Monarchia, dell'esercito, della magistratura (con pochissime, lodevoli eccezioni), trasformandosi in regime.

Una delle ultime battaglie fu condotta da un manipolo di coraggiosi nella Firenze in cui esercitava il suo magistero quegli che era una delle poche personalità di respiro internazionale della cultura italiana, Gaetano Salvemini. Oppositore intransigente al fascismo, Salvemini cominciò a subire minacce e vessazioni nel suo lavoro di docente di Storia all'Università di Firenze, al punto da essere costretto alle dimissioni, per salvaguardare prima che l'incolumità fisica, la dignità del proprio insegnamento, che per lui era una autentica missione di verità. Ma accanto all'amore per la ricerca, in Salvemini viveva una fortissima passione politica, che nel momento della crisi finale della libertà italiana lo indusse ad associarsi ad altri, come Ernesto Rossi, Nello Traquandi, i fratelli Rosselli, a tentare un'azione di disturbo nei confronti della marcia trionfale del fascismo.

Ne nacque il Non Mollare, "primo esperimento di giornalismo clandestino in epoca fascista", come osserva Mimmo Franzinelli, curatore di una preziosa ristampa anastatica del foglio, con le note (almeno agli specialisti) prefazioni di Salvemini, Rossi e Calamandrei. Il giornale stampato alla macchia, in 1500 esemplari, distribuito di mano in mano ("Chi riceve il bollettino è moralmente impegnato a farlo circolare", si legge in testata), ebbe la sua ragion d'essere nella voglia di smascherare le infinite menzogne del nascente regime, sia pure a pochi, impegnati però a diventar portavoce di quel che leggevano, in una vera e propria catena di verità, che da Firenze giungeva alla Milano di Parri e Bauer.

Il giornale, il cui titolo era un invito pressante a non rassegnarsi ideato da Nello Rosselli, era una serie puntuale di denunce, spesso condite di sarcasmo, delle malefatte fasciste. Contro l'accomodante silenzio dei più, contro il rinunciatario perbenismo dei benpensanti, la pattuglia fiorentina sfidò la sorte, impavida, a dispetto di un clima persecutorio.

Il Non Mollare stampò e distribuì ben 22 numeri, tra il gennaio e l'ottobre del '25. La lettura non facilissima, trattandosi, come in un paio di precedenti edizioni degli Anni Sessanta, di un reprint di fogli malstampati e fortunosamente salvati - è davvero istruttiva. Ne emerge la miseria di quella che si candidava ad essere classe dirigente dell'Italia in camicia nera: tanti signor nessuno che si facevano strada con manganello, revolver e olio di ricino, protetti da una vergognosa immunità.

Sbaglierebbe però chi ritenesse che si tratti di un giornaletto di satira antiregime. Il lavoro svolto dal Non Mollare fu invece quello di una forte, precisa documentazione: una vera e propria controinformazione rispetto alle voci allineate e coperte di un giornalismo corrivo al potere. Una lezione oggi più che mai attuale. Contro i regimi l'antidoto più efficace è la verità. Ma la verità ha un prezzo, che può essere anche altissimo: fra gli artefici del Non Mollare, Salvemini dové rinunciare alla cattedra e fu vergognosamente trattato dai suoi colleghi universitari, espatriando, dopo essersi fortunosamente sottratto agli scherani del duce; Rossi e Traquandi passarono lunghi anni fra carcere e confino; sui Rosselli si abbatté, nel '37, la vendetta di Mussolini, trucidati da sicari francesi; Dino Vannucci anch'egli scampato per poco alla furia degli squadristi, riuscì ad espatriare; Poggi e Ramorino se la cavarono con un regime di sorveglianza speciale, mentre Calamandrei passò indenne la tempesta; assai peggio andò a Giovanni Becciolini, impiegato, Gustavo Console, avvocato, e Gaetano Pilati, operaio socialista, eletto alla Camera nel '19, trucidati barbaramente dalle camicie nere.

Il processo finì in una burla, come tutti quelli che durante il Ventennio videro imputati i fascisti. Nomi - tranne, i Rosselli, Salvemini, Calamandrei e Rossi - caduti ingiustamente nel cono d'ombra della storia, mentre andrebbero ricordati ogni giorno, e non solo nelle ricorrenze, come questa degli 80 anni dal "Bollettino d'informazioni durante il regime fascista": autentici eroi della libertà.


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LIBERTA’
“Castro come Pinochet”
Gelo tra Zapatero e Cuba

Il ministro della Difesa spagnolo paragona il líder máximo al dittatore cileno. Convocato l'ambasciatore. «Fidel è molto arrabbiato».

• da Corriere della Sera del 1 dicembre 2005, pag. 21
di Mino Vignolo


Fidel Castro è molto arrabbiato con il suo amico Zapatero. Non è gli è piaciuta per niente l'equiparazione al dittatore cileno Pinochet, tanto più che il paragone è stato fatto da un ministro di un governo, quello spagnolo, che si è adoperato fin dall'inizio del mandato per superare le frizioni dell'era Aznar e per normalizzare le relazioni fra Cuba e Ue. Il ministro degli Esteri cubano ha convocato l'ambasciatore spagnolo all'Avana per esprimere il suo profondo «rammarico» in una protesta formale, chiedere spiegazioni ed esigere una rettifica dopo le dichiarazioni del ministro della Difesa spagnolo José Bono che, in missione a Caracas per assistere alla firma di un contratto di vendita di aerei e navi militari al Venezuela, aveva parlato del controverso presidente venezuelano Hugo Chavez, visto come il fumo negli occhi dall'Amministrazione Bush, di Castro e di Pinochet.


«Chavez — ha detto — può piacere o non piacere però non è arrivato al potere come Fidel Castro o come Pinochet. Ci è arrivato con le elezioni e ci resta con le elezioni. E' qualcosa che vale di più che l'opinione che possa avere un governo o un signore particolare sulla democrazia venezuelana». Il ministro della Difesa Bono, famoso per le sue uscite estemporanee e poco diplomatiche, si riferiva al governo USA che, tramite l'ambasciatore a Madrid, aveva manifestato il suo malessere per le forniture militari ad un leader come Chavez che, secondo gli americani, vuole esportare la sua «rivoluzione bolivariana» ad altri Paesi latinoamericani e che è «un fattore destabilizzante nella regione». Il governo Zapatero, attratto dal pingue contratto da due miliardi di dollari, non ha tenuto conto delle pressioni Usa ed ha, secondo il loquace Bono, «riaffermato la sua sovranità». Le parole del ministro della Difesa sono volate all'Avana e l'ambasciatore spagnolo è stato immediatamente convocato al ministero degli Esteri. Il paragone fra Castro e Pinochet risulta odioso agli occhi del regime dell'isola caraibica che non si vede allo specchio come una dittatura. Come è logico, il governo di Cuba esige ora dal governo spagnolo che Bono rettifichi le sue affermazioni.


Non è facile che ottenga soddisfazione perché da fonti a lui vicine sembra che Bono non voglia ritrattare niente. Salvo che non arrivi un ordine di Zapatero. Bono pensa che non vi sia niente da rettificare, a meno che non si dimostri l'impossibile: che Castro ha conquistato il potere attraverso libere elezioni. Il líder máximo, dicono le stesse fonti, può rispondere pubblicamente e spiegare perché il Cile è stato una dittatura sotto Pinochet e Cuba non è una dittatura sotto Castro. Il ministro Bono ha creato un caso in un momento in cui il governo è sulla difensiva su diversi fronti. Il premier Zapatero ne avrebbe fatto volentieri a meno, anche perché la polemica con Cuba porta alla luce i rapporti non facili che esistono fra il populista, e molto popolare, ministro della Difesa e il poco popolare ministro degli Esteri Moratinos, che paga lo scarso peso all'interno del Partito socialista. Moratinos, che si era opposto alla vendita di materiale militare a Chavez, non è stato ascoltato da Zapatero. Il ministro degli Esteri avrebbe dovuto uscire rafforzato dal vertice euromediterraneo di Barcellona ma il mezzo fallimento della riunione non gli permetterà di alzare la voce contro il protagonismo in politica estera del suo collega Bono.





DOCUMENTI

Socialismo liberale (2.)


di Carlo Rosselli


Sei anni dopo, rendendo conto di una lunga geniale recensione della sua opera, fa sua esplicitamente la frase del finissimo critico russo: “Marx considera il movimento sociale come una risposta a leggi che non solo sono indipendenti dalla volontà dalla coscienza e dai disegni dell’uomo, ma che invece determinano la sua volontà, la sua coscienza ed i suoi disegni…”. Bernstein certo protesterebbe in modo veemente contro questa sintetica interpretazione. Ma Marx, che è l’unico e più vero giudice in materia, non solo non protestò, ma la fece sua con compiacenza, lodando l’autore per la sua acutezza.



Si potrebbero citare in numeri brani di Marx a conforto di questa interpretazione deterministica. Ma più che le parole vale lo spirito generale che pervade l’opera sua, la impostazione di tutti i problemi che egli ebbe ad affrontare. La necessità della polemica contro gli utopisti e gli ideologi borghesi, potranno aver indotto Marx – secondo [ ] riteneva Engels nella sua vecchiaia – ad accentuare l’aspetto deterministico del sistema; non mai però a capovolgerne l’aspetto essenziale.



Certo il determinismo marxista ha un valore tutto convenzionale e relativo. Quando Marx dichiara le forze materiali di produzione fattore determinante del processo storico, egli si arresta consapevolmente ad un anello della catena deterministica. Ma non è che ignori le maglie antecedenti: Marx ha insistito più volte sull’influsso dei fattori naturali e ambientali, e, in special modo, sulla razza. Solo che assume questi dati come costanti. Ciò che lo interessa sono le variazioni dei fenomeni sociali all’interno di questo ambiente che assume come fisso, e la legge di queste variazioni. Ad esempio: i caratteri naturali e antropologici della regione britannica possono a buon diritto considerarsi come costanti nel periodo 1760-1839. Si domanda a che sono dovute le profondissime trasformazioni seguite nei rapporti sociali inglesi, e, più in generale, i fondamentali eventi storici del periodo. Marx senza esitazione risponde: alla trasformazione del modo di produzione. E’ ben noto quale enorme influenza esercitò su di lui e su tutti gli scrittori del periodo l’esperienza della rivoluzione industriale, in cui veramente la macchina e il sistema di fabbrica si rivelarono come i demiurghi. Ma è anche ben noto come Marx non azzardò mai la dimostrazione della sua tesi storiografica generale, la quale è frutto di un’arbitraria estensione analogica delle conclusioni cui era pervenuto nella possente analisi dei primordi del sistema capitalistico.



Ora il problema centrale del marxismo, come dottrina del moto proletario, sta nel ruolo che esso assegna all’elemento umano, al fattore volontà.



Nel periodo giovanile Marx, sotto l’influsso di Feuerbach, aveva rivendicato il carattere puramente umano della storia contro ogni alienazione a favore di forze trascendenti. Ma questa rivendicazione, dapprima piena e sostanziale, perde via via di contenuto e di significato col precisarsi della sua dottrina, sino a ridursi ad un residuo tutto polemico e formale. Nel sistema marxista abbiamo a che fare con una umanità sui generis, composta di uomini per definizione non liberi, operanti sotto la spinta del bisogno, costretti a ricorrere a metodi produttivi indipendenti dal loro volere e ad accedere a rapporti sociali imperativi. Essi hanno un solo titolo per essere considerati fattore efficiente del processo storico: l’essere parte integrante del meccanismo produttivo. Gli altri aspetti sono derivati e secondari, funzione dello sviluppo delle forze produttive. E solo acquisteranno pieno valore e autonomia funzionale in una società comunista, perché allora, e solamente allora, si libereranno della schiavitù verso le forze materiali. Psicologicamente parlando, l’uomo di Marx non è che l’homo oeconomicus di Bentham. Questa è la sua costante psicologica, allo stesso modo della razza, del clima, ecc. Le reazioni che questo homo oeconomicus offre non sono reazioni spontanee ed autonome, ma determinate dal modificarsi dei rapporti produttivi e quindi dei rapporti sociali. E appunto partendo da questa costante psicologica che Marx assume come pacifico che i proletari si rivolteranno non appena si saranno loro rivelati lo stato di soggezione in cui versano e le cause di questa soggezione. Ma è chiaro che la causa determinante di questa rivoluzione interiore non risiede in loro, ma nel meccanismo esteriore della produzione capitalistica.



L’intimo fuoco del marxismo sta tutto in questo concetto della necessità storica dell’avvento della società socialista, in virtù di un processo obbiettivo e fatale di trasformazione di cose (Anche le coscienze si modificheranno ma secondo una linea necessaria e prestabilita dalla “costante psicologica”. Togliere o attenuare questo concetto significa far crollare l’intero sistema. Se davvero Marx avesse assegnato alla volontà umana una influenza autonoma nello svolgersi del processo storico; se, come vogliono i revisionisti, avesse affermato che tra le forze materiali di produzione e coscienza sociale il rapporto è di interdipendenza e non di causa a effetto – come avrebbe potuto enunciare con tanta categorica certezza la sua legge di sviluppo del capitalismo? (Per farlo avrebbe dovuto possedere una eguale categorica certezza intorno alle leggi dominanti la vita intima e il meccanismo psicologico degli uomini. Ma donde avrebbe tratto questa certezza? La psicologia sperimentale è una scienza giovane; e anche oggi siamo ben lungi dal possedere certezze categoriche in materia. Marx si è sempre disinteressato dei problemi di psicologica individuale e collettiva). Sarebbe assurdo che Marx avesse dedicato tutta la vita una faccia del problema – quella relativa al mondo esteriore – e si fosse invece totalmente disinteressato dell’altra faccia, relativa al mondo della coscienza.



E’ chiaro che l’introduzione del fattore “volontà umana” nel processo storico, significa escludere a priori ogni valore scientifico a una previsione sociologica. Infatti o si ammette una sfera di libertà, per quanto condizionata, nella vita dello spirito, nel modo d’essere della coscienza, o non la si ammette. Se la si ammette cade il concetto di necessità storica, e sorge l’alternativa. Si introduce cioè quell’elemento di dubbio che nel sistema marxista difetta totalmente. O non si ammette questa sfera di libertà, cioè si ritiene che la volontà umana, date le circostanze, debba dirigersi in un senso determinato e allora la volontà umana, nel suo manifestarsi, viene ricacciata al rango di effetto e non più di concausa. In ambo i casi il tentativo di conciliare il sistema marxista con una interpretazione non deterministica, cade.



Ci sono inoltre varie altre prove indirette del determinismo implicito nel sistema marxista. Se Marx avesse assegnato una influenza autonoma e determinante alla volontà umana, non si spiegherebbe il suo scherno per tutti coloro che appoggiavano le rivendicazioni proletarie sul terreno della morale e del diritto. Se la volontà deve intervenire, tutti gli stimoli che concorrono a volgerla nel senso auspicato debbono essere potentemente incoraggiati. Invece egli considera come potentemente errata e pericolosa una propaganda socialista facente appello a un principio di giustizia.



In Marx è sempre presente la preoccupazione di tradire, nell’impeto della polemica, il fondo storicistico del suo pensiero. Egli ha sempre cura di avvertirci che il suo punto di vista “meno di qualsiasi altro” può rendere l’individuo responsabile dei rapporti dai quali egli socialmente deriva, “checché faccia per districarsene”. Le leggi immanenti della produzione capitalistica si impongono ai capitalisti come “leggi coercitive esterne”. La loro volontà è fuori gioco. E’ bene anzi che essi non tentino di ribellarsi al ruolo che loro impone la dialettica storica. Perderebbero il loro tempo e ritarderebbero i futuri svolgimenti.



Il proletariato, dal suo canto, non può accusare il capitalismo in linea morale e giuridica. Morale e diritto sono categorie storiche, puri riflessi delle correlative strutture economiche. I capitalisti hanno le carte in regola con la morale e il diritto propri dell’era capitalistica. Se sfruttano i proletari, cioè se pagano loro una frazione del valore che producono, non fanno che obbedire alle “leggi immanenti” di scambio in regime capitalistico. Per essere a posto coi principi economici, giuridici e morali del capitalismo il capitalista non ha che da fornire al salariato i mezzi – in moneta – per vivere e riprodursi. Se si comportasse diversamente egli verrebbe meno alla sua funzione sociale di “fanatico agente dell’accumulazione”. Il lavoratore non può protestare. Se egli perde il sovrappiù di valore che il lavoro umano – e solo esso – ha la virtù di produrre, lo perde per una necessità storica inderogabile. Il profitto è altrettanto naturale, in questa fase storica, quanto il macchinismo, la divisione del lavoro, il sistema di fabbrica, il salariato, il mercato mondiale, le crisi…i borghesi, scrive sempre Marx, hanno perfettamente ragione di sostenere che l’odierna ripartizione è “giusta”, perché in realtà “essa è l’unica giusta ripartizione sulla base della odierna forma di produzione”.



Non a torto si definì “Il Capitale” la più intransigente apologia del Capitalismo!



Il “Manifesto dei Comunisti”, commenta il Labriola, è tutto prosaico; non v’è in esso né retorica né proteste. Esso è ora una scienza. Non lamenta sul pauperismo per eliminarlo. Non sparge lacrime su niente. Le lacrime delle cose si sono trasformate per se stessa in forza rivendicatrice spontanea. L’etica e l’idealismo consistono ormai nel mettere il pensiero scientifico al servizio del proletariato.



In verità Marx è così convinto del fatale avvento della società comunista ad opera della legge di sviluppo del capitalismo che, allo stesso modo dello scienziato e dei suoi esperimenti,sommamente si preoccupa di eliminare dal giuoco sociale tutti i fattori capaci di turbare o rallentare il pieno esplicarsi di quella legge. E, in primo luogo, i residui sentimentali e moralistici. Tutte le norme tattiche e tutto il programma pratico da lui consigliato ai partiti socialisti rispondono a questo scopo fondamentale: accelerare, facilitare, il processo di sviluppo capitalistico. Il suo discorso sul libero scambio fornisce un esempio tipico.



Una sola forte obbiezione si oppone alla interpretazione deterministica del marxismo. La teoria della lotta di classe. Come si spiega lo sforzo di Marx per svegliare la coscienza di classe nei proletari, la sua stressa invocazione rivoluzionaria, se la parte riservata agli uomini nel processo storico è puramente passiva?



Qui è d’uopo distinguere tra la formulazione generale della teoria della lotta di classe – in nulla contraddicente alla linea deterministica del suo pensiero – e la applicazione particolare che egli ne ha fatto al caso della lotta tra proletariato e borghesia. In linea generale Marx si limita ad affermare che la lotta di classe è il risultato necessario del contrasto esistente nelle cose stesse,la faccia umana della dialettica immanente nelle cose. Egli avverte che la rivoluzione formale, esteriore, nei rapporti sociali, scoppia solo quando quella sostanziale, nel modo e nella tecnica produttiva, è già avvenuta. Per Marx la reazione psicologica è un posterius, segue il fatto economico come l’ombra la luce; e il fatto economico, ricordiamolo, non è il frutto di una volontà libera, ma di una volontà istintiva, schiava, dominata dal bisogno. Sarà una concezione psicologica molto semplicista e volgare, ma indubbiamente essa sta alle radici della costruzione marxista. E Marx vi annette tanta poca importanza che mai ne parla di proposito.



Nella applicazione della teoria generale al caso particolare della lotta tra proletariato e borghesia, non si può invece negare che Marx abbia abbandonato talvolta, specie negli scritti di propaganda, la posizione deterministica, salvo tornarvi nelle esposizioni più pacate e riassuntive del suo sistema di pensiero. Ma ciò, oltre che esser dovuto all’intimo contrasto tra la sua natura di scienziato e di agitatore, era in funzione anche del dubbio che egli nutriva intorno alle conseguenze della lotta che appena cominciava a disegnarsi. Mentre per il passato egli poteva sicuramente affermare che il contrasto era sempre terminato col trionfo della classe che, interpretando le esigenze produttive, esplicava una funzione rivoluzionaria, per l’avvenire il suo senso storico gli vietava una ipoteca troppo assoluta. Cosicché a lato della ipotesi normale egli affacciava anche l’ipotesi che la lotta potesse risolversi con l’esaurimento dei due contendenti, magari per difetto di consapevolezza storica sul proletariato. Con questo dubbio si concorreva a legittimare lo sforzo per la propaganda, l’organizzazione e l’azione insurrezionale; e in questo dubbio - dovuto a cause ben complesse – sta invero l’unico momento volontaristico del sistema. Si osservi inoltre che questo momento finale volontaristico è, psicologicamente, il prodotto della assiomatica credenza di Marx che l’ora ultima del capitalismo, almeno in Inghilterra, stesse per suonare: cioè che si fossero maturati in seno alla vecchia società, sempre più incapace a risolvere i massimi problemi della vita sociale, gli elementi obbiettivi che soli avrebbero assicurato le possibilità di vita alla società comunista.



Lo stimolo fondamentale del processo rivoluzionario, anche nella sua ultima, drammatica fase, non sta davvero nella propaganda e nel progressivo schierarsi della coscienza proletaria, ma nel drammatico cozzo degli elementi contraddittori che il capitalismo rinserra. E’ il catastrofismo, cioè il fenomeno della universale proletarizzazione, del progressivo immiserimento, dell’accentramento dei capitali in poche mani, delle crisi sempre più incontenibili – che provoca eccita esaspera la ribellione proletaria e consente al profeta una sicurezza messianica. La propaganda ha l’ufficio di accelerare il processo, eliminare gli ostacoli; non mai di determinarlo. E’ il coronamento di un complesso di cause anteriori e da esse indipendenti: senza di che risulterebbe impotente e sterile. Il posto che Marx fa all’elemento volontà è quindi limitatissimo; è più un suggello formale che una impronta sostanziale (Ripeto: il sistema marxistico è deterministico o non è. Per lo meno come sistema organico di pensiero).



(2.segue; trovi 1.su infoSocialista del 25.11.05 nel sito www.socialistitrentini.it e www.socialisti.bz.it )

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