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Memento con P.LEVI
27 gennaio 2015

Giorno della Memoria 27 gennaio
IL LIBRO ULTIMO,PER IL GIORNO DELLA MEMORIA 27 GENNAIO/ recensione al libro di Primo Levi “I sommersi e i salvati”
-di Nicola Zoller

Primo Levi fra le sue memorie sulle esperienze estreme compiutesi nei lager nazisti, dedica il libro ultimo “I sommersi e i salvati” a quello che, a prima vista, sembrerebbe un personale dolorosissimo 'memento' testamentario, un’autoanalisi impietosa.

MEMENTO
di Primo Levi

Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti… . Fra i sopravvissuti, sono molto più numerosi coloro che in prigionia hanno fruito di qualche privilegio. A distanza di anni si può ben affermare che la storia dei lager nazisti è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato. La morte per fame, o per malattie indotte dalla fame, era il destino normale del prigioniero. Poteva essere evitata solo con un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio, grande o piccolo; in altre parole, un modo octroyé o conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma.
Pare proprio che a questo volgersi indietro a guardare tale acqua perigliosa siano dovuti i molti casi di suicidio dopo la liberazione. Nella maggior parte dei casi il suicidio nasce da un senso di colpa. Quale colpa? A cose finite, emergeva la consapevolezza di non aver fatto nulla, o non abbastanza, contro il sistema in cui eravamo stati assorbiti. Della mancata resistenza nei lager, o meglio in alcuni lager, si è parlato troppo e troppo leggermente… . Più realistica è l’autoaccusa, o l’accusa, di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana. Pochi superstiti si sentono colpevoli di aver deliberatamente danneggiato, derubato, percosso un compagno: chi lo ha fat to ( i kapos, ma non solo loro) ne rimuove il ricordo; per contro quasi tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso. La presenza al tuo fianco di un compagno più debole, o più sprovveduto, o più vecchio, o troppo giovane, che ti ossessiona con le sue richieste di aiuto, o col suo semplice esserci che già di per sé è una preghiera, è una costante della vita in lager. La richiesta di solidarietà, di una parola umana, di un consiglio, anche solo di un ascolto, era permanente ed universale, ma veniva soddisfatta di rado. Mancava il tempo, lo spazio, la privatezza, la pazienza, la forza… .
Fui un eletto, io, un salvato. E perché proprio io? Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza, come mi spiegò un amico religioso? Questa opinione mi parve mostruosa: potrei esser vivo al posto di un altro, a spese di un altro, che avrei soppiantato, cioè di fatto ucciso. I salvati del lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un me ssaggio: quanto avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Di preferenza sopravvivevano - ripetiamolo - i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaborazionisti della zona grigia, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi testimonianza. L’ho fatto meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo; ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi, mi inquieta, perché non vedo proporzione fra il privilegio e il risultato.
Lo ripeto, non siamo noi superstiti i testimoni veri. È questa la nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare o è tornato muto; ma sono loro, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione.
Sotto altro cielo, e reduce da una schiavitù simile e diversa, lo ha notato anche Solzenicyn: “Quasi tutti coloro che hanno scontato una lunga pena e con i quali vi congratulate perché sono dei sopravvissuti, sono senz’altro dei pridurki o lo sono stati per la maggior parte della prigionia. Perché i lager sono di sterminio, questo non va dimenticato”.
Nel linguaggio di quell’altro universo concentrazionario - conclude Levi - i pridurki sono i prigionieri che, in un modo o nell’altro, si sono conqu istati una posizione di privilegio.

NON ERANO MOSTRI,
AVEVANO IL NOSTRO VISO


Queste strazianti riflessioni tratte e parafrasate da “I sommersi e i salvati” collocano l’autore - Primo Levi - in una posizione scomoda, insopportabile. Egli non può considerarsi un testimone integrale, proprio perché è un superstite: testimoni veri potevano esserlo solo i sommersi. Ma questi erano morti. Ed anche se qualcuno di loro fosse tornato, avrebbe taciuto. Anche se avessero avuto a disposizione carta e penna, non avrebbero ugualmente testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. È il destino di Lorenzo - ha scritto Cesare Cases nell’introduzione alle “Opere” di P. Levi - il muratore italiano che ad Auschwitz aveva aiutato Levi e tanti altri. Dopo il ritorno si lascia andare e muore: il mondo lo aveva visto, non gli piaceva, lo sentiva andare in rovina; vivere non gli interessava più. E Cases termina: “Sembra che un gi orno anche Primo Levi sia arrivato a questa conclusione”.
Sì, egli è morto suicida l’undici aprile 1987: così Primo Levi si è chiamato tra i testimoni autentici, integrali, finalmente anch’egli sommerso!
Ma quest’intima, tragica, determinazione - un personale memento testamentario, dicevamo - prende la colorazione di una pubblica, tremenda, denuncia: “L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dai lager nazisti - aveva scritto Levi - è estranea alle nuove generazioni e sempre più estranea si va facendo man mano che passano gli anni”.
“Cose d’altri tempi?” si domandava Levi. È forse in questo penoso interrogativo che risiede più precisamente la disperazione estrema del salvato di Auschwitz: anche la sua prova di scrittore sull’abominio delle miserie razziste rischia di rivelarsi inutile, se su di esse cade l’oblio, se “altri” diventano i problemi da considerare più minacciosi. Eppur ricordate - ammonisce Levi - che i nostr i aguzzini “erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso… ma erano stati educati male”.
Sono queste le verità che dovrebbero inquietare sempre le occupazioni e le pre-occupazioni delle nostre comunità, se intendono essere libere. Dimenticare che il male è in mezzo a noi, significa preparare nuove catastrofi. Ma chi dovrebbe educarci al bene, se i potenziali buoni maestri ieri hanno finito per servire il male e domani potrebbero fare altrettanto? Racconta Primo Levi: “Le cronache della Germania hitleriana brulicano di casi che confermano questa tendenza: vi hanno soggiaciuto, confermandola, Heidegger il filosofo, maestro di Sartre; Stark il fisico, premio Nobel; Faulhaber il cardinale, suprema autorità cattolica in Germania, e innumerevoli altri”.
Ripeto: chi dovrebbe educarci al bene?



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