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Il riformismo di Latouche
24 novembre 2013

Da: InfoEUROPEAN SOCIALISTS www.pes.eu
a cura di n.zoller@trentinoweb.it
Data: Sun, 24 Nov 2013
Oggetto: Il riformismo di Latouche

LIBRI * per ri-cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges)
o Autore: Serge Latouche
o Titolo: Breve trattato sulla decrescita serena
- Bollati Boringhieri, Torino, 2007

IL RIFORMISMO DI LATOUCHE
-di Nicola Zoller
in MONDOPERAIO – rivista fondata da Pietro Nenni – novembre 2013, p. 81 s.

Non ci può essere decrescita 'felice' nel senso che è difficile trovare felicità in fallimenti con milioni di disoccupati sulla strada. Ma frugalità intelligente sì, sfrondando le 'crescite' che non sono utili per essere davvero felici. Massimo Gaggi sul Corriere della Sera del 30 marzo 2012 cita il caso 'felice' del Bhutan, lo stato alle pendici dell’Himalaya che ha sostituito il GNP (la sigla inglese che indica il PIL, prodotto interno lordo) con il suo GNH (Gross national happiness). Una felicità, un benessere, misurati su «la qualità dell’aria, le case costruite su terreni incontaminati, la salute dei cittadini, l’istruzione, la ricchezza dei rapporti sociali».
Ecco - credo – sia questo il giusto approccio all’esame del pamphlet di Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, resistendo da un lato alle critiche di chi bolla i teorici della decrescita come degli «ipocriti egoisti» che non considerano i diritti delle persone e dei popoli che sono 'indietro' ad accedere alla crescita; e dall’altro prendendo le distanze dall’elogio sperticato dei nostalgici di un primitivismo pauperistico dove non c’è mai stata serenità e convivialità.
Partiamo da due considerazioni. L’economista Nicholas G. Roegen ha sostenuto una verità incontrovertibile: «una crescita infinita è impossibile su un pianeta finito»; mentre Gandhi ha osservato che «il mondo è abbastanza grande per soddisfare i bisogni di tutti ma non abbastanza per soddisfare l’avidità di tutti, o anche di pochi».
In verità, non è un problema solo di avidità. Ad esempio noi abitanti del Nord del mondo consumiamo troppo, «troppo grassi, troppo zucchero, troppo sale; siamo minacciati dal sovrappeso, rischiamo il diabete, la cirrosi epatica, l’eccesso di colesterolo e l’obesità». Sarebbe dunque molto meglio usare l’abbondanza in modo 'frugale' (e così in effetti è intitolato il libro successivo di Latouche, Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino, 2012).
Nel Nord del mondo abbiamo questi problemi e tra poco vedremo quali soluzioni propone Latouche. Ma nel Sud del mondo? C’è anche qui da lanciare «la sfida della decrescita», affinché quelle società non «vadano a cacciarsi nel vicolo cieco» delle società del Nord. Occorrerebbe partire dalla rottura con «la dipendenza economica e culturale nei confronti del Nord», recuperando le tecniche e i saperi tradizionali. C’è un libro del 1978 di Albert Tévoédjrè, La povertà ricchezza dei popoli, che faceva «l’elogio della sobrietà, inscritta nella tradizione africana, denunciava la dismisura della società della crescita, con la sua creazione deliberata di bisogni fittizi, la sua disumanizzazione prodotta dal dominio dei rapporti monetari e la sua distruzione dell’ambiente; e proponeva un ritorno all’autoproduzione basata sul villaggio».
Idee perdute? No, se si persegue l’obiettivo di una 'buona vita', che comunque deve essere declinato in modi diversi a seconda del contesto. Gli africani «non ancora diventati schiavi delle comodità moderne», potrebbero secondo Pierre Gevaert – che si rivolge all’ancora esteso mondo rurale – adottare alcuni di questi punti: non contare troppo sulle false ricchezze occidentali e dunque ritrovare un massimo di autonomia rispetto a esse; sostituire, almeno in parte, le monete cartacee straniere con una moneta di scambio locale; abolire progressivamente le monoculture da esportazione e sostituirle con colture alimentari non dipendenti da merci importate (concimi chimici, pesticidi, ecc.), ricorrendo al compostaggio, al letame e ad altre materie organiche; in caso di raccolti eccedentari, cercare di trasformare da soli le materie prime agricole, in modo da non entrare nel gioco dei mercati iniqui e da trarre vantaggio dal valore aggiunto della trasformazione; cucinare con il sole, nel forno solare che il falegname locale può costruire a un prezzo accessibile; creare quante più cisterne o bacini possibili per conservare l’acqua piovana.
Sono punti troppo limitati? Sì, ma sicuramente concreti. Però è chiaro che per la realizzazione di qualsiasi forma di alternativa nel Sud, «la condizione principale è la decrescita nel Nord». Se in Occidente riusciremo a dimostrare che la società della decrescita è un «modello desiderabile», anche nel Sud del mondo si farà strada questa idea; ed ancor a maggior ragione troverà spazio in quei Paesi emergenti che si stanno imponendo a livello planetario - Cina, India, Brasile - i quali «sanno che i costi ecologici della loro crescita annullano o superano i suoi benefici».
E veniamo dunque a quello che Latouche definisce un «Programma politico per la decrescita». Ripartiamo dalle premesse: «La nostra 'sovracrescita' economica si scontra con i limiti della finitezza della biosfera… Ogni volta che bruciamo un litro di benzina, abbiamo bisogno di 5 metri quadrati di foresta per assorbire il CO2». In generale «lo spazio bioproduttivo consumato procapite dalla popolazione mondiale è in media di 2,2 ettari… Una civiltà sostenibile richiederebbe di limitarsi a 1,8 ettari a persona, ammesso che la popolazione attuale rimanga stabile. Inoltre, questa impronta media nasconde disparità enormi. Un cittadino degli Stati Uniti consuma 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo 4,5, un francese 5,26, un italiano 3,8». E inoltre: «ogni americano consuma circa 90 tonnellate di materiali naturali vari, un tedesco 80, un italiano 50 (cioè 137 chili al giorno). In altre parole, l’umanità già consuma circa il 30 per cento in più della capacità di rigenerazione della biosfera. Se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero 3 pianeti, e 6 se tutti vivessero come i nostri amici americani».
E’ chiaro che ci vuole un programma stringente? Vediamone alcuni punti, secondo il magistero di Latouche.
1. Recuperare un’impronta ecologica uguale o inferiore a un pianeta, con una drastica diminuzione dei «consumi intermedi» intesi in senso ampio (trasporti, energia, imballaggi, pubblicità), senza colpire il consumo finale. Il ritorno al locale e la lotta agli sprechi daranno un contributo definitivo. In particolare, occorrerà integrare nei costi di trasporto, con le opportune ecotasse, i danni provocati da questa attività.
2. Rilocalizzare le attività, rimettendo in questione l’enorme volume degli spostamenti di uomini e di merci sul pianeta.
3. Restaurare l’agricoltura contadina, e cioè incoraggiare una produzione il più possibile locale, stagionale, naturale, tradizionale.
4. Trasformare gli aumenti di produttività in riduzione del tempo di lavoro e in creazione di posti di lavoro. In Francia – rammenta Latouche – nell’arco di due secoli la produttività oraria del lavoro è aumentata di 30 volte, la durata del lavoro individuale si è ridotta soltanto della metà e l’occupazione è aumentata soltanto di 1,75 volte, mentre la produzione è aumentata di 26 volte. Si tratta di ribaltare le priorità: dividere il lavoro e aumentare il tempo libero.
5. Stimolare la 'produzione' di beni relazionali, come l’amicizia o la conoscenza, il cui 'consumo' non diminuisce le scorte esistenti ma le aumenta. È «il godimento di ciò che non si compra: il piacere che danno una conversazione animata, un pranzo tra amici, un buon ambiente di lavoro, una città dove ci si sente bene, la partecipazione a questa o quella forma di cultura (professionale, artistica, sportiva…), e in più in generale tutte le relazioni con gli altri… Anche l’ultimo dei lupi della steppa – scrive Jean Paul Besset – sarà d’accordo: il 'relazionale' è la parte migliore delle gioie (e dei dolori) dell’esistenza».
6. Penalizzare fortemente le spese pubblicitarie. Si potrebbe addirittura riprendere alla lettera la proposta di Nicolas Hulot: «Si dovrà studiare la possibilità di proibire gradualmente qualsiasi pubblicità durante i programmi destinati ai bambini, e in particolare i messaggi che promuovono prodotti nocivi alla salute. L’obiettivo è di limitare il condizionamento al consumo di telespettatori di un’età che non consente il distanziamento critico necessario rispetto agli stimoli pubblicitari».
7. Puntare sulla tassazione delle macchine, sulla detassazione del lavoro, sulle riforme fondiarie (ricostruire il ceto dei contadini) e su lavori che favoriscono i risparmi di energia e di consumo delle risorse naturali.
«È evidente – conclude Latouche – che l’uomo politico che proponesse un programma del genere e che, una volta andato al governo, cominciasse ad applicarlo, sarebbe assassinato nel giro di una settimana. Con rara lucidità, in un discorso pronunciato all’ONU nel dicembre 1972, il presidente Salvador Allende, per l’appunto assassinato qualche mese più tardi per aver adottato una politica infinitamente meno sovversiva di quella qui proposta, dava di quella politica una motivazione che rimane quanto mai attuale: "Siamo di fronte a un vero e proprio conflitto tra multinazionali e stati. Gli stati non sono più padroni delle loro decisioni fondamentali, politiche, economiche e militari, a causa delle multinazionali, che non dipendono da nessun stato. Le multinazionali operano senza assumersi nessuna responsabilità e non sono controllate da nessun parlamento o istanza rappresentativa dell’interesse generale. In poche parole, la struttura politica del mondo è stravolta"».
Si può sperare in un cambiamento 'praticabile'? Bisogna vedere dove si arriva: emblematicamente Latouche ricorda il programma del Partito socialdemocratico tedesco (SPD) del 1989, che prevedeva «la riduzione del tempo di lavoro settimanale a trenta ore su cinque giorni, a cui dovrebbe aggiungersi il diritto all’anno sabbatico e ai congedi pagati addizionali per i genitori di bambini piccoli e per parenti di persone bisognose di cure». La SPD sosteneva anche la necessità della decrescita: «Deve diminuire e scomparire quello che minaccia di distruggere le basi naturali della vita», tra cui il nucleare e, in parte, l’automobile privata. Tuttavia il programma si fondava sull’idea che la razionalità ecologica e la razionalità economica (cioè capitalistica) potevano coincidere, secondo la famosa strategia del win-win (tutti vincono). «Alla lunga – si leggeva – ciò che è ecologicamente irragionevole non potrà essere economicamente razionale… Le esigenze ecologiche devono diventare i principi di base dell’attività economica. Se ci impegniamo a tempo nella modernizzazione ecologica, aumentiamo la possibilità di conquistare i mercati di domani e miglioriamo la competitività della nostra economia».
Il problema è che un programma ecologico non si attua – come non si è attuato in Germania, né in Europa - se non «si mette in discussione la logica capitalistica». E non solo: anche la logica di ogni società della crescita, di ogni società 'lavorista' va contestata: «Capitalismo più o meno liberista e socialismo produttivista - afferma Latouche - sono due varianti di uno stesso progetto di società della crescita». Occorre un superamento della modernità, possibilmente «senza eccessivi traumi». La prospettiva non è terroristica, con l’eliminazione tranciante dei capitalisti, l’interdizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, l’abolizione del lavoro salariato o della moneta. Latouche ammette che in una società del dopo sviluppo sarebbe ancora possibile parlare di monete e di mercati, di profitto e di salario: tutti istituti affermatisi nel tempo che ora dovrebbero essere 'reinquadrati' in un’altra logica. Qui il discorso si fa complesso e possono insorgere contraddizioni. È importante tuttavia sottolineare che la prospettiva indicata da Latouche si può definire 'riformista', nel senso che non intende sprofondare in guerre civili, come ci hanno abituato tanti visionari comunisti che hanno trasformato i sogni in bagni di sangue. Quello di Latouche è piuttosto un programma politico, la cui realizzazione «obbedisce più all’etica della responsabilità che all’etica della convinzione». Spiega obbiettivamente: «La politica non è la morale e il responsabile politico deve fare dei compromessi con l’esistenza del male. La ricerca del bene comune non è la ricerca del bene assoluto ma quella del male minore. Anche se il realismo politico non consiste nell’adeguarsi alla banalità del male ma nel contenerla all’interno dell’orizzonte del bene comune. Di conseguenza, qualsiasi politica non può che essere riformista, e deve esserlo se non vuole sprofondare nel terrorismo».
Ricapitolando. Il progetto che chiameremo dell’abbondanza frugale è anticapitalista per eccellenza, contro lo sfruttamento delle persone e delle cose; ma in quanto antiproduttivista non può essere accasato negli schemi di una sinistra 'stakanovista' e 'lavorista'. Piuttosto in quello di una sinistra riformista non violenta, che partendo dai valori tradizionali di solidarietà, di fratellanza, di redistribuzione delle risorse e dei redditi punti decisamente alla «riduzione dell’impronta ecologica», cioè dello sfruttamento della natura; e al disconoscimento dell’etnocentrismo occidentale - cioè alla supremazia dell’uomo bianco mercantilista – a favore delle pluridiversità, dunque di un relativismo che premi una vera «democrazia delle culture». Con l’obiettivo di far emergere un 'ecoantropocentrismo' che - superando le tradizioni unilateralmente antropocentriche cristiane e marxiste, mai in grado di favorire un rapporto armonioso tra uomo e natura – valorizzi per sempre il rispetto della natura, l’altruismo, la convivialità.
Segnaliamo infine che c’è un Latouche italiano, con un libro da meditare insieme: è Andrea Segrè con Economia a colori (Einaudi, 2012).
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*LIBRI
1. Come fonte della politica va riconosciuta la cultura, e con essa l’attaccamento agli ideali e il rifiuto del semplicismo. Questa fonte si alimenta attraverso l’amore per i libri. Più d’uno potrà dire che con i libri non si fa politica, che la politica è una cosa pratica, deve “portare a termine fatti”. Ma questo lo si sapeva fin dall’antichità: eppure si premetteva anche che il buon politico doveva “saper pensare e dire parole conseguenti”. Per questo i libri - pensati e scritti da persone che si applicano con competenza in campi diversi - sono importanti: essi ci aiutano ad arrivare ad una consapevolezza che noi singolarmente non avremmo mai raggiunto da soli. La politica alta è fatta anche di questa umiltà: chi pensa di avere le idee innate e di arrivare da solo a soluzioni onnirisolutive è un cialtrone o un despota.
2. E’ attraverso la ricerca culturale che la nostra generazione è stata abituata ad avvicinarsi all’impegno politico. Cosi noi in particolare siamo approdati al socialismo. Un socialismo di stampo europeo - di cui si trovano ampie tracce nei libri commentati in Breviario di politica mite (si può leggere e scaricare in www.socialistitrentini.it ), a partire dal saggio di Norberto Bobbio, Politica e cultura - che ci porta ad aderire a questi impegni programmatici: uguaglianza di opportunità per tutti a partire dall’istruzione, diritto al lavoro, valorizzazione della natura e dell'ambiente, servizi pubblici e sociali efficienti, affermazione dei meriti sui privilegi, sostegno ai bisogni degli ultimi, laicità e libertà civili, giustizia giusta. (Cerca EUROPEAN SOCIALISTS/P.E.S. www.pes.eu)



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