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Una notte in Tunisia
20 marzo 2014

In occasione dello spettacolo “Una notte in Tunisia” interpretato da Alessandro Haber al “Melotti di Rovereto” giovedì 20 marzo 2014, propongo questo commento al libro di:
Bruno Pellegrino, “L’eresia riformista – la cultura socialista ai tempi di Craxi” (Guerini e Associati ed., 2010).

-di Nicola Zoller

INTRODUZIONE
C’è una sorta di amnesia collettiva sotto la seconda Repubblica italiana: riguarda la storia del più vecchio partito della sinistra fondato a Genova nel 1892, precisamente la storia del socialismo italiano, espunta dalla memoria comune grazie anche alla caparbia ostilità di vecchi e nuovi politici illiberali e di intellettuali faziosi col paraocchi. C’è il caso esemplare di Paul Ginsborg, storico inglese naturalizzato italiano, docente all’Università di Firenze, che racconta all’incredulo Vittorio Foa di non aver inserito il Psi e i socialisti nella sua einaudiana “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988” semplicemente perché a suo avviso i socialisti “non esistevano”. Foa – che dirigente socialista nel dopoguerra lo è stato a lungo, oltre che punto di riferimento per tutta la sinistra italiana – rivela incredulo questa assurda considerazione nella sua opera “Il cavallo e la torre” edita nel 1991. Anche le date sono qui importanti per capire il senso delle cose: la ponderosa “Storia” di Ginsborg è stata pubblicata nel 1989, pensata e scritta proprio in quel decennio in cui gli esponenti del Psi accedevano alla presidenza della Repubblica e del Consiglio dei ministri, dunque in un periodo di massima visibilità e ben prima della caduta del Psi sotto le macerie di Tangentopoli. Lo sottolineiamo perché anche da questo elemento appare plausibile che le accuse di corruzione che hanno contrassegnato la fine del Psi tra il 1992/1993 si siano incanalate in una intenzionale, deviante operazione di pulizia storico-politica - e poi di polizia tout court - preordinata da tempo. Cosicché è stato più agevole utilizzare le vicende giudiziarie nel crudo confronto politico dei primi anni ’90 (Francesco Alberoni - in “Valori”, Rizzoli, 1993 - ci rammenta che da sempre “la lotta politica è praticamente tutta combattuta con accuse di immoralità”) per conseguire l’ obiettivo politico di una cinica “damnatio memoriae” annullando la presenza del Psi, non solo di quello “craxiano” degli anni ’80, ma - come abbiamo visto con la storia ginsborgiana – di tutto il dopoguerra!
Epperò l’obiettivo principale riguardava proprio il riformismo del periodo craxiano, come spiega Bruno Pellegrino con “L’eresia riformista – la cultura socialista ai tempi di Craxi” (Guerini e Associati ed., 2010). Commentando questa argomentata ricerca, Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera” del 13 aprile 2010 rileva che si è relegato nell’oblio quel mosaico riformista che aveva interessato ogni comparto della cultura, portando una “ondata di riflessioni e innovazione dalle nuove professioni all’informazione, dal cinema all’arte, dall’architettura alle scienze giuridiche, dalla storiografia alla politologia”. Col paradosso – aggiunge – che chi nella sinistra politica aveva ingiuriato fino ad un momento prima il riformismo in odio ai socialisti, ha poi cominciato a farsene all’improvviso interprete e vessillifero. Interprete “insincero” però, precisa Battista. Sì, perché i parvenu del riformismo non possono che procedere verso una “desolante parabola”, incapaci come sono di riconoscersi fino in fondo nella cultura riformista, cioè in quei valori che il Psi – tanto disconosciuto e dimenticato nella stagione politica della seconda Repubblica – aveva saputo rappresentare e precisamente: “la cultura di governo, l’attenzione alla modernità, il rifiuto dei pregiudizi ideologici, il gradualismo, il garantismo, il rifiuto dell’autoritarismo, insomma tutto il meglio del riformismo socialista”. Questa è una storia da studiare e da riscoprire: perché – ricorda ancora Battista – “malgrado le perplessità di Paul Ginsborg” – non a caso diventato poi vate dell’area sinistro- giustizialista e dell’effimero (questo sì) movimento dei “girotondi” con Pancho Pardi – “il riformismo socialista è esistito davvero”. E può essere ancora un riferimento non solo utile ma necessario per la rinascita di una moderna sinistra italiana. Vorremmo qui proporre qualche spunto tratto dalla ricerca di Bruno Pellegrino.

1.Ecco come viene concisamente definito il riformismo da Antonio Giolitti, quando questi diventa ministro del Bilancio nel 1963: “L’esperienza di governo immunizza una volta per sempre contro il rischio del fanatismo, obbliga a tenere aperti gli occhi di fronte alla realtà… Questa esperienza io feci allora, con indimenticabile trepidazione, e ne ho acquisito la vocazione ad un incorreggibile riformismo: a guardare bene la realtà nei dettagli, nelle minuzie, ma conservando la capacità di alzare lo sguardo verso obiettivi più lontani e ambiziosi. Insomma, mi sono trovato costretto a imparare che nell’esercizio dell’attività politica in democrazia l’etica della convinzione non può mai essere disgiunta dall’etica della responsabilità, anzi questa condiziona quella”.

2.Sulle differenze tra socialisti e comunisti (differenze che risalgono alla scissione dal Psi imposta da Mosca, che portò alla nascita del Pci nel 1921) c’è un flash illuminante su una personalità come Rodolfo Morandi, che diresse l’organizzazione del Psi a cavallo tra gli anni 1940-1950. Prima di bruciare sull’altare dell’unità frontista social-comunista (1948) tante “intuizioni feconde”, per Morandi fu chiara la distanza che separava i socialisti dai comunisti nell’intendere il rapporto fra classe e partito. “I primi pensavano – e Morandi era fra questi – che è la massa ad esprimersi attraverso il partito, mentre i secondi ritenevano che il partito è lo strumento per manovrare le masse”.
E’ questa una visione contrastante che più avanti sarà così spiegata in termini filosofici da Norberto Bobbio su “Mondoperaio”, rivista teorica del Psi fondata da Pietro Nenni: “Per caratterizzare questa differenza in una parola, parlerei di una concezione laica della storia contrapposta a una concezione totalizzante, dove per concezione laica della storia s’intende che la storia non soltanto è fatta dagli uomini, ma per essere realmente umanizzata non deve essere concepita come fatta da uomini che si credono in possesso, come dei, di una verità assoluta da imporre anche ai recalcitranti”; insomma una concezione laica “dove non vi è più posto per i prìncipi, né per il vecchio principe cui Machiavelli aveva affidato il compito di liberare l’Italia dal ‘barbaro dominio’, né per il nuovo principe – il partito - cui Gramsci affidava il compito di trasformare la società”.
Sempre in tema di differenze tra socialisti e comunisti, Bobbio declinerà poi direttamente sul piano politico con un intervento sul giornale “La Stampa” del 1 settembre 1978 la sua propensione filo-socialdemocratica, bocciando – in appoggio a Craxi – la vaga proposta del Pci di Berlinguer di una “terza via” tra comunismo marxista-leninista e socialdemocrazia: “Personalmente propendo a credere che questa terza via non esiste da nessuna parte e che sia un errore - dovuto a comprensibile ma non irreprensibile amor proprio, una volta bloccata e quindi irripetibile la via leninista, come gli stessi comunisti lasciano credere - voltare le spalle sdegnosamente alla via già percorsa, anche se incompiuta e irta di ostacoli, delle socialdemocrazie europee, e sforzarsi di escogitare nuove soluzioni anziché fare il ben più meritevole sforzo di seguire coloro che ci hanno preceduti. L’esito della socialdemocrazia non è garantito? Ma è pur sempre meglio una via in cui il successo non è garantito che non quella in cui la storia ha ormai dimostrato essere garantito l’insuccesso… Non vedo come, escluso il leninismo, il movimento operaio italiano possa fare a meno di confluire nel grande fiume della socialdemocrazia, rinunciando al progetto affascinante ma inafferrabile di scavarsi un proprio letto, destinato probabilmente ad accogliere una corrente di debole impeto e di corso breve”.

3. Riportiamo ora un ampio passo sulle origini dei retropensieri che impediscono in modo persistente alla sinistra italiana di derivazione comunista di inserirsi nell’alveo della sinistra socialdemocratica e laburista europea. Di fronte alla consapevolezza del declino inarrestabile della propria ortodossia, della fine della spinta propulsiva del comunismo e per sfuggire al confronto con l’eresia dei riformisti - gli avversari delle origini che con Craxi hanno assunto le vestigia di un nemico abbietto, “un avventuriero e un bandito” da abbattere, scriverà nei suoi appunti Antonio Tatò, segretario di Berlinguer - il Pci negli anni Settanta “trova conveniente abbandonarsi all’abbraccio con l’altra ortodossia italiana, l’integralismo cattolico nella versione cattocomunista. Si consuma così – osserva Pellegrino - un matrimonio monogamico fra comunisti e sinistra cattolica che non sarà mai più rotto e che produrrà effetti profondi sul Pci e sui destini dell’intera sinistra italiana. Il cattocomunismo si rivela un albero robusto, con radici profonde in grado di sopravvivere al cataclisma del 1989 con la fine del comunismo sovietico e al crollo della prima repubblica, che allunga la propria ombra sino ai tempi presenti. L’intreccio culturale e politico che si compie in seno al Pci fra l’integralismo cattolico e comunista pone una pietra tombale sulle aspirazioni della corrente riformista del Pci di portare il partito all’approdo socialdemocratico europeo e di dar corpo con i socialisti italiani a una grande formazione politica in grado di porsi come alternativa di governo, in un quadro di riferimento occidentale. Paradossalmente, mentre il Psi continua incessantemente a ripensarsi e a cambiare per tenere il passo sulle innovazioni del socialismo europeo, il Pci non darà mai corso a una sua Bad Godesberg, ad una revisione profonda in senso socialdemocratico. L’idea, la pratica e finanche l’espressione ‘revisionismo’ continueranno ad essere inaccettabili per la maggioranza dei comunisti italiani. Il Pci - ‘gladius Dei’, secondo la definizione di Franco Rodano, consigliere di Berlinguer – finisce col sommare al proprio dogmatismo marxista-leninista, ancorché in disarmo, il dogmatismo dei cattolici comunisti entrambi ancorati all’assunto di un loro ruolo superiore e messianico nella storia e nei destini del Paese. Ne sortiscono teorie politiche che non hanno riscontro nel resto d’Europa e due generazioni di dirigenti politici e d’intellettuali che, smarriti, si pongono alla ricerca di indefinibili terze vie. Si predica un’austerità prossima al luddismo, si teorizzano superiorità e diversità etiche e antropologiche, si sostituisce la giustizia giusta con il giustizialismo, la morale con il moralismo, si coltiva il rancore per l’Occidente e gli avversari, si professa il terzomondismo e il pacifismo filosovietico”.

4.Giungiamo ora ad un passaggio centrale. Ecco come Luciano Pellicani, uno degli studiosi più originali del riformismo socialista, espone su “Critica Sociale”, n.2/1980, la visione progressista del Psi craxiano, che si potrebbe definire “neoilluminismo riformatore” specchiandosi nelle pratiche liberal-socialiste e socialdemocratiche europee: “Ci sono due modi – scrive Pellicani – di intendere il progresso: c’è il modo romantico e c’è il modo illuministico. Per le filosofie romantiche della storia, il progresso è una irresistibile legge fondata sulla struttura della realtà. Negli scritti di Comte, Hegel, Marx il processo storico è visto come un traffico a senso unico, come una successione di avvenimenti messi a scala. Ognuno di questi avvenimenti è necessario e rappresenta, sempre e comunque, un passo avanti verso la meta finale, che è ciò che tutta quanta l’umanità, lo sappia o no, desidera ardentemente. Ne consegue che l’idea di regressione storica è bandita. Tutto ciò è assai consolante, ma anche illusorio”. Per Pellicani esiste un altro modo di concepire la storia che evita sia il conservatorismo paralizzante delle teorie che negano l’idea stessa di progresso che l’illusorio ottimismo dello storicismo romantico: “Tale modo è quello illuministico. Anche l’illuminismo ha prodotto filosofie progressiste. Ma l’illuminismo non concepisce il progresso come una necessità storica. La concezione illuministica del progresso è problematica. Si basa sulla categoria della possibilità anziché su quella della necessità. In quanto socialisti non possiamo non appoggiarci a una filosofia progressista. Falsa è l’idea di trasformare il progresso in una legge necessitante e consolatoria, non già la convinzione ragionata che possiamo compiere ulteriori passi nella direzione di una società più vicina alla costellazione dei valori liberal-socialisti”.

5. Gli anni Ottanta furono anni fervidi per il riformismo socialista italiano, non solo perché coincisero con il lungo periodo dei governi Craxi, ma anche perché sul piano teorico vennero rinverdite e reinterpretate le fertili teorie revisioniste del socialdemocratico tedesco Eduard Bernstein (1850-1932) e di un altro grande pensatore italiano Carlo Rosselli, autore dell’opera “Socialismo liberale” scritta al confino di Lipari ove il regime fascista lo aveva relegato prima di assassinarlo nel 1937. Questo fervore intellettuale porteranno il socialismo italiano ad anticipare di qualche lustro una visione utile per tutti i progressisti europei del XXI secolo, mentre la sinistra comunista italiana sta ancora a fare i conti coi residui del leninismo. Non furono insomma anni dissipati, rappresentati da una frivola “Milano da bere”, l’icona spregiativa cui la propaganda populista di fine secolo volle ricondurre gli anni Ottanta. Furono anni di meditazione teorica per “governare il cambiamento”: il socialismo non viene considerato come una meta prefissata meccanicamente, ma come un metodo d’azione (“il movimento è tutto, il fine è nulla” affermava Bernstein). La socialdemocrazia è concepita come “liberalismo organizzatore” che promuove una giustizia retributiva atta a ben temperare l’economia di mercato. I Club socialisti, partendo dagli studi di Paolo Sylos Labini sulle classi sociali, anticipano nel marzo 1981 la teoria dei “meriti e bisogni” che Claudio Martelli, vicesegretario del Psi, proporrà alla Conferenza socialista di Rimini del 1982: “Le rivoluzioni tecnologiche – scrive a nome dei Club socialisti lo stesso Bruno Pellegrino – comportano profonde trasformazioni nell’organizzazione del lavoro, l’emergere di nuove figure professionali, l’estendersi della fascia di lavoratori intellettuali addetti all’organizzazione della produzione, dei quadri intermedi, dei tecnici ad alta specializzazione. Gli sviluppi tecnologici favoriscono, nelle società contemporanee avanzate, una riduzione del bisogno di mano d’opera nell’industria, mentre i servizi assorbono progressivamente occupazione e migliorano la qualità dell’offerta. Questa tendenza, visibile in tutti i paesi del mondo occidentale sviluppato, in Italia è accompagnata da un diffuso pregiudizio, soprattutto della cultura vetero-marxista, quasi che il settore dei servizi sia sinonimo di spreco e di inefficienza, un costo da ridimensionare. Si pone la questione della cosiddetta ‘centralità operaia’ che tanto ha condizionato la cultura politica della sinistra italiana. Senza un allargamento del consenso ai ceti emergenti, ai ceti professionali, agli addetti ai servizi è impossibile una politica di progresso e di riforma in un sistema democratico. I lacci e lacciuoli di una visione schematica delle classi e dell’organizzazione produttiva devono assolutamente saltare”.
Argomenterà poi Martelli alla Conferenza riminese teorizzando l’alleanza tra il merito e il bisogno: “Le donne e gli uomini di merito, di talento, di capacità, sono le persone utili a sé e utili agli altri, coloro che progrediscono e fanno progredire un insieme o l’intera società con il loro lavoro, con la loro immaginazione, con la loro creatività, con il produrre più conoscenze: sono coloro che possono agire. Le donne e gli uomini immersi nel bisogno sono le persone che non sono poste in grado di essere utili a sé e agli altri, coloro che sono emarginati o dal lavoro o dalla conoscenza o dagli affetti o dalla salute: sono coloro che devono agire. Senza tener ferma questa alleanza, questa duplicità di destinatari, il riformismo moderno rischierebbe di degenerare in opportunismo, o di rifluire nel classico massimalismo. Ancora, se separiamo il merito dal bisogno, il riformismo diviene o tecnocrazia o assistenzialismo; se invece uniamo o alleiamo il merito e il bisogno, il riformismo moderno può produrre una svolta all’altezza dei tempi, può interpretare il tempo, può governare il cambiamento”.

6. Poi venne “Tangentopoli” con i finanziamenti politici irregolari a seppellire nel discredito una delle stagioni più prolifiche del riformismo italiano, un eresia appunto. Ma questa è un’altra storia. O no? Scrive l’ambasciatore ed editorialista del “Corriere della Sera” Sergio Romano in “Finis Italiae” (ed. All’insegna del pesce d’oro, 1995): “Intravedo all'orizzonte un'altra menzogna: gli italiani stanno addebitando Tangentopoli a Bettino Craxi e a qualche centinaio di uomini politici, imprenditori, funzionari. Sanno che è una bugia, ma cederanno probabilmente alla tentazione di credervi per assolversi in tal modo da questo peccato. E dopo, temo, avranno un'altra ragione per disprezzarsi”. A tale proposito - aggiungo - è probabile che l'autodisprezzo lieviterà ancora quando, raggiunta la consapevolezza di aver fatto dei socialisti i capri espiatori della cattiva coscienza nazionale, rileggeranno gli inascoltati richiami alla mitezza dei pochi garantisti che provavano a proporre un richiamo al discernimento ed alla moderazione durante la tracimazione dell'ondata illiberale e giustizialista degli anni '90. “La molla di Craxi non era l'arricchimento personale, ma la politica”: parole inascoltate dalla turba e dai capipopolo a cui conveniva dipingere il leader socialista come un ladro, addirittura un “criminale matricolato”. Peccato, perché le inascoltate parole sopra citate provengono dall' insospettabile magistrato Gerardo D’Ambrosio - vicecapo del pool milanese ‘Mani pulite’ - e sono state riportate in una intervista del 23 febbraio 1996. D'altronde molti degli ostili avversari di Craxi si finanziavano ben più corposamente del partito socialista, avendo nel contempo l'impostura - che Craxi per schiettezza non ebbe - di negare che la politica ha dovuto anche ricorrere a finanziamenti “aggiuntivi” rispetto a quelli ufficiali. Si poteva e si doveva trovare una soluzione politica generale al problema del finanziamento dei partiti, un problema non solo italiano ma europeo. In Italia negli anni ’90 si preferì la via giudiziaria, colpendo taluni e salvando altri, soffiando sul fuoco della protesta concentratasi nel referendum che abolì a furor di popolo il finanziamento pubblico ai partiti; salvo poi procedere – dopo aver eliminato gli avversari - a ridicolizzare il verdetto popolare moltiplicando per almeno cinque volte il finanziamento statale alla politica con la formula dei “rimborsi elettorali”. Emilio Lussu, spirito libero della sinistra italiana, avrebbe commentato: “Il vero peccato non è commettere una infrazione alle leggi di nostro Signore, ché tutti siamo dei deboli mortali, ma fingere di essere virtuosi e agire da imbroglioni”.
Su Bettino Craxi piombò infine anche la reiterata invettiva di “immorale latitante” per essere espatriato in Tunisia - dove morì in semplicità, fuor “dagli ori e dagli agi” immaginati dagli avversari - rifiutando i processi politico/giudiziari intentatigli in patria. L’elite in malafede e la moltitudine degli sprovveduti fingono di ignorare o ignorano proprio che egli è in buona compagnia: “latitanti” (secondo il gergo tecnico-carcerario), “fuoriusciti”, “rifugiati”, “esuli” (nel lessico letterario più gentile) furono Garibaldi, Turati e Pertini. Ma probabilmente il latitante più illustre della storia italiana fu il Padre della nostra lingua, finito per ritorsione sotto accusa di concussione. Dante Alighieri, che come priore aveva ratificato una condanna contro tre banchieri papali, finì a sua volta perseguito dopo che papa Bonifacio VIII riprese il controllo di Firenze. “Fu giudicato colpevole di aver ricevuto denaro in cambio dell’elezione dei nuovi priori, di aver accettato percentuali indebite per l’emissione di ordini e licenze a funzionari del Comune e di aver attinto dal tesoro di Firenze più di quanto correttamente dovuto” (testualmente in Carlo A. Brioschi, “Breve storia della corruzione dall’età antica ai giorni nostri”, Tea ed., Milano, 2004, p.55). Dante non si presentò al processo - si difese dunque dal processo, non nel processo che reputava evidentemente persecutorio - e fu condannato a morte in contumacia. Fu così che a 37 anni intraprese la strada dell’esilio, della “latitanza” avrebbero detto altri nella parlata tribunalizia del XX secolo. Per quest’ultimi, anche Dante, “ghibellin fuggiasco”, sarebbe stato dunque un individuo altamente “immorale”? O, propriamente - come altre personalità della storia, grande o minuta, prima e dopo di lui - un perseguitato politico?


Nicola Zoller
Rovereto
n.zoller@trentinoweb.it
tel. 338 2422592














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