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infoSOCIALISTA
25.11.2005

Info SOCIALISTA – 25 novembre 2005
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei socialisti e del centro sinistra
n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 – Trento/Bolzano
Quindicinale - Anno 2°

UN LIBRO,percominciare “Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges
Autore: Michele De Lucia
Titolo: “Siamo alla frutta, ritratto di Marcello Pera”
Kaos edizioni, 13 euro, 176 pp.


“Quando si parla di me,
vuol dire che siamo alla frutta”
Marcello Pera, novembre 1993




Il volume ripercorre gli incredibili trasformismi mediante i quali Pera è arrivato fino al vertice di Palazzo Madama (seconda carica dello Stato), in quota laica e berlusconiana. Da quando si proclamava fautore di un “socialismo pragmatico” e strizzava l’occhio al Psi di Craxi (primi anni Ottanta), a quando cavalcava l’ondata giustizialista e antipartitica provocata da Mani Pulite (primi anni Novanta). Da quando, campione liberale di laicità e anticlericalismo, si avvicinò ai radicali, a quando nel 1994 liquidò l’avvento di Forza Italia affermando che “Berlusconi è a metà strada tra un cabarettista azzimato e un venditore televisivo di stoviglie, una roba che avrebbe ispirato e pure angosciato il povero Fellini”. Fino al Pera del Duemila: senatore di Forza Italia, nemico giurato delle “toghe rosse”, filoclericale a braccetto con papa Ratzinger, antilaico e teo-con all’italiana…


Michele De Lucia (Roma, 1972), laureato in Legge, fa parte della Direzione di Radicali italiani e della Rosa nel Pugno. Nel 2004 ha coordinato la campagna referendaria sulla fecondazione assistita e sulla libertà di ricerca scientifica. Co-fondatore dell’associazione Anticlericale.net, ha pubblicato Fiat quanto ci costi? (Stampa Alternativa, 2002).





IL PUNTO DI VISTA SOCIALISTA SULL’ATTUALITA’


CON I LAVORATORI


I socialisti dello Sdi hanno sostenuto la manifestazione delle lavoratrici e dei lavoratori che sono scesi in sciopero venerdì 25 novembre in tutta Italia contro la manovra economica del governo e a favore delle proposte di sviluppo, di equità sociale e politica dei redditi in tutto il Paese.

La finanziaria del governo della destra è ingiusta, iniqua e acuisce la già drammatica crisi economica del Paese. Per questo condividiamo le ragioni dello sciopero generale. Le politiche della destra sono state fallimentari: le famiglie italiane devono superare mille difficoltà per arrivare alla fine del mese; i servizi pubblici essenziali subiscono tagli sconsiderati e il sistema delle imprese non è sostenuto.



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Lettere

L'8 per mille, una scelta diventata obbligo


• da La Repubblica del 24 novembre 2005, pag. 18


Egregio Augias ho seguito giorni fa un contraddittorio in tv fra il ministro Giovanardi ed il segretario radicale Capezzone, argomento «l'otto per mille alla Chiesa Cattolica ed alle altre organizzazioni confessionali».
Questo contributo, elargito dallo stato Italiano tramite volontà del contribuente sulla dichiarazione dei redditi, in realtà viene moltiplicato grazie a una redistribuzione delle somme per le quali non è stato dichiarato il beneficiario fra quelli indicati nelle caselle da barrare. Il ministro, acrobaticamente, dichiarava l'assoluta normalità del fatto, assimilandolo al meccanismo elettorale che vede assegnati i voti degli astensionisti, percentualmente a tutti i partiti.
Il paragone è improprio. Quando si parla dei voti ottenuti da una lista ci si riferisce esclusivamente ai suffragi ricevuti, valore numerico assoluto, tant'è che su quella cifra si effettua il rimborso elettorale, e la percentuale ottenuta si riferisce ai voti validi degli elettori votanti. I partiti parlano di percentuale di rappresentanza di tutti gli italiani solo in senso figurato; in ogni caso si tratta di un diritto (al voto) non esercitato.
La mancata menzione sulla dichiarazione dei redditi dell'Ente beneficiario (Chiesa o altro) è invece un diritto esercitato, arbitrariamente disatteso, anzi violato dallo Stato, poiché dichiaratamente il contribuente non ritiene nessuno degli Enti segnalati di propria preferenza. Chiedo, la volontà degli italiani conta ancora qualcosa?
Massimo Rubino

Risponde Corrado Augias : Della possibilità di abrogare il Concordato non si parlava da decenni. Se ora è diventato un tema da campagna elettorale lo dobbiamo agli eccessi di una Conferenza dei vescovi che ha trasformato le proprie ragioni in una permanente campagna elettorale. Un conto è invitare i fedeli ad uniformarsi ai precetti di una confessione, un conto ben diverso è pretendere che lo Stato uniformi a quei precetti le sue leggi. Quando poi a dare man forte accorrono uomini politici di derivazione fascista, sbrigativi e maneschi, si arriva a punti di tensione che dovrebbero preoccupare anche i veri uomini di chiesa.


Il Concordato firmato da Craxi nel 1984 aveva due obiettivi. Da una parte il cattolicesimo non era più, dichiaratamente, religione dello Stato come potevano far pensare certi passaggi ambigui (invero molto strumentalizzati) della Costituzione. Dall’altra parte lo Stato si prestava a raccogliere fondi per il sostentamento delle chiese attraverso 1’8 per mille prelevato con la dichiarazione dei redditi, solo però a seguito di una scelta liberamente fatta dal contribuente.
Pei cattiva informazione, anche in questo caso abilmente sfruttata, circa la metà dei contribuenti non compie alcuna scelta o per semplice dimenticanza o nell'illusione di poter risparmiare quella piccola cifra. E' un errore: la cifra viene ugualmente prelevata e distribuita tra le varie chiese in proporzione alle scelte esplicitamente fatte.
Ragione vorrebbe che i cittadini non interessati a sostenere le chiese non dovessero essere obbligati a farlo. Se obbligo ci dev’essere in ogni caso, allora bisognerebbe aggiungere alle chiese altre finalità altamente meritevoli come la ricerca, la lotta al cancro, la fame nel mondo. Sarebbe una bella prova di ‘carità cristiana’, sarebbe.

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Le donne siamo noi

La paura delle donne

La democratica Italia critica gli stati teocratici, ma si lascia mettere in ginocchio dall'onnipotenza degli anziani signori del Vaticano.

di Irene Mayer

Irene Mayer è nata in Austria nel 1972. È corrispondente della rivista viennese Extradienst

• da Internazionale - novembre 2005


Il modo in cui le donne sono trattate in Italia nel 2005 è indegno. È vero che gli antiabortisti sono sul piede di guerra in tutto il mondo, ma qui la popolazione femminile è colpita in modo particolare a causa dell'onnipotenza del Vaticano. In Italia una donna non ha mai ragione.

Se decide di non tenere un figlio e di interrompere la gravidanza, viene punita. Se desidera troppo avere un figlio, viene punita lo stesso (si pensi al referendum sulla fecondazione assistita). È con sconcerto che leggo i commenti esultanti sul divieto imposto dal ministro italiano della sanità alla pillola abortiva Ru486: uomini ultracinquantenni danno libero sfogo a miserevoli filippiche sui rischi e l'immoralità di questo "letale preparato". I loro discorsi si fondano su teorie reazionarie che ricordano i dibattiti dei cupi anni settanta.

In Francia, la pillola abortiva Mifegyne Ru486 è stata autorizzata nel 1988: negli ultimi anni nel paese e in Svezia circa il 40 per cento delle interruzioni di gravidanza è stato effettuato con la Mifegyne. Il farmaco è stato dichiarato legale in quasi tutti i paesi europei, tranne in Irlanda, Malta, Polonia e Italia, ed è venduto negli Stati Uniti dal 2000. Gli studi dimostrano che la Mifegyne sottopone il corpo a sollecitazioni inferiori agli altri metodi di interruzione di gravidanza, ma l'ex neofascista che ora siede sulla poltrona ministeriale non si è preso la briga di informarsi sulle ricerche cliniche.

I patriarchi vogliono che la sessualità femminile resti legata alla paura di una gravidanza indesiderata e ai rimorsi dell'aborto. Vogliono vietare anche alle donne del ventunesimo secolo una maternità consapevole. L'aborto non è una grazia, ma un diritto. La democratica Italia critica – a ragione – le condizioni disumane in cui versano gli stati teocratici, ma si lascia mettere in ginocchio dall'onnipotenza dei canuti signori del Vaticano. Anche una donna consapevole e illuminata può rimanere incinta senza volerlo, e perfino il contraccettivo più sicuro, la pillola, presenta qualche rischio.

Come quasi ogni donna, anch'io conosco la situazione in cui si contano i giorni che mancano all'arrivo delle mestruazioni. Nella mia vita mi è capitato varie volte di pensare: se sei incinta ora, è finita. Insomma, nella mia testa ho abortito molte volte. Le angosce segrete delle donne, gli effetti devastanti che il timore di una gravidanza indesiderata esercita sulla sessualità, il rapporto con gli uomini e la vita sono esperienze femminili elementari. È con gran pena che avverto la mancanza delle urla indignate delle organizzazioni femministe. Sorelle, dove siete?

Il grado di cinismo e di disprezzo per l'umanità, l'indifferenza dei commentatori ufficiali verso la vita, risultano tra l'altro evidenti in un caso particolare: dov'erano i responsabili politici e i gerarchi vaticani quando quest'autunno, nell'arco di un solo mese, quattro donne incinte sono morte a causa dell'incuria dei medici di alcuni ospedali siciliani? Solo pochi giornali hanno rivolto la loro attenzione al "campo di battaglia ospedaliero": ma del resto a perdere la vita è stata solo qualche donna insieme al suo bambino.

Certo, questi temi sono meno attraenti dei servizi fotografici sulle veline, la chirurgia estetica e le sfilate di moda. Quand'è che alle donne italiane sarà permesso di pensare più in grande, oltre la maternità – desiderata o indesiderata – e oltre l'ossessione della bellezza? Ma forse questo è uno degli obiettivi del logorante dibattito sull'aborto: dobbiamo restare al nostro posto invece di proiettarci verso nuovi orizzonti.


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Le donne siamo noi

194 e virtù mediane


• da Il Riformista del 23 novembre 2005, pag. 2


di Oscar Giannino

Chi scrive non si appassiona molto alle polemiche se si debba intendere come un 'indebita invasione di campo la richiesta di assicurare la presenza di associazioni cattoliche presso i consultori istituiti con la legge 194, oppure no. Al contrario l'intero e variegato campo laico dovrebbe considerare con grande soddisfazione come l'Italia sia cambiata rispetto a quando - allora sì con uno scontro muro contro muro - grazie all'impegno dei radicali e di altri pochi gli italiani confermarono nelle urne la legge sull'interruzione di gravidanza. Allora, come purtroppo ricordano in pochi, alla richiesta che proprio associazioni cattoliche avanzarono di essere presenti in forze all'interno dei consultori, fu il roccioso segretario di Stato vaticano, il cardinale Giovanni Benelli che aveva ispirato l'ala del no più oltranzista alla legge, a replicare con grande durezza che la richiesta era sbagliata. Una legge abortista si contesta in radice, i cattolici non devono averci a che fare in alcun modo, fu la sua dura presa di posizione. Pensate a com 'è cambiata l'Italia, se oggi i cattolici per primi tornano a chiedere com 'è giusto ciò che la legge consente - a loro come a tutti - e se in Vaticano e alla Cei la si considera una giusta richiesta. C'è più gusto e soddisfazione a considerarla una vittoria per tutte le persone ragionevoli - grazie alla 194 - che a dividersi tra Storace e la Prestigiacomo. O no? L'Italia è meno spaccata di allora. E la sconfitta referendaria sulla legge 40 è qualcosa che grava assai più su noi tutti che abbiamo animato la campagna senza capire a fondo le contromosse del campo avverso, di quanto non dica del presunto revanscismo papista.


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Le donne siamo noi

Sull'aborto Matrix fa otto e mezzo


• da Il Manifesto del 23 novembre 2005, pag. 17


di Norma Rangeri

Sulla vita e sulla morte, nell'epoca della riproducibilità del vivente, bisognerebbe usare toni moderati, parole asciutte, menti sgombre, ancorché credenti e cattolici. Come insegna il professor Ignazio Marino, giovane luminare di fama mondiale nel campo della chirurgia dei trapianti. Ospite di Ottoemezzo, il professore ha smontato, pezzo a pezzo, le roboanti e infervorate considerazioni di Giuliano Ferrara.

Su eutanasia, aborto, vita e morte, Marino ha spiegato perché è dalla parte del professor Umberto Veronesi. Ferrara ha tentato ogni via per fargli pronunciare una parola di conforto alle sue tesi, ma non c'è stato nulla da fare. Un cattolico praticante come Marino, colmo dei colmi, ad un certa punto si è messo persino a omaggiare Che Guevara.

Così rinfrancati, avevamo lasciato La7 per seguire il dibattito sull'aborto, tema scelto da Mentana per Matrix. Invece, ecco di nuovo il faccione corrucciato di Ferrara. Un effetto-sovrapposizione accentuato dalla presenza di Eugenia Roccella e Daniele Capezzone, ospiti frequenti di Ottoemezzo. Nessuna sorpresa dunque se anche l'ascolto di Matrix ha fatto 8 e mezzo per cento di share. Quando poi Mentana ha chiesto a Ferrara un commento sulle posizioni del professor Veronesi, cambiare canale era una via di fuga obbligata.

Peccato affondare un dibattito importante e travolgere nella fossa dell'auditel gli interessanti servizi giornalistici che accompagnavano la discussione sulla legge 194. Vedere i volontari di don Benzi che, di buon mattino, davanti all'ospedale di Modena, piazzano una croce gigante e poi, disponendosi in circolo, recitano il rosario mentre le donne sono in sala operatoria ad abortire, era un ottima immagine di quel che potrebbero diventare domani i consultori presidiati dai movimenti cattolici. Così come rivedere il filmato sulla via crucis dei ragazzi che girano di notte per i pronto soccorso degli ospedali romani, senza riuscire ad avere la pillola del giorno dopo (non quella abortiva, ma quella anticoncezionale), faceva capire come mai, ancora oggi, molte ragazze siano vittime di gravidanze indesiderate.

Dall'aborto alla contraccezione il passo è obbligato. Se il ricorso all'interruzione di gravidanza riguarda i giovani, aiutarli con una martellante informazione, specialmente sull'uso dei preservativi, potrebbe giovare. «Ha mai visto una scuola in Italia con macchinette che li distribuiscono?», chiede Capezzone.

Credendo di sfondare una porta aperta, il segretario dei Radicali se la ritrova invece sbattuta in faccia dal conduttore che sul punto non ha dubbi: «In una scuola che distribuisse i preservativi io non manderei mio figlio», dice Mentana. Come se la vendita nelle scuole significasse obbligo di fare sesso tra i banchi. E, nel caso, meglio avere un anticoncezionale a portata di mano.


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Campagne elettorali

Scusate ci siamo sbagliati


• da La Stampa del 24 novembre 2005, pag. 2


di Lietta Tornabuoni

I temi della precipitosa campagna elettorale del centrodestra sono sempre gli stessi, quelli del 1950 e della guerra fredda, come se il tempo non fosse mai passato e se il Paese non cambiasse mai, come se gli elettori fossero smemorati. D'improvviso, senza vergogne, la campagna tenta per l'ennesima volta di compiacere la Chiesa cattolica allo scopo di conquistare i voti di cui il Papa dispone, manifestando così un'idea meschina sia della politica sia della Chiesa. Questo non impedisce le azioni peggiori, quelle contro l'aborto (come se qualcuno al mondo potesse essere pro-aborto), contro la legge che lo legittima, contro le donne che sono il soggetto della legge. E' impressionante la costanza con cui questo argomento viene ripetutamente esibito, senza rispetto non soltanto per le donne ma anche per gli elettori che in proposito si sono espressi più volte: addirittura si potrebbe pensare a un elemento di routine, una coazione a ripetere, un'abitudine mai sostituita da qualcosa di contemporaneo.

Altro punto, l'istigazione alla paura del cambiamento, allo spavento del «salto nel vuoto»: Berlusconi dice che in Italia libertà e democrazia sarebbero a rischio in caso di vittoria elettorale del centrosinistra, come se il centrosinistra non avesse governato prima di lui per anni, senza danno per nessuno e tanto meno di libertà e democrazia; evoca il termine «comunisti» e la falce e martello come fantasmi diabolici fuorilegge. Promette agli sfrattati case che non ci sono. Dimentica la straziante mancanza di soldi. Distribuisce accuse alle amministrazioni locali (in tutti i posti che non hanno votato per il centrodestra e non gli appartengono), ai magistrati che non vogliono appartenere a nessuno; esplode a Milano nel grido autoassolutorio: «Noi non abbiamo rubato! Non abbiamo usato a nostro vantaggio leggi e televisione!».

Pazienza, il peggio deve ancora venire: l'importante è non credere a promesse o garanzie fino al prossimo 9 aprile, non cadere nelle trappole, non lasciarsi stordire dalle parole. E sapere che, più tardi, eventualmente, nessuno dirà mai «Scusate, ci siamo sbagliati»: andranno avanti, lenti e dimentichi.

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Europa

Viva Zapatero (che taglia le tasse)

Modelli. Un riformista che ironizza sull'«arcaismo» della gauche. La crescita spagnola viaggia oltre il 3,3 per cento, l'occupazione aumenta e il governo premia le imprese.


• da Il Riformista del 24 novembre 2005, pag. 7


di Francesco Cundari

Il capo del governo spagnolo Zapatero potrebbe essere oggetto di uno studio, a somiglianza di certe grandi opere letterarie o filosofiche, sulla sua «ricezione» in Italia. Il punto di partenza perfetto sarebbe senza dubbio la prima pagina di Liberazione di mercoledì 16 novembre. Apertura: «La Val di Susa si ribella alla Tav». Spalla: «Perché Fassino e Rutelli temono Zapatero» (inteso qui come metonimia per «ritiro immediato delle truppe dall'Iraq»). Prima pagina emblematica, visto che proprio in quegli stessi giorni Zapatero e parecchi suoi ministri inauguravano con grande enfasi l'ultima tratta della Tav spagnola, l'Ave (Alta velocidad espanola) Madrid-Toledo. E proprio mentre in Francia il gauchiste ma più attento Le Monde dava conto delle reazioni critiche (almeno a microfoni spenti) dei principali partiti socialisti europei dinanzi al congresso dei compagni francesi, con un paio di righe che avrebbero probabilmente fatto sobbalzare gli zapateristi italiani: «Alla Moncloa il presidente Zapatero ironizza volentieri sull'arcaismo economico che egli attribuisce al Ps».
La notizia pubblicata ieri con grande enfasi dalla stampa spagnola a proposito dei dati dell'Ine (l'Istat spagnolo) rende assai difficile controbattere al sarcasmo del leader socialista: nel terzo trimestre l'economia è cresciuta del 3,5 e tutto porta a credere - almeno dalle parti, senza dubbio interessate, del governo - che le previsioni sul Pil a fine anno saranno riviste al rialzo. E mentre quelle italiane oscillano tra lo zero e lo zero-virgola (in Francia e in Germania sono intorno all'uno), quelle iberiche segnavano già nientemeno che 3,3 per cento.

Dall'alto di simili percentuali (e con risultati analoghi nell'occupazione, con 930 mila nuovi posti di lavoro solo nell'ultimo anno) Zapatero può quindi portare avanti la sua politica economica, annunciando tagli del 5 per cento alle tasse per le imprese. Anche se qui in fondo - a voler essere generosi - il contrasto con Aznar, che aveva invece tagliato l'equivalente della nostra Irpef, non appare poi così lontano dal dibattito italiano tra centrodestra e centrosinistra in materia fiscale.

Si conferma comunque come Zapatero sia un autentico riformista. Prima leader di una corrente chiamata Nueva via - tra la Terza via di Blair e il Nuovo centro di Schroeder - poi segretario del Psoe convinto della necessità di fare una oposicion util (cioè pragmatica e bipartisan, che per inciso gli valse accuse di cedimento alla destra perfettamente analoghe a quelle toccate ai suoi omologhi italiani nei Ds), infine capo di governo che guida l'economia tenendosi ben lontano dalle ricette «arcaiche» dei gauchiste, che ritira le truppe dall'Iraq, ritornando alla più tradizionale visione dell'interesse nazionale, che era stato Aznar a rompere (e anche in questo dunque non così diverso da Blair che coltiva la storica special relationship con gli Stati Uniti), per scaricare infine tutta l'enfasi rivoluzionaria della sinistra nelle battaglie per i diritti civili e le pari opportunità (matrimoni gay, legge contro la violenza domestica, divorzi più rapidi).

Se la linea economica tenuta dal governo spagnolo sembra dunque confermare questa tesi e che qui abbiamo sostenuto più volte - e cioè che Zapatero rappresenta un modello di nuovo leader socialdemocratico assai più vicino a Blair che agli zapateristi nostrani - questo non significa che in Spagna tutto vada liscio come l'olio. Dalla controversa questione delle presunte trattative con l'Eta a quella aperta sullo statuto catalano (principale causa della recente discesa nel sondaggi di Zapatero), fino alla recente legge sulla scuola e il contrasto con la Conferenza episcopale in tema di ora di religione, il riformismo battagliero del capo del governo tutto può essere considerato meno che timido e gradualista.

Nonostante gli ottimi risultati economici vantati dal governo, ieri nel parlamento di Madrid lo scontro ha raggiunta l'apice proprio con la richiesta di dimissioni del ministro dell'Industria, il catalano José Montilla (secondo El Mundo, quotidiano vicinissimo ai Popolari, la richiesta sarebbe condivisa dal 47 per cento degli spagnoli). «La sua presenza contamina il governo» ha detto il portavoce del Pp in aula, riferendosi al ministro accusato di avere avuto un ruolo di qualche rilievo in una poco chiara vicenda di finanziamenti ai socialisti catalani (di cui è segretario) nonché di poco limpide manovre all'ombra dell'Opa lanciata da Gas Natural su Endesa (uno scherzo da 22,5 miliardi di euro che avrebbe già interessato l'Antitrust spagnola). E quando in aula si è passati a discutere della riforma scolastica il clima non è certo migliorato.

Tornando al problema della «ricezione» di Zapatero in Italia, si può dire però che la risposta del governo alle accuse del Partito popolare (che parla tra l'altro di intimidazioni e attacchi ingiustificati da parte del Governo contro la libertà di stampa e giornali critici come El Mundo) ha indubbiamente per noi qualcosa di familiare. «Incapaz, acompelajdo, manipulador, cobarde, mentiroso y traidor», ecco come il presidente è stato qualificato in questi mesi dai popolari, «che sanno fare opposizione solo con la rabbia e gli insulti», ha ripetuto indignata la vicepresidente Maria Teresa Fernàndez de la Vega. A dimostrazione che in fondo e nonostante tutte le peculiarità nazionali, come si usa dire, todo el Mundo es Pais.


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DOCUMENTI

Socialismo liberale (1)


di Carlo Rosselli


Secondo di tre fratelli, Carlo Rosselli nasce a Roma, il 16 novembre 1899, figlio di Giuseppe Emanuele e Amelia Pincherle. La separazione dal marito, nei primi anni del nuovo secolo, porta Amelia, scrittrice di libri per l’infanzia e di testi teatrali, a trasferirsi con i figli a Firenze. Il capoluogo toscano in quegli anni è un vero e proprio laboratorio di riviste e di fermenti culturali, ed è in quell’ambiente che i tre fratelli compiono la loro educazione e formazione intellettuale. Appartenenti per linea materna e paterna a famiglie che avevano aderito intensamente al movimento risorgimentale, cresciuti in un ambiente permeato di spirito nazionale, i Rosselli sono “naturalmente” coinvolti nel clima interventista che anticipa e sostiene l’ingresso italiano nella Grande Guerra europea. Il maggiore, Aldo, parte volontario, mentre Carlo e Nello, poco più che adolescenti, fondano un giornaletto con cui testimoniano la partecipazione studentesca.

La morte, durante un’azione di guerra, di Aldo, il richiamo alle armi e l’impatto con le migliaia di combattenti provenienti dai ceti popolari, le atrocità della guerra, contribuiscono al profondo cambio di mentalità di Carlo Rosselli che, come più tardi scrive, scopre la “massa”.

Al ritorno dal servizio militare, nel 1919, Carlo Rosselli si iscrive all’Istituto di Scienze Sociali di Firenze, e si laurea con una tesi sul sindacalismo rivoluzionario.

Per approfondire gli aspetti economici connessi all’azione sindacale, si iscrive poi alla Facoltà di Giurisprudenza di Siena. Nel 1923 consegue quindi la sua seconda laurea, con una tesi valutata positivamente dai più autorevoli economisti italiani del tempo.

In questo periodo, grazie all’influenza di Alessandro Levi, di cui era congiunto, si accosta al Partito Socialista e in particolare alla sua ala turatiana; conosce Filippo Turati e Claudio Treves, stringe rapporti di grande amicizia con Gaetano Salvemini, che sarà poi il maestro del fratello minore di Carlo, Nello. Per i suoi studi economici, frequenta e collabora con Luigi Einaudi e Attilio Cabiati, grazie ai quali inizia la carriera accademica con incarichi a Milano e a Genova. Entra in contatto infine con Piero Gobetti e i giovani di “Rivoluzione Liberale”.

In questi anni elabora le linee fondamentali del suo pensiero. Tenace assertore della validità del metodo liberale e democratico, con svariati interventi pubblicati su “La Critica Sociale” e altre riviste, ingaggia dure polemiche con Treves e Rodolfo Mondolfo, e sostiene la necessità di sganciare l’azione del movimento socialista dal marxismo: teoria che giudica inconsistente dal punto di vista economico e che valuta essersi trasformata in dottrina della fatalistica attesa rivoluzionaria, nella quale si perdono le energie intellettuali e morali dei socialisti. Fautore di un socialismo mutuato con metodi liberali, attento all’esperienza graduale e riformatrice del laburismo britannico (aveva trascorso le estati del 1923 e del 1924 in Inghilterra, seguendo i corsi delle Società Fabiana e studiando presso la Biblioteca della London School of Economics), cerca di rilanciare un movimento che più scissioni da un lato, l’affermazione del fascismo dall’altro, hanno ormai reso esanime.

Tra il 1922 e il 1926 dimostra anche le sue doti di organizzatore culturali. Con il fratello Nello, Salvemini, Ernesto Rossi ed altri, dà vita a Firenze al “Circolo di Cultura”, modellato sull’esempio dei clubs inglesi, dal quale usciranno i primi, clandestini, movimenti antifascisti. Insieme a Pietro Nenni, nel 1925, fonda la rivista “Il Quarto Stato”, tentativo di riorganizzare su nuove basi ideali, il socialismo italiano.

Le numerose attività – e bisogna ricordare l’organizzazione della fuga dall’Italia di Turati – gli attirano le “attenzioni” della polizia del regime. Arrestato, dopo un periodo trascorso in carcere, viene inviato al confino nell’isola di Lipari. Qui elabora e scrive “Socialismo liberale”, in cui confluiscono tutte le idee maturate negli anni precedenti. Il manoscritto viene pubblicato nel 1930 a Parigi, e si propone di essere il programma d’azione del rinnovato socialismo.

Da Lipari, assieme a Emilio Lussu e a Francesco F. Nitti, con un’azione che desta scalpore, fugge in motoscafo il 27 luglio 1929, raggiungendo Parigi ed entrando in contatto con l’ampia colonia dei fuoriusciti italiani. In una situazione di scarsità di iniziative da parte dei centri esteri dei partiti democratici stretti nella Concentrazione antifascista, Rosselli fonda insieme ad altri amici, il movimento di “Giustizia e Libertà”, lanciando la parola d’ordine del lavoro antifascista in Italia.

Nel 1931 riesce a firmare un accordo con il PSI per fare di G.L. il movimento unitario d’azione all’interno. Accordo che si estende poco dopo anche al resto della Concentrazione. Organizzando piccoli gruppi di lavoro a Torino e a Milano, tessendo rapporti con antifascisti di altre città italiane, G.L. riesce anche a portare a termine una serie di colpi dimostrativi contro il regime che gli procurano una certa notorietà e le dure polemiche dei comunisti, di Palmiro Togliatti in particolare, che vedono insidiato il primato dell’azione antifascista.

Leader riconosciuto di G.L., Rosselli propone continuamente al dibattito nuovi temi e riflessioni. E’ tra i primi, con il famoso articolo “La guerra che torna”, a comprendere che l’affermazione del nazismo in Germania prepara una futura, prossima guerra europea. Ed è tra i pochi che di fronte al propagarsi del mito della rivoluzione sovietica, conduce analisi realistiche e sottolinea la natura totalitaria e illiberale del regime comunista. Di fronte ai tragici avvenimenti spagnoli del 1936, comprende immediatamente che nella guerra civile di Spagna si combatte la partita tra fascismo e antifascismo decisiva per le sorti dell’Europa. Organizza quindi una colonna di volontari e combatte a fianco delle truppe repubblicane.

Tornato in Francia, nel 1937, per curarsi dalla ricaduta di una vecchia flebite, viene assassinato assieme al fratello Nello, a Bagnoles-sur-l’Orne, da sicari del gruppo fascista “La Cagoule”.

Il testo di “Socialismo liberale”, racconta John Rosselli, “ha vissuto vicende abbastanza complicate. Carlo Rosselli lo scrisse al confino di Lipari, di lì sua moglie Marion trafugò il manoscritto all’estero. Una volta giunto a Parigi nell’estate del 1929 dopo la fuga da Lipari, Rosselli sembra si sia occupato di rivedere il manoscritto, il quale però in quel periodo non comparve in italiano bensì in una traduzione francese fatta da Stefan Priacel”.

Dopo la Liberazione, in Italia comparve una prima edizione italiana, pubblicata dalle edizioni U. Quando venne preparata questa edizione, il manoscritto originale in italiano del “Socialismo liberale” era irreperibile, essendo stato lasciato in Francia assieme ad altre carte. Il testo dovette perciò essere tradotto in italiano dall’edizione francese, un lavoro curato da Leone Bertone e riveduto successivamente da Aldo Garosci. Successivamente la famiglia recuperò le carte rimaste in Francia, e alcune – compreso il manoscritto di “Socialismo liberale” – vennero depositate presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. L’edizione di “Socialismo liberale” di cui cominciamo la pubblicazione, si basa su quel manoscritto.


Gualtiero Vecellio





Prefazione


Questo libro ha una piccola storia che vale a spiegarne le più evidenti lacune e la mancanza di note e di corredo bibliografico. Lo scrissi nascostamente a Lipari, isola di deportazione fascista, pochi mesi prima della mia evasione. Risente quindi dello stato di particolare tensione in cui lo venni scrivendo, costretto com’ero a tutte le astuzie per sottrarlo alle frequenti perquisizioni (un vecchio pianoforte lo ospitò lungamente).

Più che un libro organico vuol essere la confessione esplicita di una crisi intellettuale ch’io so molto diffusa nella nuova generazione socialista.

Questa crisi è pur sempre la crisi del marxismo, ma ad uno stadio infinitamente più acuto che non fosse trent’anni or sono quando apparve il noto libro di Bernstein. Sono in giuoco ormai i fondamenti primi della dottrina, e non solo le pratiche applicazioni. E’ la filosofia, la morale, la stessa concezione politica marxista che ci lascia profondamente insoddisfatti e ci sospinge per nuove strade verso più ampi orizzonti.



Ho espresso il mio pensiero con franchezza assoluta, convinto che solo la coraggiosa revisione delle sue premesse morali e intellettuali potrà ridonare al socialismo quella freschezza e quella forza espansiva che da troppi anni gli mancano.


Nella parte ricostruttiva del libro mi sono proposto di offrire, sia pure di scorcio, il quadro di una rinnovata posizione socialista che io amo chiamare socialista liberale. Dal punto di vista storico questa formula sembra racchiudere una contraddizione, poi che il socialismo sorse come reazione al liberalismo – soprattutto economico – che contraddistingueva il pensiero borghese ai primi dell’ottocento. Ma dall’ottocento ad oggi molto cammino si è fatto e molte esperienze si sono accumulate. Le due posizioni antagoniste sono andate lentamente avvicinandosi. Il liberalismo si è investito progressivamente del problema sociale e non sembra più necessariamente legato ai principi della economia classica, manchesteriana. Il socialismo si va spogliando, sia pure faticosamente, del suo utopismo ed è venuto acquistando una sensibilità nuova per i problemi di libertà e di autonomia.


E’ il liberalismo che si fa socialista, o è il socialismo che si fa liberale?

Le due cose assieme. Sono due visioni altissime ma unilaterali della vita che tendono a compenetrarsi e a completarsi.

Il razionalismo greco e il messianismo d’Israele.

L’uno domina l’amore per la libertà, il rispetto delle autonomie, una concezione armoniosa e distaccata della vita.

L’altro una giustizia tutta terrena, il mito dell’eguaglianza, un tormento spirituale che vieta ogni indulgenza.

Nella sua prefazione all’ “Histoire du peuple d’Israel”, Renan, grandissimo ammiratore della civiltà greca, confessa che “le libéralisme (grec) ne sera plus seul à governer le monde. L’Angleterre et l’Amérique garderont longtemps des restes d’influence biblique, et, chez nous, les socialistes, élèves sans le savoir des prophètes forceront toujours la politique rationnelle à compter avec eux”.

Ma è possibile qualificare una politica come razionale, se non tien conto in primissimo luogo dell’idea di giustizia?

C.R.



Capitolo I : Il sistema marxista


L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione. Di qui il disdegno per i predecessori e il ripudio d’ogni posizione moralistica. Con le due grandi scoperte, dice l’Engels, in “Evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza”, della concezione materialistica della storia ed il segreto della produzione mediante il plus valore, “il socialismo divenne una scienza, che occorre adesso elaborare più ampiamente in tutti i suoi particolari”.



Al socialista Marx non chiedeva più atti di fede e romantiche definizioni dedizioni: anzi egli diffidava dei cavalieri dell’ideale. Al socialista chiedeva il sano impiego della fredda ragione. Il coraggioso riconoscimento della realtà storica. Il socialismo era nei fatti, nel meccanismo intimo della società capitalistica: non nei cuori degli uomini. Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire. Il socialismo scientifico, usava dire Antonio Labriola, autorevolissimo interprete del marxismo, afferma l’avvento della produzione comunista non come un postulato o un oggetto di libera scelta, ma come il risultato del processo immanente della storia.



I principi di cotesta scienza marxista sono così universalmente noti che qui basterà farne un semplice richiamo:



Marx assume come fondamentale negli uomini il bisogno economico. Per la progressiva soddisfazione di questo gli uomini sono costretti a ricorrere a metodi e rapporti di produzione che sono indipendenti dalla loro volontà. Le forze produttive sono il fattore determinante del processo storico. Tutti i fenomeni della vita sociale, politica, spirituale, hanno carattere derivato, relativo, storico, in quanto sono un prodotto del modo e dei rapporti di produzione.



Il processo storico è la risultante di una immanente legge dialettica, di un ritmo delle cose; si svolge cioè in virtù e attraverso un perenne contrasto, che nei momenti critici si fa drammatico, tra le forze espansive della produzione e le forze conservatrici simbolizzate dai preesistenti rapporti sociali. Il passaggio da una fase produttiva all’altra si avvera per una ferrea intrinseca necessità ad opera di leggi storiche, correlative ai vari sistemi produttivi.



Espressione di questo contrasto tra forze di produzione e forme cristallizzate di vita sociale è la lotta di classe. Tutta la storia si risolve in una indefinita serie di lotte di classi. Questa lotta è sempre terminata col trionfo delle esigenze della produzione, cioè con la vittoria politica della classe che queste esigenze, anche inconsapevolmente, impersona.



Il sistema capitalistico di produzione è anch’esso lacerato da una contraddizione intima insuperabile tra il carattere sempre più collettivo del sistema produttivo e quello individuale e monopolistico del sistema di appropriazione dei mezzi di produzione e di scambio. I rapporti borghesi di produzione, di traffico e di proprietà, condizione della vita e del dominio della classe borghese, urtano sempre più fortemente contro la necessità di vita e di sviluppo delle forze produttive.



Questa contraddizione, per effetto della legge dinamica che presiede allo svolgimento capitalistico, condurrà necessariamente alla negazione del regime borghese (categoria del valore che genera quella del plusvalore, che a sua volta genera l’accentramento dei capitali, l’immiserimento progressivo dei proletari, la scomparsa dei ceti medi, la sovrapproduzione, la crisi).



Manifestazione di questo contrasto è la lotta sempre più risolutiva tra proletariato e borghesia. Essa terminerà necessariamente – a meno di una catastrofe sociale – con la vittoria del proletariato che si fa portatore delle esigenze espansive delle forze di produzione. Il proletariato conquisterà violentemente il potere politico e abolirà il modo borghese di appropriazione, contraddittorio con la necessità di una produzione sempre più collettiva, socializzando i mezzi di produzione e di scambio. Lo Stato e tutte le differenze di classe scompariranno. Dalle rovine della società borghese sorgerà una società di liberi e di eguali in cui lo sviluppo prodigioso della produzione, non più ostacolato dal sistema monopolistico dei rapporti sociali, fornirà a ciascuno la possibilità di soddisfare pienamente i suoi materiali bisogni e libererà l’umanità dalla schiavitù delle forze materiali.



Questo, in succo, il pensiero costante di Marx, proclamato nel “Manifesto dei Comunisti” (1847), riaffermato con frasi lapidarie nella prefazione alla “Critica dell’economia politica” (1859), svolto e illustrato nel “Capitale” (1867), riconfermato sino alla morte. Pensiero nettamente deterministico, rispetto al quale gli sforzi interpretativi di un Sorel, di un Labriola, di un Mondolfo, per avvalorare una interpretazione che faccia posto ad una autonoma funzione degli uomini nella storia, sono sempre naufragati. Il sistema marxistico è determinista, o non è. Non è, intendo, come sistema organico si pensiero. Ogni qualvolta Marx ha voluto, di proposito riassumere i suoi intendimenti e la portata delle sue tesi, lo ha fatto con parole che non lasciano adito a dubbi. Tralascio il famoso brano del 1859 nella prefazione alla “Critica dell’economia politica” che anche i più modesti cultori di studi marxistici hanno presente per ricordare che Marx, nella prefazione al “Capitale”, avverte che la società moderna può saltare e sopprimere con decreti niuna delle fasi del suo sviluppo naturale; può solo accorciare il periodo della gestazione e del parto. A queste fasi presiedono leggi naturali e tendenze e del parto. A queste fasi presiedono leggi naturali e tendenze che si adempiono con ferrea necessità. Sul carattere necessario, addirittura fatale, della evoluzione delle forze produttive e di tutto il processo storico, Marx ritorna meditatamente con lo squarcio famoso contenuto nell’ultimo capitolo del I volume del “Capitale” che termina con la frase: “…la produzione capitalistica genera essa stessa la propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi della natura”. Proprio in questa pagina conclusiva Marx sente il bisogno di richiamare, a prova della sua perfetta coerenza, le pagine parallele del “Manifesto” fornendole così, a venti anni di distanza, una interpretazione decisiva.



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