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infoSOCIALISTA
25 ottobre 2005

Info SOCIALISTA – 25 ottobre 2005
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei socialisti e del centro sinistra
n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 – Trento/Bolzano
Quindicinale - Anno 2°

UN LIBRO, per cominciare “Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges

Autore: David Polansky
Titolo: L'IMPERO CHE NON C'E'
Guerini ed., € 16


La storia della politica estera americana in un saggio di David Polansky
Imperialisti per caso
Gli Usa assai di rado si sono affidati alla geopolitica per determinare i loro rapporti con il mondo esterno
di Carlo Correr


Gli Stati Uniti sono una superpotenza, l’unica rimasta dopo l’89, ma sono anche una potenza imperiale? Le accuse in questo senso non sono mai mancate e, soprattutto dopo la guerra all’Iraq, hanno acquistato nuovo vigore. David Polansky, collaboratore giovanissimo – 24 anni - di Limes, ha scritto “L’impero che non c’è. Geopolitica degli Stati Uniti d’America”; un saggio in cui ci spiega che la politica americana si è sempre dibattuta tra pragmatismo e moralismo, tra il difendere i principi o gli interessi. Una dicotomia che ha contribuito a far sì che la geopolitica, assai di rado, fosse utilizzata per determinare le linee principali della politica estera statunitense.

Non c’è dubbio che la storia dell’America sia peculiare e che questo grande Paese, come ebbe a dire il premier britannico Margareth Thatcher, sia “fondato sulla filosofia e non sulla storia”, insomma che il peso dei principi, delle scelte ideologiche, sia stato spesso preponderante.

L’A. ricostruisce le tappe della politica estera americana, sottolineando come, almeno alle origini, l’attenzione dei governi erano rivolta soprattutto alla conquista e alla stabilizzazione di un territorio immenso anche se proprio nei primi passi della nascente superpotenza, non è difficile individuare le tracce di quella che oggi sembra essere la tentazione più forte della superpotenza, ovvero l’idea di essere dalla parte del “bene” perché ispirati da principi di per sé giusti, che consentono di imporre agli “altri” il proprio punto di vista e la propria volontà. Prime vittime gli indiani d’America, e poi i messicani, e poi a mano a mano che aumentavano gli interessi e la nazione si consolidava all’interno, i Paesi circostanti dell’America latina.

La consapevolezza che la difesa dei propri interessi poteva anche entrare in aperto contrasto con i principi sui cui si fondava la nazione, cominciò a divenire evidente all’inizio del secolo scorso. La politica estera acquisì pian piano una dimensione e un’importanza che non aveva quando il campo d’azione era ristretto ai confini geografici del continente. Polansky, al riguardo, cita l’esempio del canale di Panama, la cui costruzione divenne un obiettivo strategico per l’amministrazione Roosevelt che non esitò a fomentare un’insurrezione contro la Colombia pur di avere un regime amico che acconsentisse a negoziare la costruzione dell’opera e l’accordo relativo al suo sfruttamento. In questo caso sottolinea la spinta all’autodeterminazione dei panamensi contro il regime colombiano sottacendo però gli enormi interessi del capitalismo americano che, forse, erano già in grado di condizionare le scelte strategiche dell’amministrzione.

La sensazione che la difesa dei nobili principi alla base della costituzione americana venisse a volte usata per giustificare ben più corposi interessi nazionali, sembra non sfiorare l’A. che così a fianco del sostegno americano al rovesciamento di Somoza in Nicaragua, del mancato sostegno allo Scià di Persia contro Khomeini o all’allora altrettanto indifendibile Marcos nelle Filippine, curiosamente dimentica di citare altri esempi in cui il sostegno a regimi dittatoriali come quello di Sukharno in Indonesia o di Pinochet in Cile, venne mantenuto fino fu possibile.

D’altre parte non sono mancate le occasioni in cui a dispetto dall’enunciazioni di principio le amministrazioni americane, repubblicane o democratiche che fossero, si sono acconciate a seguire i dettami classici della politica internazionale come qualuinque altro governo del Vecchio continente. E paradossalmente i presidenti con le migliori intenzioni hanno ottenuto i risultati peggiori. Polansky, proprio nel caso dell’Iran e del Nicaragua, cita Jimmy Carter, uno dei presidenti che più di tutti ha, almeno formalmente, cercato di perseguire il rispetto dei diritti umani e della democrazia, per sottolinearne i clamorosi insuccessi.

Alla fine l’impressione che si ricava, è che la dicotomia tra pragmatismo e moralismo sia sempre esistita ma abbia viaggiato su due piani diversi: grandi enunciazioni di principio per sostenere le proprie politiche all’interno e all’estero, una robusta realpolitik al momento di realizzarle. Così, ad esempio, l’A. ricorda che alla fine della seconda guerra l’America rifiutò, per motivi di principio, di riconoscere le sfere d’influenza e la legittimità degli interventi sovietici, ma non la delusione dei democratici di tutto il mondo per il mancato intervento a difesa degli ungheresi nel ’56 o della Primavera di Praga nel ’68. Comunque, sia stata o no, consapevole del suo ruolo nel mondo, abbia o meno giocato secondo le regole dell’imperialismo, l’America col crollo dell’Urss è costretta oggi ad assumersi responsabilità planetarie e a scegliere tra la difesa dei propri interessi e le enunciazioni di principio rinunciando alla schizofrenia di comportamenti cui ci ha abituati.


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IL PUNTO DI VISTA SOCIALISTA SULL’ATTUALITA’


Boselli: Rutelli? Conversione dubbia
Il segretario dello Sdi preferisce puntare sulla nuova forza radical- socialista.


• da La Stampa del 19 ottobre 2005, pag. 6

di Fabio Martini
Per cinque anni Enrico Boselli è stato il leader di partito più vicino a Romano Prodi, ma ora davanti all'improvvisa rifioritura dell'ulivo, il presidente dello Sdi sostiene di non essere pentito ad aver scommesso sull'alleanza con i radicali: «La nostra non è stata una ritirata, ma una scelta strategica. La nuova forza radical-socialista si colloca proprio nel punto in cui l'Ulivo è entrato in crisi. Riproporlo acriticamente significa imboccare una scorciatola elettorale».
E seconda lei perché quel progetto sarebbe entrato in una crisi ancora irrisolta?
«E' entrato in crisi per la difficiltà di mettere assieme in una stessa formazione laici e cattolici ma soprattutto per una scelta della Margherita molto profonda: la divisione del lavoro tra sinistra e centro. Con un centro che sta nel calco cattolico-democratico. Dopo quella scelta, Rutelli ha preso le note posizioni sulla fecondazione e le gerarchie ecclesiastiche sono intervenute sui principali problemi del Paese».
Rutelli propone un obiettivo storico - far nascere il partito democratico fra pochi mesi - ma pensa di arrivarci con liste unitarie solo in una Camera: le sembra un tragitto lineare?
«No. Siamo davanti ad una scelta che la Margherita subisce. Una scorciatoia presa perché non ne puo fare a meno, anche se si continua a coltivare un progetto del tutto diverso da quello di Prodi che vuole una grande forza riformista».
L'ha stupita la velocità con la quale Rutelli ha invertito una impegnativa decisione assunta a maggioranza?
«Non ho diritto di giudicare scelte della Margherita che ho rispettato anche quando non mi sono piaciute. Però dietro queste improvvise conversioni non vedo una scelta strategica».
A Prodi, che lei ha sostenuto in momenti difficili, che consiglio si sente di dare?
«A Prodi, che continueremo a sostenere con la stessa lealtà ed amicizia e il cui risultato alle Primarie mi ha reso davvero felice, dico: la tua idea di dare al riformismo quella vocazione maggioritaria mai avuta in Italia, è un grande progetto che noi condividiamo. E se si concretizzerà sara apprezzato da noi radical-socialisti e potremo anche ricongiungerci. Ma fatico a pensare che quel progetto si realizzi grazie ad una lista elettorale fatta più per necessità che per convinzione».
Ds e Margherita non sono Dc e Pci, ma il nuovo Ulivo senza di voi nasce nell'alveo catto-comunista?
«No. I Ds soprattutto grazie a Fassino - e non solo a lui - hanno compiuto un cammino importante. Però sarà interessante capire che atteggiamento avranno sui temi della laicità dello Stato, diventati decisivi in una societa multietnica».
Che effetto le fa lasciare politici "prevedibili" come Prodi o Fassino per affidarsi ad un personaggio come Pannella sempre così insofferente verso i partner?
«Con Marco, Emma, Capezzone e Cappato non abbiamo bisogno di parlarci a lungo. Con loro c'è confidenza. Quando Marco mi chiama il sabato e mi chiede se sono arrivato a Bologna dai miei figli, mi chiede delle cose intime che sei mesi fa non avrei immaginato. Io, noi, in questi anni così difficili ci siamo un po' logorati e trovare compagni così appassionati, mi da forza».
Dunque non cambiate idea, puntate sul nuovo soggetto?
«Noi vogliamo far nascere una nuova forza radicale e socialista, un soggetto che punta alla difesa della laicità dello Stato, alla difesa dei diritti civili che ci sono e alla conquista di nuovi. Una forza che guardi al futuro e non sia un'associazione di reduci o di ex combattenti».
Ci sono ancora forti resistenze ai radicali...
«I radicali rappresentano la migliore tradizione liberale di questo Paese e in questi anni si è sentita la loro assenza dal Parlamento, rimasto un passo indie tro rispetto al Paese. Era sempre accaduto il contrario: i referendum su divorzio e aborto furono chiesti dalla destra contro leggi decise in Parlamento».


Nuovo Psi, Boselli prova a ricucire lo strappo
Avanti con il progetto con i Radicali

lunedì 24 ottobre 2005

''Il coraggio di dire 'esco dal centrodestra e poi apriamo una discussione' De Michelis non l'ha avuto. Questo e' stato il suo limite''. Lo afferma Enrico Boselli, intervistato da 'Il Messaggero', all'indomani del congresso del Nuovo Psi dal quale è uscito un partito spaccato e con due segretari.
E mentre De Michelis convoca per sabato il Consiglio Nazionale e manda un ultimatum allo Sdi ("Devono parlare solo con noi, non con Craxi"), Boselli non rinuncia al difficile compito "di riunire il mondo socialista che è oggi ancora in parte diviso". Il leader dello Sdi, che ha avuto due lunghi e cordiali colloqui telefonici sia con Craxi che con De Michelis, ribadisce che " i socialisti non si devono però rinchiudere in se stessi, ma devono compiere scelte che sono essenziali per poter sviluppare un importante ruolo politico. Innanzitutto è necessario ritrovarci tutti insieme nel centrosinistra, che costituisce la collocazione naturale dei socialisti".


“Questa nuova unità non deve essere fine a se stessa, ma deve costituire un motore del nuovo soggetto politico laico, socialista, liberale e radicale che stiamo costruendo. Socialisti e radicali – afferma Boselli - sono più che mai decisi a portare avanti questo progetto che acquisterà tutta la sua concretezza in tempi brevissimi”.
"Di fronte a ciò che è accaduto nel congresso del Nuovo Psi – ha detto ancora il presidente dello Sdi- bisogna rifuggire dalla tentazione di farsi prendere dallo sconforto. Infatti, è davvero paradossale che la forte richiesta di unità espressa da tante e tanti socialisti, sia contraddetta da nuove divisioni che si aggiungono a meno recenti e non meno dolorose lacerazioni. Per quanto mi riguarda, continuerò il mio impegno per riunire il mondo socialista che è oggi ancora in parte diviso".
E se l'ingresso di Bobo Craxi e dei suoi sostenitori nel centrosinistra, già salutato come segretario da numerosi esponenti dell'Unione, appare scontato, la trattativa con De Michelis a questo punto appare più in salita. Soprattutto dopo le sue affermazioni rivolte a Sdi e Radicali: se Boselli e Pannella hanno intenzione di proseguire il dialogo con il Nuovo Psi, ''é con noi che devono parlare, e non con i frazionisti''. Parole che hanno trovato l'immediata replica di Roberto Villetti.
"Da parte dello Sdi - è il commento del vicepresidente del partito - non c’è alcuna intenzione di alimentare le polemiche tra i socialisti che hanno già superato, e di molto, il livello di guardia. Noi abbiamo detto con tutta la chiarezza possibile e immaginabile che l’unità socialista può realizzarsi con una scelta di centrosinistra e nell’ambito della costruzione di un nuovo soggetto politico laico, socialista, liberale e radicale. Ora tutto si deve fare meno che mettere benzina sul fuoco, alimentare nuovi contenziosi, porre pregiudiziali e preclusioni, perché se si imbocca questa strada si provocano solo ulteriori lacerazioni invece che quella unità alla quale tutti dobbiamo tendere".



Bobo: Una divisione spinta da destra. Berlusconi responsabile d' ingerenza
Il nuovo leader. «Abbiamo cercato di far valere la maggioranza politica».


• da La Stampa del 24 ottobre 2005, pag. 6 -
di m. g. b.
Onorevole Craxi, De Michelis, Caldoro e Moroni vi accusano di aver fatto una scissione. Un colpo di mano. Perché un congresso non si fa solo con una parte. E voi non avete la titolarità di decidere.

«Lo nego nel modo più assoluto. Al contrario, non si è mai visto in alcun congresso un segretario che non si dimette e annuncia la non validità del congresso stesso. Fin dall'inizio aveva cercato di non farlo passare per tale».
Un congresso talmente appassionato da sfiorare la rissa in ogni momento. Fino alla fine.

«Quella che è stata vista come rissa è solo il frutto della grande passione che i socialisti mettono da sempre nelle loro idee. Facile far passare un'assemblea di 3000 persone, riunita per tre giorni, per un'assemblea studentesca, anche se la presenza di Franco Piro poteva far venire la tentazione».
Invece?

«Invece dal momento che il congresso si è aperto ha avuto una sua validità. Era stato convocato con una proposta chiara, nello stesso titolo: identità e unità socialista. Per tre giorni abbiamo cercato di far valere la maggioranza politica, prima ancora che numerica, che nelle assemblee regionali si era espressa inequivocamente per l'unità. Senza tentennamenti nè equilibrismi, per arrivare a unirci con lo Sdi e con i radicali di Pannella e Bonino».
De Michelis proponeva un percorso, per esplorare.

«Non c'era più tempo di esplorare. I radicali hanno il loro congresso tra poco. I socialisti di Boselli premono. Dobbiamo preparaci, le elezioni politiche sono ormai alle porte. La verità è un'altra: De Michelis non ha retto all'idea di essere minoranza».
Alla fine però si è giunti a una scissione.

«La storia dei socialisti è stata costellata da scissioni. Che avvenivano perché c'era una spinta dall'esterno, una calamita che veniva da fuori».
Anche questa volta è andata così?

«In un certo senso sì. Ma di solito le spinte venivano da sinistra. Questa volta è venuta da destra. Ed è inaccettabile che la scissione sia stata il frutto di un'ingerenza del partito di maggioranza. Berlusconi porta questa responsabilità».
Sia più chiaro.

«Ha voluto interferire col congresso, cercando di forzarne fino in fondo la volontà. Ha trovato e troverà una risposta ferma. Non ci svendiamo alla sinistra. Tanto meno alla destra».
De Michelis dice che va avanti e convocherà l'assemblea nazionale. La scissione è irreversibile?

«Le nostre porte sono aperte. La prima cosa che farò è cercarlo, fare in modo che ci ripensi e torni con noi».
Lei è un parlamentare della Cdl. Cosa farà?

«Con me ci sono altri due parlamentari socialisti: Vincenzo Milioto e Franco Crinà. Per quanto mi riguarda scriverà una lettera agli organi dirigenti. Non credo sia giusto dimettermi per non creare problemi tecnici irrisolvibili a pochi mesi dalle consultazioni. Certamente in Parlamento sceglierò la strada dell'astensione».
Il simbolo del garofano che fine farà? Ci saranno battaglie in tribunale?

«In questo momento il simbolo è il minor problema. Quanto ai tribunali, credo che i socialisti abbiano avuto a che farci anche troppo».


Il posto dei socialisti

• da Il Mattino del 24 ottobre 2005, pag. 1

di Emanuele Macaluso

La politica italiana, da gran tempo, è in uno stato confusionale. Lo testimonia anche la presenza di gruppi di ex socialisti nella destra berlusconiana. E oggi, nel momento in cui si parla nel centrosinistra di dare vita al «Partito democratico» prodiano e si chiede ai Ds di rinunciare a ridefinirsi come forza socialista, è in corso uno scontro nell’area della diaspora socialista attorno alla proposta di unificazione dei piccoli partiti eredi del Psi. Unificazione che dovrebbe avvenire per dare vita a una forza politica che dovrebbe caratterizzarsi anche per l’incontro con i radicali di Pannella e Bonino. Come è noto, nel 1993 il partito socialista di Bettino Craxi praticamente si dissolse. Dalle sue ceneri era nato lo Sdi di Boselli con l’apporto di un gruppo di socialdemocratici del vecchio partito di Saragat. Un gruppo di socialisti è invece confluito nei Ds: Benvenuto, Ruffolo, Spini e altri, con Giuliano Amato che non ha formalmente aderito al partito ma è un autorevole esponente dell’Ulivo. Rino Formica presiede un’associazione socialista con l’ambizione di riunificare in un partito socialista autonomo tutti gli eredi del Psi. Altri gruppi di socialisti si sono invece collocati nel centrodestra: alcuni in Forza Italia (Cicchitto, Margherita Boniver, Sacconi e recentemente Stefania Craxi), altri, con De Michelis e Bobo Craxi, si sono collocati nella Casa delle Libertà costituendo il «Nuovo Psi».

Non c’è dubbio che l’anomalia storico-politica è costituita proprio da quei socialisti che si sono collocati nel centrodestra. Infatti, alcuni di loro hanno giustificato questa contraddizione solo come uno stato di necessità provvisorio in attesa di sviluppi delle posizioni dei socialisti che si trovano nei Ds e anche dello stesso partito di Fassino considerato, quest’ultimo, come responsabile della dissoluzione del Psi e della «persecuzione» subita da Craxi e altri esponenti socialisti. I quali, a mio avviso, non hanno mai voluto fare un’analisi seria, rigorosa e coraggiosa della crisi del Psi di Craxi individuando criticamente le loro responsabilità e quelle dello stesso Craxi, senza dimenticare certo quelle che appartengono al Pci prima e al Pds dopo. E non mi riferisco solo a Tangentopoli che è solo l’epilogo di una crisi che era tutta politica. Mi riferisco al modo come nell’89 fu affrontata la crisi del comunismo e la prospettiva di unificazione delle forze della sinistra.

Ma le domande che oggi si pongono sono essenzialmente due: È possibile riunificare i gruppi della diaspora socalista? Può un partito socialista che rinasce come l’erede del Psi di Craxi avere un ruolo nella società di oggi e nell’agone politico così come si è ridisegnato in questi anni? È difficile rispondere a questi interrogativi anche se l’adozione di un sistema elettorale proporzionale che al tempo stesso coalizza in due poli, centrodestra e centrosinistra, le forze politiche, consente una relativa ripresa di autonomia dei partiti minori ma non di quelli minuscoli. È il caso dell’Udc e di An nella casa delle libertà. È il caso di Rifondazione Comunista nei confronti del listone (Ds, Margherita) e potrebbe essere il caso di una forza socialista più consistente dell’attuale Sdi. In questo contesto lo sforzo iniziato dal partito di Boselli, dai Radicali e da quella parte del Nuovo Psi che fa capo a Bobo Craxi ha un senso. Quale senso? Rianimare la cultura liberal-socialista, riformista, garantista e laica costringendo il «listone» di centrosinistra a tenerne conto. Insomma un partito in grado di condizionare la politica di Prodi così come dall’altra sponda fa oggi solo Rifondazione Comunista. Ma una forza che deve avere un forte timbro riformista. Per assolvere a questa funzione un nuovo partito deve avere una consistenza numerica e politica e non deve essere una associazione di reduci. Voglio dire che deve essere un partito in grado di parlare alla società e soprattutto alle nuove generazioni. Altrimenti può solo sopravvivere.
In questo quadro l’apporto dei radicali può essere importante se anche’essi superano un modo d’essere molto datato, con comportamenti che sono propri di un piccolo gruppo di opinione. Sia chiaro, negli anni scorsi i radicali hanno assolto un ruolo importante e hanno contribuito a svecchiare la sinistra sui temi delle libertà civili. Nel momento in cui, però, i radicali mescolano la loro esperienza con la tradizione socialista, che non è solo quella di Loris Fortuna (autore della legge sul divorzio insieme al liberale Baslini) ma è la tradizione dei Saragat, Nenni, De Martino, Lombardi, Mancini e Craxi (esponenti di culture diverse ma tutti socialisti democratici e riformisti). Insomma, un socialismo libertario.

Lo spettacolo offerto dal congresso del «Nuovo Psi» non è certo incoraggiante e si è concluso nella confusione creata dall’ala ministeriale e berlusconiana che, in minoranza, ha giocato la carta dell’invalidazione dell’assise. Vecchi, vecchissime liti di gruppuscoli che non hanno più il carattere di minoranza di un partito. Gruppi che hanno un solo obiettivo: tirare a campare. Proprio l’andamento di questo congresso, però, deve suggerire ai socialisti che vogliono ricostituire un partito veramente autonomo, di liberarsi del clima che si è respirato nelle loro riunioni sino ad oggi, per guardare soprattutto ai problemi del paese. Una forza di cui abbiamo parlato può avere un ruolo solo se è collocata a sinistra e se ha come progetto l’unificazione di tutte le forze che si richiamano al socialismo democratico in un grande partito così come vediamo in tutta l’Europa.


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Capezzone: il mio non è un attacco né a Celentano né a Santoro, preferibili a tanti loro critici,
ma stasera abbiamo avuto un esempio di nuovo peronismo


Roma, 20 ottobre 2005

• Dichiarazione di Daniele Capezzone, segretario di Radicali Italiani

Lo premetto e lo sottolineo: il mio non è un attacco né ad Adriano Celentano né a Michele Santoro. Anzi, in modo diverso, l'uno e l'altro hanno un che di "selvaggio", di "anarcoide", che me li rende simpatici e soprattutto preferibili a tanti loro critici (e di certo a chi stasera, specie dal lato del centrodestra, si attarderà in inutili, pelose e penose contestazioni, improponibili da parte di chi -come la Cdl- non ha alcun titolo per denunciare l'altrui faziosità).

Detto questo, stasera abbiamo avuto un esempio di nuovo peronismo (pur con gli stivaletti di Adriano), di demagogia post-politica e post-democratica.

A nessun esponente (più o meno) democraticamente eletto dai cittadini, e perciò responsabile dinanzi a loro, viene concesso di potersi rivolgere (senza contraddittorio, senza repliche) a otto-nove milioni di spettatori in modo diretto (radunati con settimane intere di anticipazioni, di spot, di costruzione scientifica dell'audience, dell'"evento"), e con la forza –anche semiologica- di chi "lotta" (con tanto di "pugno"), di chi "fa giustizia", di chi va "contro".

Insomma, mentre gli gnomi della politica si affannano per una comparsata -direi quasi per una "sveltina"- sulla poltrona bianca di Vespa (magari alle 23.50, visti -se va bene- da un milione di spettatori), c'è chi (senza rispondere a nessuno) può salire su un pulpito di potenza straordinaria.

Ne discuterà qualcuno? Ci vorrebbe Pasolini, e -invece- avremo a mala pena un commento di Paolo Crepet...

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Blair alle sinistre
«Facciamo tutti come la Finlandia»
Europa. Il guru Antony Giddens inviato nelle capitali con un nuovo manifesto. Tony cerca di salvare la sua presidenza Ue.


• da La Stampa del 21 ottobre 2005, pag. 9

di Andrea Romano

Tony Blair prova a rilanciare la presidenza britannica dell'Unione europea, giunta ormai in vista della scadenza di dicembre affidandosi all'intellettuale che da sempre rappresenta la sua principale fonte di ispirazione, Anthony Giddens, impegnato in questi giorni in un roadshow tra le capitali europee, per presentare in via riservata un documento scritto di suo pugno ma largamente concordato con il premier britannico. Un testo dal titolo accademico («Il futuro del modello sociale europeo») ma dagli intenti dichiaratamente politici. Sarà presentato a Roma domani, in un seminario riservato della Fondazione Italianieuropei. Londra si propone di indicare ai partner una ricetta per la ripresa economica: riforma radicale del welfare e recupero di competitività attraverso l'investimento sul capitale umano. Obiettivo dell'operazione, preparare il terreno all'offensiva che Blair lancerà al vertice europeo in programma il 27 ottobre a Hampton Court dedicato a «giustizia sociale e competitività nel contesto della globalizzazione».

OBBIETTIVO MANCATO

La presidenza britannica ha bisogno di un vigoroso scossone, dopo un avvio che sembrava aver offerto all'Europa una via d'uscita dal trauma del referendum francese. Al grido di «Meno contadini e più scienziati» - efficace come tutti gli slogan blairiani il premier si era presentato in giugno al parlamento europeo con un programma ambizioso: più ricerca e innovazione, meno spazio per le rendite di posizione delle vecchie corporazioni economiche. A poche settimane dalla fine, tuttavia, è difficile riconoscere i segni di quelle ambizioni in quanto è stato realizzato. A cominciare dall'obiettivo mancato di una riscrittura anche solo parziale del budget europeo, che avrebbe potuto rappresentare una svolta storica: disattesa la disponibilità britannica a rinunciare al privilegio dello sconto sulle contribuzioni al bilancio comunitario (il «rebate» strappato a Bruxelles da Margaret Thatcher) in cambio di una ridefinizione della politica agricola comune.

La resistenza di Parigi ad ogni ipotesi di penalizzazione dei pochi ma potenti contadini francesi è stata tenace (come dimostra la guerra di questi giorni contro il commissario inglese Peter Mandelson). E Londra ha rinunciato ad insistere per non compromettere il disgelo con l'Eliseo dopo i furori iracheni. Risultato, tutto come prima per un budget che continuerà a destinare gran parte delle proprie risorse a foraggiare il protezionismo agricolo del vecchio continente.

PIÙ GIUSTIZIA SOCIALE

Al documento strategico di Giddens, Tony Blair affida dunque il compito di recuperare un senso al proprio semestre con la strumentazione politica che gli è più congeniale. Quella che muove dalla crisi del modello tradizionale di welfare per guardare all'obiettivo di più crescita e più giustizia sociale. Nella traduzione del sociologo britannico, poche sono le cautele diplomatiche e molto chiari gli obiettivi politici. «Non è vero scrive Giddens in polemica con Jeremy Rifkin che gli europei abbiano consapevolmente rinunciato ad essere competitivi in cambio di uno stile di vita più piacevole di quello degli americani». Gli oltre cento milioni tra disoccupati e sottoccupati presenti sul vecchio continente sono il sintomo più grave della malattia sociale di cui soffre l'Europa, insieme alla separazione tra una minoranza di inclusi “protetti da un mercato del lavoro ingessato e dai Sindacati” e una maggioranza di «esclusi privi di ogni garanzia». Le responsabilità per la bassa crescita e l'alta diseguaglianza sociale vanno cercate nella sclerosi di alcuni grandi paesi (l'Italia tra i più citati) ma soprattutto nell'effetto zavorra dell'asse franco tedesco: “L'antico motore del progresso europeo si è trasformato nel principale freno economico del continente”.

La soluzione prospettata da Giddens (e Blair) non è il modello britannico, ma quello dei paesi scandinavi, capaci di riformare i sistemi di garanzia sociale e insieme riattivare i circuiti della crescita. E Giddens sceglie la Finlandia: «Un paese con un welfare in ottima salute e all'avanguardia nelle nuove tecnologie». Un esempio di maggiore giustizia e maggiore sviluppo dovuti «non tanto agli alti livelli di tassazione quanto alla capacità di investire nel capitale umano: l'alta qualità delle politiche educative è inversamente proporzionale alla diseguaglianza sociale». Quegli stessi indici che vedono l'Italia agli ultimi posti insieme alla maggioranza dei paesi maditerranei. La ricetta politica non è dunque la riscoperta keynesiana di grandi opere sostenute dal debito pubblico o un controllo dei prezzi da affidare alla banca centrale europea, come suggerisce il segretario socialista francese Francois Hollande (che Giddens raffigura con toni molto critici). Al contrario, la strada per la riforma del modello sociale passa attraverso «l’apertura dell'Europa alla competizione internazionale», «l'investimento in politiche educative migliori e più sostanziose», «la flessibilità del mercato del lavoro intesa come chiave del successo economico». E soprattutto per «il superamento della resistenza degli interessi corporativi in Germania, Francia e Italia», dove «né i governi del centrosinistra nè quelli di centro destra sono riusciti a produrre riforme, con il risultato di conservare sistemi di welfare non più sostenibili e associati a tassi alti di disoccupazione e sottoccupazione».

ALLA SINISTRA ITALIANA

Un messaggio tutto politico, quello che Blair affida a Giddens, e non privo di possibili ricadute per quei paesi dove presto si voterà. E non è un caso che Downing Street voglia far circolare il documento negli ambienti del centrosinistra italiano. Da qui la scelta di puntare sulla Fondazione Italianieuropei, che domani ospiterà il sociologo britannico a Roma in collaborazione con Policy Network (il think tank guidato da Peter Mandelson che ha nel cenacolo intellettuale di Amato e D'Alema il proprio partner italiano). Con implicazioni sulla discussione interna all'Ulivo che non si nasconde Piercarlo Padoan, giunto alla direzione di Italianieuropei dal Fondo Monetario Internazionale: «Perché rinnovare il modello sociale è anche in Italia la via fondamentale per rilanciare l'economia. E un nuovo governo di centrosinistra dovrebbe farne il punto centrale della propria azione».

Zapatero e le donne
«Io, un giustiziere»


• da La Stampa del 21 ottobre 2005, pag. 9

di Jacopo Iacoboni

Rojo, feminista y... justiciero de las mujeres». L’ha detto Zapatero, e allora tutto bene: «Sono rosso, femminista e... giustiziere delle donne». Pazienza se «justiciero» può suonar ambivalente. «Vendicatore» per le leggi in difesa delle donne, certo. «Giustiziere» per gli occhi azzurri che le giustiziano, magari. O al limite tutto insieme. Nessuno oserà mai domandarglielo, Viva Zapatero.

Marie Claire di novembre, intervista-retroscena al capo del governo spagnolo, manuale per incerti maschi Duemila. «La destra non mi ha insegnato nulla, il fatto è che sono rosso, rossissimo», dice il premier sull’aereo che lo porta all’assemblea newyorchese per i sessant’anni dell’Onu.
«Femminista», aggiunge. Difensore delle «utopie», «unico sentiero per ottenere conquiste sociali che parevano impossibili». Al diavolo quelli che vorrebbero seppellire il Che sulle t-shirt, la parola «utopia» «è parte essenziale persino del mio vocabolario; nel mondo ogni grande passo in avanti s’è fatto difendendo la causa degli oppressi», e qui suona al limite zapatista, Zapatero. «Se l’umanità non avesse coltivato utopie non avremmo mai raggiunto conquiste che sembravano impossibili, e nulla si sarebbe mosso mai». Caminante no hay camino, hay que caminar, soñando.

Ma il passaggio più divertente è quando Zapatero parla di donne, quelle che ha tutelato emanando una legge contro la violenza maschile, o concedendo il divorzio rapido, per non dire della legge sui matrimoni tra omosessuali che gli ha conquistato le simpatie persino dell’ostica comunità lesbo madrilena. Nei corridoi del Palazzo di Vetro, racconta il premier spagnolo a Marie Claire, «mi si avvicina una delegata messicana e mi fa “Oh, signor presidente, lei è un giustiziere delle donne!”», definizione che ZP, con più che una punta di vanità, fa subito propria. Giustiziere, come no.

Per le donne Zapatero ha davvero fatto molto, e non è «ottimista e di sinistra» domandarsi da quale punto di vista. Ha occhi azzurri magnetici. Ha fatto comparire in servizio fotografico su Vogue l’intera delegazione femminile al governo, con pose alla Linda Evangelista e con Maria Teresa Fernàndez de la Vega, la vicepremier del governo spagnolo, che spiegava: «Zapatero è uno dei pochissimi capi di governo che si è pubblicamente dichiarato femminista, contribuendo a cambiare la percezione stessa del femminismo». Ha, onestamente, sedotto prede lontane e non facili. In casa e, per venire a noi, fuori.

La spinosa Sabina Guzzanti gli ha intitolato un film-documentario in cui il suo occhio azzurro è parsa la cosa più lieve. L’elegante Giovanna Melandri, alla fine della manifestazione di piazza del Popolo per le primarie del centrosinistra, confidava «nell’Unione ci vuole più Zapatero e meno Ruini». Celentano nel suo show ha fatto cantare «Zapaterooo-Zapatera». Persino l’imprevedibile Marco Pannella s’è rassegnato quando i ragazzi del partito gli hanno proposto il rassemblement socialista-radicale con padri nobili Blair e Zapatero, che poi il vecchio Marco ha reinterpretato, geniale, come «un seguace di Loris Fortuna, anche lui piaceva tanto alle donne». Zapatero y los mujeres, appunto, ma non dategli mai del piacione spagnolo.

VARIA

De profundis per Gnutti e la sua "razza padana"
La geniale idea di Hopa, la scalata alla Telecom, i guai giudiziari.


• da Il Foglio del 21 ottobre 2005, pag. 2

di Enrico Cisnetto

C'era una volta la "razza padana", speranza malriposta di un capitalismo orfano di establishment. In effetti, delle tante rovinose cadute nella polvere cui assistiamo in questi giorni da parte di molti protagonisti (fugaci) del desolante firmamento finanziario nazionale, non è quella rovinosa di Stefano Ricucci — l'uomo in testa alla speciale classifica di quantità di carta inutilmente stampata per parlare di lui — né quella più gravida di conseguenze di Gianpiero Fiorani - non vorrei essere nei panni dei tanti che stanno nervosamente sfogliando la margherita nell'attesa di sapere se il banchiere non più rampante parlerà di loro nei suoi interrogatori fiume con i magistrati - bensì è l'inciampo di Chicco Gnutti da Brescia a essere più emblematico. Sì, finora si è percepito solo come un incespicare nella trionfante corsa al denaro e al successo del "signor millemiglia", quello che sta accadendo all'ormai ex capo della Hopa. In realtà è molto di più. E non solo perché la defaillance di Gnutti avrà conseguenze non banali sulle tante partecipazioni che in questi anni si sono affastellate nello scrigno della finanziaria bresciana e dei suoi satelliti, a cominciare dalla quota del 16 per cento detenuta in Olimpia, primo azionista di Telecom, il cui patto con Tronchetti Provera e i Benetton scade prossimamente. Ma anche e soprattutto perché quello messo su da Gnutti era un sistema che per un lungo periodo aveva fatto scuola e attratto l'attenzione benevola del "circo Barnum" della finanza nostrana (banche, advisor, intermediari, professionisti, media) tanto appunto da far coniare la definizione diventata famosa di "razza padana". Quest'ultima era un'etichetta con cui si voleva indicare non solo un territorio ricco, ma anche la fenomenologia di uomini d'affari concreti, lontani sia dai "salotti buoni" di stampo meneghino sia dai "palazzi romani" del potere politico. Insomma, gente ruspante, che ignora i congiuntivi e le pierre, ma che vale per il denaro che ha accumulato. Intendiamoci, il "Brambilla" non l'ha certo inventato Gnutti, ma prima di lui si trattava di industriali asserragliati nelle loro fabbriche, capaci al massimo di riempirsi di Bot e Cct. Mentre con quella sorta di "fondo chiuso" messo su da Gnutti convincendo i ricchi delle valli bresciane che nelle sue mani i loro soldi avrebbero reso molto di più di qualunque altro investimento, ecco che da individui erano diventati un sistema. Sempre anonimi, defilati (per carità, meglio non far sapere, tra invidie, rapimenti e fiamme gialle) ma pur sem pre un gruppo capace di moltiplicare occasioni e rendimenti, oltre che difendere l'orgoglio della periferia che al massimo ostenta la Porsche del figlio. L'intuizione di Gnutti è stata obiettivamente geniale: c'era molta gente, dalle sue parti, che aveva fatto un sacco di soldi, magari aiutandosi con un po’ di nero, e che, in base al principio italico che l'imprenditore deve essere ricco e l'azienda povera, non aveva altra chance che varcare il confine e farsi il tesoretto in Svizzera. Sì, qualcuno più evoluto si era dotato di off-shore, ma il grosso credeva che quella parola inglese (lingua debitamente sconosciuta) si riferisse ai motoscafi. Ebbene, a quella gente che al massimo si confessava con il direttore della filiale di qualche banca se proprio erano stati bambini assieme, l'ambizioso Gnutti ha dato la possibilità di moltiplicare i loro quattrini e nello stesso tempo di essere parte di una comunità che li faceva sentire importanti. "Vado sul giornale, eppure il mio nome è salvaguardato", mi ha detto una volta uno di loro, contento come una pasqua dopo l'opa Telecom. Sì, quella fu la consacrazione, di Gnutti e dei suoi sconosciuti azionisti. Non solo un grande affare tanto il debito per realizzarlo era scaricato sulla società scalata - ma anche l'idea di essere i nuovi "padroni d'Italia". E mentre Gnutti faceva le interviste sui giornali che stoltamente ribattezzarono quella scalata come il segno di un capitalismo che finalmente diventava americano quelli delle valli si procuravano il sottile piacere del potere svelando all'amico il segreto di una speculazione sicura (insider trading? che roba è?).

L’addio di Colaninno

Forse proprio andando a un'affollata assemblea di Hopa - rito di appartenenza al clan - Roberto Colaninno deve essersi detto che lui con la "razza padana" non voleva avere più niente a che fare, prima ancora che contrasti sugli interessi e sulla rispettiva visibilità esterna lo inducessero a chiudere con Gnutti anche sul piano personale. Poi le cose sono cambiate. Gnutti ha smesso di apparire un re Mida, il ritorno in Telecom è apparso incomprensibile ai più (visti i prezzi). Inoltre l'idea che lui stesse costruendosi un suo impero a spese loro era un tarlo che aveva comincia a rodere alcuni. Poi la condanna per insider trading (stavolta tutti hanno capito di cosa si trattasse) passata in giudicato, un altro processo in corso con l'altro alleato di sempre, Giovanni Consorte, e la sospensione per due mesi da ogni incarico societario durante la vicenda Antonveneta, hanno spinto molti soci a ritenere necessario un suo "passo indietro". Adesso nel mondo finanziario si discute se tra Hopa e Gnutti sarà separazione totale e definitiva, o se - visti anche i nomi che circolano per la sua sostituzione - il finanziere che ama le belle auto rimarrà il padre padrone, anche se per interposta persona. Difficile fare un pronostico. Ma una cosa è sicura: la "razza pada na" non c'è più, il capitalismo italiano ha bruciato un'altra stagione. Senza che nulla si veda all'orizzonte.







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