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Storie proibite: Avanti!/Rosmini
Natale 2013

1) Nel Natale del 1896 nacque l'Avanti. Nel Natale del 2013 presentiamo il video sulla storia dell'Avanti di Ugo Intini, che puoi vedere clikando qui sotto

http://www.avantionline.it/2013/12/buon-compleanno-avanti-la-storia-di-un-giornale-la-storia-dellitalia/

http://www.avantionline.it/2013/12/sotto-lalbero-dellavanti/

2) Natale 2013 per Rosmini: memento laico per il santo proibito

Le scuole superiori roveretane e trentine nel corso dell’anno 2013-2014 dedicheranno un apposito spazio formativo alla ricerca sull’ opera del grande roveretano Antonio Rosmini. Alle alte riflessioni proposte dagli studiosi, aggiungerei questo mio commento al libro di Michele Dossi, "Il santo proibito – La vita e il pensiero di Antonio Rosmini", edito da Il Margine.

-di Nicola Zoller*

La grandezza di Antonio Rosmini (Rovereto 1797 – Stresa 1855) la ritroviamo nella fortezza spirituale dei suoi seguaci, che per oltre un secolo dopo la morte del prete roveretano ne riproposero il pensiero - onorandone la memoria contro le ostilità dei detrattori – fino a giungere alla beatificazione del 2007 promossa da Giovanni Paolo II, suggellata da queste parole: «Ritroviamo in lui una coerenza profonda e misteriosa: Rosmini, sebbene uomo del diciannovesimo secolo, trascende il proprio tempo e il proprio spazio per divenire testimone universale il cui insegnamento è ancora oggiAggiungi un appuntamento per oggi importante e opportuno». Piero Coda – eminente teologo – lo inserisce tra quei «coraggiosi profeti di riforma… quasi sempre in anticipo sui tempi e precursori di un nuovo linguaggio della fede: e per questo non di rado incompresi e avversati». Dopo questa premessa - che verosimilmente ha spinto anche i profani come noi ad approfondire la ricerca attorno ad Antonio R osmini – provo a ripercorrere la vita e il pensiero di Rosmini seguendo l’opera dedicatagli da Michele Dossi, Il santo proibito – La vita e il pensiero di Antonio Rosmini (Il Margine, Trento, 2007). Già nel titolo è ripreso il proposito dell’autore: recuperare “l’unità perduta” tra vita santa e pensiero “pericoloso” del Rosmini. Infatti la polemica antirosminiana si incentrò sovente sulla separazione di questi due aspetti, non potendo i detrattori disconoscere mai la “santità” di vita del grande roveretano. Dunque Rosmini manifestò subito passione per gli studi filosofici e religiosi. Nel 1816 si diplomò con esame sostenuto da privatista all’Imperial Regio Liceo di Trento, mentre svolse a Padova gli studi teologici universitari: fu ordinato prete nel 1821. Secondo Dossi è dall’esperienza padovana che emersero i primi elementi della dottrina rosminiana. A Padova la nuova dominazione austriaca post-napoleonica aveva da poco fissato per gli studi teolog ici una “impostazione funzionale alle esigenze governative”. Per reazione Rosmini cominciò le riflessioni “sul rapporto tra religione e politica, sulla libertà della Chiesa dagli interessi delle potenze mondane e sul papato come ultimo baluardo dell’indipendenza della coscienza religiosa rispetto alle strumentalizzazioni politiche”. Ne nacque una perorazione della missione salvifica della Chiesa che lo portò a mettersi in sintonia con gli ambienti ecclesiastici dei cosiddetti “zelanti romani”, uomini di Chiesa che univano “una profonda religiosità a posizioni di strenua difesa dei diritti papali contro ogni compromissione politica del messaggio evangelico”. Durante il suo primo viaggio a Roma nel 1823, Rosmini incontrò Pio VII, il papa perseguitato da Napoleone che era diventato “il simbolo vivente dell’eroica resistenza della Chiesa al dispotismo politico”. Alla morte del papa, Rosmini ne scriverà un Panegirico esaltandone la grandezza spirituale e il s uo ruolo storico. Dossi rileva che questa intervento poteva coincidere con “le tendenze ecclesiastiche più tradizionali e restauratrici”, chiuse alle esigenze della modernità. In realtà Rosmini magnificava la “grandezza paradossale” di Pio VII, un papa anziano e umiliato che proprio in quanto “apparentemente sconfitto poteva ergersi a campione della giustizia disarmata contro il dispotismo e la violenza dei poteri mondani”: in questo caso c’era di mezzo Napoleone, ma il riferimento poteva essere esteso a “tutti i potentati ostili alla libertà della Chiesa”. Non è dunque casuale che il Panegirico rosminiano – recitato nel settembre 1823 nella Chiesa di San Marco a Rovereto e che “si chiudeva con un’appassionata invocazione a Dio per il bene dell’Italia” – sia riuscito ad irritare le autorità austriache: ne venne censurata la pubblicazione, che avverrà in forma anonima solo nel 1831 a Modena. Questo precedente spiega la successiva evoluzione della p osizione rosminiana sul futuro italiano. Dopo il 1826 Rosmini si spostò nel milanese e poi in Piemonte. A Milano incontra Alessandro Manzoni con quale stabilisce subito “un profondo rapporto di sintonia spirituale e di stima intellettuale”. Sull’ ancien régime e la rivoluzione francese Rosmini è più conservatore di Manzoni anche se poi finiscono per condividere il giudizio sulle “gravi responsabilità della monarchia assoluta che avrebbero condotto all’esasperazione rivoluzionaria una protesta giusta e legittima”. Sul Risorgimento italiano condividono entrambi l’ideale di indipendenza nazionale, pur sostenendo formule diverse: Rosmini propende per la proposta federalista neoguelfa, mentre Manzoni preferisce una soluzione unitaria quale “unico possibile antidoto agli egoismi provinciali, vera causa della rovina d’Italia”. Entrambi infine vanno considerati esponenti dei quel “cattolicesimo liberale” che difende con un sacrale rigore quasi giansenistico “la coscienza personale e la sua libertà”. Spiega meglio l’autore Dossi: “Furono liberali, difensori però non di una libertà 'moderna' con cui il cattolicesimo dovesse venire a compromesso, ma fautori di una libertà generata dallo stesso messaggio evangelico e coltivata all’interno della più autentica esperienza ecclesiale, per sua natura 'amica della libertà'”. Mano a mano, tra Rosmini e Manzoni si venne a instaurare “una delle più alte amicizie della storia culturale italiana” che un testimone autorevole dei loro rapporti - Ruggero Bonghi - così definisce: “Il Manzoni era al Rosmini il poeta del cuor suo; il Rosmini era al Manzoni il filosofo della sua mente”. E conclude con un’osservazione che sorprenderà i più: “Il Manzoni però sentiva nel Rosmini una natura praticamente superiore alla sua; e questo suo sentimento si manifestava in un ossequio profondo e schietto”. È proprio nell’ambiente milanese che Rosmini comincia a fissare i temi del suo pe nsiero filosofico. Tra questi rientra la polemica contro il 'sensismo'. Dossi rammenta che i sensisti erano tra gli eredi della filosofia illuministica, coloro che affermavano l’assoluta dipendenza della conoscenza umana dai dati della sensazione e l’impossibilità da parte dell’uomo di superare attraverso la sua ragione gli stretti limiti del mondo materiale. Molti potevano interpretare la critica di Rosmini al sensismo “come rifiuto tradizionalista delle nuove teorie illuministiche”. Invece si è trattato di una difesa della ragione umana: egli intende smarcarsi dagli ambienti teologici che utilizzando a proprio modo le teorie sensiste puntavano a “deprimere l’umana ragione, per proclamare un apparente trionfo della fede guidata dal principio di autorità”. Rosmini ritiene, all’opposto, che la distruzione della ragione finisca sempre col “condannare e distruggere la fede”. Il cristianesimo può invece servirsi della ragione e della filosofia, «la fede cristia na non annulla la fatica del pensare»: utilizzando il magistero di papa Pio VIII, Rosmini rammenterà che «per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello del prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione». Ribadiva il concetto con queste parole: «I credenti sono anche pensanti: credendo pensano e pensando credono… se la fede non pensa, è nulla». Rosmini afferma che la sua raziocinante ricerca filosofica nasce «dagli intimi visceri del Cristianesimo»: si pone così in ardita dialettica con le posizioni illuministiche che liquidavano la religione come una forma di irrazionalità; ma specialmente si contrapponeva agli ambienti teologici ed ecclesiastici che equiparavano la ricerca razionale all’ateismo. Per Rosmini occorreva dunque riprendere gli studi filosofici «senza i quali anche la teologia è destinata a ridursi a poca cosa». In questa direzione, prima di arrivare all’opera più nota di Rosmini Delle cinque p iaghe della Chiesa, accenniamo brevemente ma doverosamente al suo Nuovo saggio sull’origine delle idee concluso nel 1830. «La ricerca filosofica di Rosmini – spiega Dossi – va compresa su questo sfondo: per il credente non può essere indifferente la questione dell’intelligenza e del suo rapporto con la verità; infatti la fede risulta mortificata, se non vanificata, sia in un contesto di smisurata esaltazione dell’intelligenza (razionalismo), sia in una situazione di totale sfiducia conoscitiva (scetticismo)». Che fare? «Ad una pseudo-intelligenza aggressiva e dispotica che vede pericolosamente affermarsi nella modernità, Rosmini contrappone un’intelligenza rispettosa, altruistica, un’intelligenza – come egli arriva a dire - 'amativa': la persona opera un decentramento da sé, lascia spazio a ciò che vuole conoscere, percepisce l’oggetto nel suo proprio modo di 'essere'. Pensare significa dunque riconoscere l’'essere' di ogni realtà». Ecco dunque che l’i dea dell’'essere' - scrive Rosmini - «è quella che costituisce la possibilità che abbiamo di uscir di noi… cioè di pensare a cose da noi diverse». Tale idea «più che un contenuto specifico della mente, è la condizione di apertura infinita che consente all’intelligenza di conoscere, cioè di fare spazio all’affermazione di ogni realtà nella sua specificità e diversità». Da questa idea dell’'essere' – a cui in campo filosofico è legato il nome di Rosmini – deriverà anche la sua dottrina sulla «dignità assoluta» di ogni persona, un concetto ben declinato nell’altro capolavoro rosminiano pubblicato nel 1831, i Principi della scienza morale, che l’eminente filosofo cattolico novecentesco Augusto Del Noce considera «la più grande opera etica di tutti i tempi». C’è convergenza tra dottrina dell’intelligenza e dimensione morale. «La formola della morale è l’amore universale, l’amore di tutti gli esseri, di tutti i beni, l’amore che tanto si stende quanto si stende la cognizione, cioè a dire all’infinito». Amore «nell’ordine suo naturale», precisa Rosmini: al di sopra di tutto c’è l’amore verso l’essere sommo, Dio. Ma all’amore di Dio – riferisce Dossi – «si connette direttamente l’amore verso la persona umana, l’ente che possiede il massimo valore tra quelli che l’intelletto conosce nell’ordine naturale; la legge morale impone il rispetto primario della persona: essa non va mai pensata come semplice mezzo in vista di altro, essa è sempre un fine di fronte al quale la considerazione di ogni altra cosa deve cedere il passo». Quello di Rosmini è una «visione della vita come tendenza affettuosa dell’essere verso l’essere», verso tutti gli esseri, a partire dall’uomo. Si sente qui la voce di Francesco d’Assisi: l’etica rosminiana con i suoi tratti di «equilibrio, pace, tranquillità, fiduciosa attesa» appare inattuale per la vita contemporanea «agonistica e concorrenziale». « Ma forse – conclude Dossi – si tratta di una inattualità da tenere cara, un’inattualità buona, feconda e stimolante, tale da consentirci di considerare Rosmini un buon maestro di vita e di pensiero, anche per far fronte alle inedite sfide etiche dell’oggiAggiungi un appuntamento per oggi»: La ricerca di Dossi dedica un capitolo, il sesto, alle 'polemiche rosminiane' sollevate dall’imponente produzione di opere intellettuali del Rosmini dagli anni ’30 in poi (Filosofia della politica, Filosofia del diritto, Il rinnovamento della filosofia, Sistema filosofico, Trattato della coscienza morale, Teodicea, Teosofia). Rosmini è passato alla storia come vittima di censure e persecuzioni. Eppure anch’egli fu un polemista vivace, fino ad apparire intollerante: in realtà egli teneva molto al «dovere intellettuale della confutazione» e alla ricerca della verità attraverso una forte dialettica. Così vedremo Rosmini 'confrontarsi' non solo con i laici eredi della tradizione illuministica italiana, ma anche con Vincenzo Gioberti e coi gesuiti. Ma in ogni caso - annota Dossi - anche negli scontri più aspri o di fronte alle accuse più ingiuste, il primato doveva spettare alla carità, per cui Rosmini raccomandava nel dibattito filosofico una certa «freddezza di mente, non però di cuore»: la forza della confutazione doveva essere sempre rivolta contro gli argomenti e non scadere mai in mancanza di rispetto alle persone. Resta comunque da registrare questa schietta accusa di Carlo Cattaneo: «Voi avete accusato di bassezza Alfieri, di plagio e forsennatezza Foscolo, avete chiamato plagiaro, bugiardo, sleale, ateo Romagnosi. Contro Beniamino Constant avete scritto un libro intitolato Istoria dell’empietà; avete scritto un libro contro Foscolo; un libro contro il conte Mamiani, quattro libri contro Gioia. La vostra vita letteraria è una continua implacabile invettiva». Tuttavia Dossi parla di fraintendimenti e cita altri due casi di accuse poi ritrattate. Vincenzo Gioberti dapprima sentenziò: «Io tenni per lungo tempo il Rosmini come uomo generoso e santo; ho poi saputo ch’egli è maligno, arrogante e presuntuoso». Dopo smentì queste dichiarazioni: «Ebbi poscia a dolermi della vivacità del dettato, quando conobbi il Rosmini e cominciai anch’io a venerare con tutta Italia tanta sapienza e tanta virtù». Ci fu anche la seconda moglie di Manzoni, Teresa Borri Stampa, propensa in un primo momento a definire Rosmini «come persona di piccola statura, dalla testa grossa, che ha l’aria di credersi superiore a tutti (compreso Manzoni) e non accetta nella discussione un vero contradditorio. Successivamente, dopo un’approfondita conoscenza di Rosmini, Teresa divenne una sua ammiratrice, devota addirittura». Un altro capitolo fondamentale è dedicato da Dossi a «La persona e la politica», nel quale si descrive l’evoluzione del pensiero politico rosminiano. «Partito da posizioni teoriche vicine all’ideologia della Restaurazione – sintetizza Dossi ��� Rosmini giungerà ad una prospettiva che pone al centro della riflessione politica il tema della giustizia, e quindi la questione della tutela e della garanzia dei diritti di tutti gli uomini». Dal considerare «naturale» la disuguaglianza tra «inferiori e superiori» e la differenza in proprietà di beni e di possedimenti, approderà ad una chiara dottrina dei diritti della persona e della sua «infinita dignità». La persona non può essere coartata da nessun dispotismo, che - attenzione - non è solo quello dei tiranni «ma anche quello dei demagoghi, quello delle masse, perfino quello dei parlamenti eletti a suffragio universale, un dispotismo quest’ultimo, rivestito della veste magnifica d’una perfetta legalità». Emerge qui l’approdo politico cattolico-liberale di Rosmini, contro «ogni pretesa dello Stato di essere portatore di un proprio specifico bene, da realizzare anche a costo di prevaricare sui diritti delle persone e delle altre formazioni sociali» in nom e appunto di un bene decretato dall’alto di una politica dispotica. A questa posizione si collega la critica rosminiana al «perfettismo», ossia al sistema di pensiero che ritiene possibile «togliere affatto dal mondo ogni miseria e rendere gli uomini tutti ricchi e felici» C’è qui una critica alle forme «più astratte ed estremizzate del socialismo del suo tempo»: sarebbe una leggerezza antropologica pensare di eliminare tutti gli stati di debolezza in cui viene a trovarsi l’uomo (dalle malattie alle devianze, all’imponderabilità delle disgrazie e dei disastri naturali come i terremoti, etc.). Se è agevole dunque criticare le «utopie perfettiste», d’altro lato il cristiano avverte che la presenza del male mette in forse «la vicinanza di Dio al mondo e la sua bontà provvidenziale». Rosmini cercherà tormentosamente con la sua Toedicea di «mostrare che la bontà di Dio non abbandona mai gli uomini al male, anche se permette che il dolore, la persecuzione, la mo rte portino ad essi la loro terribile sfida. La felicità umana rimane una felicità 'difficile'. In questa difficile felicità che richiede quotidianamente fedeltà ed impegno, in questa salvezza offerta a tutti ma acquistabile sempre a caro prezzo, Rosmini ha indicato il senso più profondo della storia, che solo la rivelazione cristiana consente faticosamente di decifrare». Con ciò Rosmini non riesce a 'sistemare' i drammi della storia. Ma offre all’uomo che vuole impegnarsi una via d’uscita, che è quella della carità: «chi è buono fa il massimo, non il minimo, e deve farlo sempre». La vera carità sta solo nell’azione, non è un concetto della mente, una sterile parola: «ella è tutta azione, tutta vita, tutta opera». Racconta Dossi che «la carità in azione Rosmini seppe testimoniarla fin dai suoi anni giovanili, nell’esercizio della massima generosità e sollecitudine verso chiunque fosse nel bisogno. Diede fondo al suo patrimonio in innumerevoli opere di bene ficienza e richiamò continuamente i suoi confratelli all’azione diretta in favore di ogni situazione di povertà, invitandoli ad esercitare una carità ''ingegnosa ed anche ardita, non arrossendo di domandare l’elemosina ai più ricchi e più pii signori'' in modo che le necessità dei più sfortunati non avessero ad aspettare». Si deve richiamare che la carità di Rosmini è una soluzione di carattere religioso, è una beneficienza che ha il compito di rimediare alle deficienze dell’ordine costituito e delle leggi esistenti. Ma comunque egli insinua dei principi riformatori nel dibattito politico dell’epoca. Siccome gli uomini in quanto persone sono tutti uguali davanti a Dio, ecco che nel progredire dell’umanità «si faranno più uguali che sia possibile le proprietà», una tesi arditissima che porterà Luigi Bulferetti ad inserire Antonio Rosmini fra i pensatori sociali ricompresi nella sua opera Socialismo risorgimentale (Einaudi, 1975). In realtà Rosmini non può essere considerato affatto un proto-rivoluzionario: intendeva invece difendere «un ceto di famiglie di antica laboriosità e costumatezza» contro i «nuovi ricchi» che accumulando smisurate ricchezze potevano minacciare un equilibrato progresso sociale. Occorreva piuttosto - «nel tendenziale perfezionarsi dell’umanità» - favorire «un fisso e libero sostentamento» per ogni famiglia, eliminando mano a mano le «necessità dei nullatenenti». Sul piano politico - osserva Bulferetti – Rosmini auspicava un «buon principe riformatore» che inserisse nel sistema monarchico «qualcosa della repubblica» nella quale – notava il Rosmini - «la disuguaglianza delle condizioni è nocevole e odiosa». È l’ora di venire all’opera alla quale è maggiormente legata la figura di Rosmini Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa. Egli invocò – accanto ad una riforma della società nelle forme che abbiamo appena visto – una più radicale riforma della Chiesa. Dossi rileva che «il nucleo ispiratore di tutta l’opera è il tema della libertà della Chiesa dai poteri mondani». Scritta nei primi anni ’30 del 1800, Le Cinque Piaghe vennero pubblicate a Lugano in modo anonimo nella primavera del 1848, nella temperie liberale «carica di speranze del primo Quarantotto italiano». Perché liberarsi dei vincoli dei poteri mondani? Un tempo, a cavallo tra l’era romana e il Medioevo, la Chiesa aveva svolto una 'gloriosa' funzione di soccorso, affinché «società violente e tiranniche, fondate sulla schiavitù e l’arbitrio, fossero convertite ad una convivenza giusta e fraterna». Ma ora i tempi sono tanto cambiati, e la Chiesa non può mescolare «fedeltà evangelica» e «fedeltà politica» e rischiare di ridursi a gendarmeria dei sovrani. Questi termini usati da Rosmini sono tanto coraggiosi da mettere «in discussione quelle solidarietà culturali, politiche, economiche che storicamente avevano segnato in negativo la vicenda della Chiesa e ne avevano apert o e reso doloranti le 'piaghe'». La prima piaga è la «divisione del popolo dal clero nel pubblico culto». Occorre ridare al popolo cristiano un ruolo più attivo, come lo aveva nella Chiesa primitiva. La seconda piaga è «l’insufficiente educazione del clero». Presa da incombenze politiche e amministrative, la Chiesa dal Medioevo in poi ha sottovalutato lo studio della dottrina cristiana e le funzioni pastorali dell’evangelizzazione e della carità. Le sedi vescovili divennero «rigurgitanti di militari e cortigiani» mentre «la cura pastorale de’ popoli fu così insensibilmente abbandonata quasi del tutto al basso clero». La terza piaga «è la disunione de’ vescovi» determinata dalle lotte per la conquista dell’episcopato. Con l’età feudale si passò «dall’episcopato povero e faticante nella predicazione del Vangelo e nella cura immediata delle anime» a vescovati che amministravano «abbondanti ricchezze». Per questa carica concorrevano «tutti quelli che andavano in cerca di una temporale fortuna», diventando un premio che il potere politico e i principi elargivano ai «loro adulatori» o ai loro ministri, «o pure collocamenti pe’ loro figlioli cadetti o anche naturali». La quarta piaga è «la nomina de’ Vescovi abbandonata al potere laicale». Quasi la metà delle Cinque Piaghe è dedicata a questo 'scandalo'. Se i Vescovi venivano scelti dal potere politico, il popolo cristiano era spesso costretto «ad accettare - in contrasto con l’originaria prassi ecclesiale – pastori sconosciuti ed estranei». La proposta di Rosmini è che sia il clero ad eleggere i Vescovi, ma riconoscendo al popolo «il diritto di avere de’ pastori a lui ben accetti, i quali godano la sua stima e la sua confidenza». Quindi prima della nomina episcopale sarebbe stato «doveroso un accertamento dell’esistenza di questi sentimenti di apprezzamento e di amicizia del popolo cristiano nei confronti del suo futuro pastore» consentendo così al nu ovo vescovo «la saggezza dell’ascolto e della consultazione frequente». La quinta piaga è «la servitù de’ beni ecclesiastici». Quest’ultimi avrebbero due sole finalità legittime: il sostentamento del clero, che non doveva andare oltre «lo stretto bisogno», mentre tutto il resto andava utilizzato per il «sollievo degl’indigenti». Se la Chiesa abusa dei suoi beni e accetta privilegi e immunità dal potere politico, è in grave pericolo. «La Chiesa primitiva era povera, ma libera» argomenta Rosmini, e trattava le ricchezze con prudenza secondo la massima «della facilità in dare e della difficoltà in ricevere». Ora invece si accettano, oltre ai beni, anche protezioni esagerate dal potere politico, come l’esenzione dalle imposte. Se con tali esenzioni sui beni ecclesiastici si provvedesse allo stretto mantenimento del clero «o il di più si desse a’ poveri», non sarebbe un favore iniquo alla Chiesa, precisa Rosmini. «Ma trattandosi di beni eccedenti tali bi sogni… è ragione che paghino come tutti gli altri». La conclusione di Rosmini è che la Chiesa non ha bisogno di privilegi e di protezioni, ha bisogno solo della sua libertà: «è scoccata l’ ora in cui impoverire la Chiesa è un salvarla». Il prof. Dossi conclude con questo pregnante commento: «Le Cinque Piaghe sono uno dei più appassionati ed originali documenti del riformismo ecclesiale di ogni tempo. Il 1848 sembrava l’anno propizio alla ricezione e alla valorizzazione di questo scritto rosminiano. Ma la primavera del Quarantotto, iniziato sotto il segno delle più grandi speranze, si chiuderà con il gelo della seconda Restaurazione di cui sarà vittima anche il sogno riformatore di Rosmini». Precisiamo che l’itinerario di Rosmini non fu rettilineo. Da alfiere della 'Santa Alleanza' tra Austria, Prussia e Russia, definita «un accordo di onestissimi e potentissimi prìncipi, retti dalla giustizia e dalla santità della fede», e dalla condanna recisa dei moti carb onari e liberali del 1820-21, Rosmini passò a sostenere i valori della libertà sia ecclesiale che politica. Nel 1846 salutò con entusiasmo il nuovo papa Pio IX, considerato un rinnovatore; sostenne la nascita del giornale di Cavour Risorgimento; guardò con ammirazione alla sollevazione dei milanesi contro l’Austria nelle 'Cinque giornate'; considerò il 1848 l’occasione sia per l’Italia che per la Chiesa di scrollarsi di dosso l’asservimento all’Austria. La Chiesa in particolare avrebbe potuto rinvigorirsi aprendosi ai moti dei popoli europei. Rosmini progettò un risorgimento comune dell’Italia e della Chiesa stendendo tre pubblicazioni, - Progetto di costituzione per lo Stato Romano, La costituzione secondo la giustizia sociale, Sull’unità d’Italia – pensando ad una soluzione federale del problema italiano e ad una conciliazione tra Risorgimento del Paese e papato. Nell’agosto 1848 accettò l’incarico del governo sabaudo di coinvolgere il papa nella guerr a contro l’Austria, un incarico proposto da Vincenzo Gioberti, un tempo suo avversario ed ora «suo grande estimatore». Rosmini interpretò l’incarico proponendosi «tre obiettivi fondamentali: appianamento delle diffidenze pontificie verso il Regno di Sardegna; rafforzamento dell’orientamento costituzionale imboccato dal papa con la concessione dello Statuto; legittimazione di una prospettiva di confederazione italiana presieduta dallo stesso pontefice». Ma sul finire del 1848 la situazione precipitò nel peggiore dei modi. Nel novembre venne assassinato il primo ministro di Pio IX, il liberale Pellegrino Rossi, mentre scoppiavano i moti che avrebbero portato alla Repubblica romana. Pio IX fuggì a Gaeta chiedendo a Rosmini di seguirlo. Ma ormai il papa scivolava verso posizioni anti-costituzionali filoaustriache, impersonate dal segretario di Stato cardinale Antonelli. Da protettore del Risorgimento italiano, Pio IX passò ad alfiere della restaurazione. Il progetto politic o di Rosmini era fallito, ma anche quello ecclesiale cadde in disgrazia. Nel giugno 1849 la Cinque piaghe vennero messe all’ 'Indice' con decreto pontificio. Questi i motivi della condanna: 1) voler sostituire le lingue volgari al latino nella liturgia; 2) pretendere che le elezioni vescovili debbano essere prerogativa del clero e del popolo diocesani; 3) respingere e denigrare gli insegnamenti della Scolastica; 4) affermare che i fatti sono di diritto divino, cioè che tutto quanto succede è positivamente voluto da Dio; 5) auspicare la separazione tra Stato e Chiesa, cioè l’assenza di qualunque sostegno della pubblica autorità alla Chiesa stessa. Più che il papa, che «non mancò di confermargli più volte la sua personale amicizia», fu la curia romana ad essergli ostile. Devoto fedele al papa e all’autorità ecclesiale, Rosmini - a differenza di Gioberti, anch’egli finito all’ 'Indice' - non prese le distanze dalla Chiesa e si sottomise alla decisione («extra eccles iam, nulla salus»!). Per ora finiva male quella che potremmo definire la sua 'rivoluzione dall’interno' che «auspicava una Chiesa meno legalistica e più spirituale, meno gerarchica e più comunitaria, meno clericale e più aperta al riconoscimento della dignità e del ruolo ecclesiale dei laici». Ma il tempo – ci volle tuttavia più di un secolo – avrebbe lavorato per lui. Pio IX nel luglio 1854 emise il decreto Dimittantur di proscioglimento di tutte le opere di Rosmini dalle accuse ad esse rivolte e intimava a tutte le parti il silenzio. Era un appoggio di fatto ai rosminiani, che si vedevano accerchiati dalla tracotanza curiale. Ma con l’avvento nel 1878 del nuovo papa Leone XIII - che «nutriva sentimenti anti-rosminiani» - ricominciano le critiche e le censure al pensiero rosminiano, sfociando in una nuova condanna del Sant’Uffizio nel dicembre 1887. I rosminiani resistettero – come riferito all’inizio – ma l’emarginazione del pensiero di Rosmini persistet te nella Chiesa. Tutti comunque indistintamente continuarono a riconoscere a Rosmini l’esemplarità della vita, una vita santa dedicata alla carità, «ma si liquidò il pensiero errato e proibito… un pensiero pericoloso». Poi finalmente venne il riscatto a cui seguirà la beatificazione del 2007. Ciò detto sulla sua eredità spirituale alla fine faticosamente ma degnamente valorizzata, ricordiamo che nella sua vita mortale Rosmini incontrò difficoltà e ostilità che incisero anche sul suo corpo. Di salute fu sempre cagionevole, ma ci sono indizi che portano anche ad un’ipotesi di avvelenamento perpetrato nell’autunno 1854 per dissidi all’interno del suo parentado roveretano, un fatto che avrebbe molto pesato sul suo stato fisico. Nell’estate successiva, il primo luglio 1855, Rosmini moriva a Stresa all’età di 58 anni, ma tranquillamente, in semplicità e santità. Lo vegliò fino alla fine, tenendogli le mani, l’amico antico e illustre Alessandro Manzoni.

Rovereto, dicembre 2013

*Nicola Zoller (Rovereto,1955), studi classici e laurea in Scienze politiche,responsabile commerciale di un'azienda privata nazionale, continua a dedicarsi allo studio del pensiero democratico e socialista.






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