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CESARE BECCARIA E NOI -di Nicola Zoller Riviste e giornali nelle pagine culturali ci hanno ricordato che con l’anno che oggi sta per scadere è ricorso il 250° anniversario della pubblicazione del trattato di Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, avvenuta nel 1764. E’ un’opera quasi senza tempo, nel senso che ogni generazione dovrebbe leggere il trattato di Cesare Beccaria. E ognuno potrebbe far tesoro, in vario modo, degli innumerevoli spunti - sempre di mirabile attualità - che si possono trarre da questo lavoro e da quello più complessivo del Beccaria contro l’amministrazione crudele della giustizia. Ad esempio, io non mi provo qui a raccontare del trattato specificatamente, ma parlerei delle vicende che angustiarono gli ultimi anni di vita del riformatore illuminista e che coincidono con lo sviluppo positivo e, poi, con la parabola terroristica della Rivoluzione francese: per proporre un istruttivo conciso insegnamento finale. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata nell’ottobre 1789, erano stati inseriti molti principi propugnati dal Beccaria: non a caso infatti il grande milanese era diventato dai tempi della pubblicazione del suo trattato, un punto di riferimento per l’illuminismo francese ed europeo impegnato anche a rinnovare l’amministrazione della giustizia. Successe tuttavia che, nel maggio 1791, l’Assemblea nazionale francese venisse convocata per dibattere sulla pena di morte: la maggioranza, dopo aver votato in precedenza leggi liberali ed umanitarie, confermò invece in questo caso la validità della pena di morte. Beccaria ne fu rattristato, anche perché il suo nome era continuamente corso nel dibattito, soprattutto per merito del giovane deputato di Arras, Maximilien Robespierre. Questi aveva sostenuto tutte le ragioni del Beccaria contro la pena di morte, ed aveva così concluso: “Bisogna che la legge presenti sempre al popolo il più schietto modello della giustizia e della ragione. Se le leggi, in luogo di una severità calma e moderata, instaurano la collera e la vendetta, se spargono quel sangue umano che non hanno il diritto di versare, se presentano scene di crudeltà agli occhi del popolo, allora esse snaturano nel cuore dei cittadini i concetti del giusto e dell’ingiusto. L’uomo allora non è più per l’uomo un soggetto veramente sacro; e l’idea stessa dell’assassinio non ispira più lo stesso raccapriccio se è la legge stessa che ne dà esempio e spettacolo... Non si deve confondere l’efficacia delle pene con l’eccesso di severità. E’ vero invece l’opposto: le pene sono efficaci non quando sono crudeli, ma quando sono moderate. Nei paesi liberi dove le leggi penali sono più miti, i reati sono più rari. Dove invece le leggi offendono l’umanità con il loro eccessivo rigore, là si disconosce la dignità dell’uomo, e il legislatore altro non è che un padrone che comanda a degli schiavi e li punisce senza pietà. In conclusione chiedo dunque che sia abolita la pena di morte”. Abbiamo detto invece che l’Assemblea votò per confermare la pena di morte, che proprio nel 1792 cominciò ad essere comminata mediante decapitazione con il meccanismo perfezionato dal dottor Joseph Ignace Guillotin. Grave fu - ripeto - l’afflizione del Beccaria, ma anche maggior turbamento lo colse all’espandersi del “Terrore” (1793 - 1794). La Rivoluzione era ora nelle mani disperate del “Comitato di salute pubblica”, che imperversava su Parigi e sulla Francia senza alcun riguardo per la giustizia e la vita umana. E a capitanare il Comitato era stato designato proprio il Robespierre. Sì, l’uomo che non molto tempo prima - commenta Marcello Maestro, uno dei più preparati studiosi dell’opera beccariana - aveva parlato contro la pena di morte, era ora l’anima del Terrore e mandava alla ghigliottina centinaia di ex amici e seguaci in un tentativo dissennato di realizzare un ideale che esisteva solo nella sua fantasia. Alla fine la ghigliottina cadde anche su di lui, quando la Convenzione ne ordinò l’arresto e la condanna il 28 luglio 1794. Si rese conto Beccaria che il “Terrore” coi suoi terribili eccessi era una fase temporanea della Rivoluzione francese? E previde egli che dopo le estreme e spesso insensate reazioni di quel periodo, una nuova società sarebbe ritornata a quelle riforme da lui ispirate e che già erano state adottate in molti paesi? Non lo sappiamo. Cesare Beccaria morì il 28 novembre 1794, duecentoventi anni or sono. Noi sappiamo invece che nella storia si sono ripetuti casi analoghi a quelli di Robespierre: personalità gentili e miti, trasformatisi di lì a poco in forcaioli tagliagole; e non solo ex “miti giacobini”, ma uomini di ogni temperamento e d’ogni latitudine, le cui azioni chiamano in causa oltre alla storia anche la psicanalisi, con il bene e il male che c’è in ognuno di noi. Ci sarebbe una regola da seguire: diffidare degli eroi di ogni fatta, dei protagonisti troppo perfetti nel male e anche nel bene. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” sarà il monito di Bertolt Brecht, “gli eroi sono empi” aggiungeranno altri memori del fatto che la natura umana ha i suoi caratteri per cui “da un legno storto, come è quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente dritto” e chi vorrà raddrizzarlo forzatamente lo imporrà tra spavento e crudeltà. Nelle nostre società la democrazia – specificatamente, quella “rappresentativa” con i suoi pesi e contrappesi - è stata inventata proprio per arginare gli eccessi di dispotismo e di populismo: chi ci governa e guida va sempre “accompagnato” e controllato, ed ai capi che si propongono come guide intangibili va ricordato il monito di Brecht. Insieme alla lezione di Beccaria. (n.z.) www.socialistitrentini.it torna in alto |