|
PROFILO DI SINTESI DELLA POLITICA SOCIALISTA DAL 1948 Al 1975 - di Beppe Pontrelli Prima parte. Dalla nascita della Repubblica Costituzionale al 1975 Premessa. L’attualità ci rappresenta con forzate sottolineature l’uso della propaganda. Carta stampata, radio, televisioni pubbliche e private, oltre che la veicolazione elettronica sono intasate di interventi autoreferenziali: tutti si attribuiscono il carattere dell’autorevolezza e della correttezza. E’ a tutti ben noto che l’informazione può essere distorta non solo con l’attività di interpretazione e manipolazione della notizia ma anche con l’omissione della stessa. I motivi del discredito precipitato sul partito socialista sono plurimi: certamente l’interesse concorrenziale di altre componenti politiche che hanno favorito questo degrado per potersi appropriare dei beni ereditari presenti nel patrimonio del socialismo italiano. Ma anche per fattori interni, il principale dei quali é stato l’errore compiuto all’interno del partito che ha puntato al rilancio politico sul personalismo craxiano, offrendo al panorama politico avversario l’utile occasione per approfittare dell’equazione: fine del craxismo uguale fine del socialismo italiano: tale operazione politica non ha trovato, all’interno dello schieramento socialista un’idonea capacità di resistenza e contrapposizione immediata. Qualche colonnello superstite é stato o si é arruolato sotto le bandiere di eserciti diversi, qualche volta contrapposti. Anche il tentativo di rifondarsi nel partito laburista si é presto sfaldato. Il silenzio degli intellettuali, frenati dal coinvolgimento di esponenti di vertice in vicende di malaffare, non ha permesso di contrapporre una versione ufficiale all’interessata propaganda di denigrazione che si é concentricamente appesantita in denigrazione e spregio dell’intero partito. Di fronte ad un’ipotesi socialista mal rappresentata ben difficilmente si può aderire all’ideale socialista e comprenderne la politica. La lettura di queste note potrà servire al superamento di alcune lacune. Profilo storico dell’organizzazione. Il problema dalla struttura organizzativa del partito socialista e della sua presenza reale nel paese, é un tema d’obbligo per un discorso nuovo che voglia reimpostare in modo organico la questione della politica socialista. E’ ricorrente raffronto con l’efficientismo dell’allora P.C. e con la struttura di potere costruita dalla D.C.: il partito socialista, che non poteva contare né sull’una, né sull’altra cosa, ha ondeggiato tra una forma e l’altra, tra una parziale imitazione dell’efficientismo organizzativo dei comunisti ed una limitata concorrenza nella suddivisione delle posizioni e degli strumenti di potere. Per evirare delle semplicistiche schematizzazioni su questi problemi, fondamentali per la comprensione della struttura politica, é necessario un ripensamento dell’esperienza del partito socialista nel dopoguerra; esperienza che si può sintetizzare in alcuni periodi: il frontismo (1945-1948); la lunga marcia verso l’autonomia (1748 – 1956); dall’autonomia al governo (1956 – 1962); centro sinistra ed unificazione (1962 – 1968); dal governo all’autonomia nel governo (1968 – 1973); dagli equilibri più avanzati all’alternativa (1973 – 1975). Naturalmente questa periodizzazione risente di un’inevitabile dose di schematismo; comunque rappresenta altrettanti momenti discriminanti nello sviluppo della storia del Partito Socialista Italiano considerata sotto l’ottica particolare della sua organizzazione, della sua presenza reale nel paese, del suo rapporto con le forze sociali ed economiche. Tutti rapporti che, poi, confluiscono nel momento elettorale, sintesi delle diversi componenti. Il Frontismo (1945 – 1948). L’esperienza del Frontismo rappresenta un momento fondamentale per la comprensione della successiva evoluzione del Socialismo Italiano. Negli anni della dittatura fascista, il Partito Socialista non é riuscito a mantenere una rete organizzativa sul tipo di quella costruita dai comunisti. La differenza si é riscontrata anche nel periodo della guerra partigiana e nelle prime organizzazioni sindacali. Tuttavia, all’indomani della Liberazione, il Partito Socialista Italiano può contare su un successo popolare che é superiore a quello del Partito Comunista. “La profonda opera di penetrazione effettuata nei primi vent’anni del secolo............fece sì che (il Partito Socialista) nel 1946, nonostante l’organizzazione vaga ed approssimativa e la grave divisione interna, fosse seguito da più di un quarto del nuovo elettorato italiano nella sua linea politica di rivendicazioni e di critica – anche morale – al sistema socio economico allora esistente” (F. Cazzola, Elettori ed Iscritti del Partito Socialista Italiano dal 1946 al 1968; in “Partiti e Partecipazione Politica in Italia” Milano 1969 pag. 190). L’esperienza del Frontismo con la conclusione negativa del 18 aprile 1948, disorienta gran parte del patrimonio tradizionale del Socialismo Italiano: determina un’inopportuna confusione tra Socialisti e Comunisti (favorita anche dalla scissione del 1947 che indusse i socialdemocratici di Saragat a drammatizzare i toni del anticomunismo). La confusione non favorì poi la formazione dei quadri socialisti intermedi, in quanto gli attivisti del Partito Comunista svolsero la maggior parte del lavoro propagandistico ed organizzativo. Nel 1948 il rapporto di forze all’interno della sinistra di ribalta, con i Comunisti che scavalcano i Socialisti. Questi mutamenti avvengono per una serie di fattori tutti condizionati dal dato principale di riscontro che l’egemonia dei Comunisti nelle organizzazioni di massa, cioé nei sindacati e nelle cooperative. Altro pesante condizionamento derivò dalla questione politica estera, per cui il Partito Socialista si trovò appiattito sul predestinato destino della sinistra internazionale di parteggiare per i paesi del socialismo reale dell’Europa Orientale – Comunisti – e quindi a subire il rapporto di subalternità con i Comunisti che si presentavano e venivano identificati come l’equivalente italiano dei partiti al governo in tali paesi. La necessaria analisi politica di confronto tra il governo di partiti unici, o totalitarista, rispetto alla via democratica, produsse un ulteriore divisione. La scissione socialdemocratica, per di più, pose fuori dal partito il gruppo che avrebbe potuto svolgere un ruolo non trascurabile di bilanciamento nei rapporti politici con i Comunisti. Sui motivi di quella prima scissione, tanto gravida di conseguenze, il politologo Giorgio Galli ebbe ad osservare: “la scissione non fu il frutto di una scelta meditata e preveggente, ma dipese dalla frustrazione psicologica e politica, nella quale il problema dell’esistenza del Partito Comunista e della sua strategia politica ed organizzativa ha collocato i Socialisti Italiani (Giorgio Galli, Il Difficile Governo, Il Mulino, Bologna 1972 pag. 25). In sostanza: la debolezza organizzativa del P.S.I. e la sua dipendenza dalle scelte dell’apparato comunista fu una delle cause della scissione che a propria volta contribuì a rendere ancora più debole sia l’organizzazione dei Socialisti che il loro potere di contrattazione rispetto ai Comunisti; soprattutto dopo che i partiti di sinistra vennero estromessi dal Governo (1947). A tale proposito si deve notare che l’intrinseca debolezza organizzativa del Partito Socialista, rese difficile, se non addirittura impossibile, cogliere i frutti di alcune scelte politiche importanti e chiaramente differenziate da quelle del Partito Comunista come, ad esempio, la decisione di votare contro l’art. 7 della Costituzione (l’articolo dei Patti Lateranensi e del Concordato, che venne, invece, approvato dai Comunisti). La lunga marcia verso l’Autonomia (1948 – 1956). L’esito elettorale del 1948 favorisce l’avvio di un ripensamento all’interno del partito, che si accompagna ad alcuni fatti determinati, che mutano il quadro politico generale: l’Italia entra a far parte della Nato. Il neutralismo dei socialisti, che affonda le proprie radici storiche nella scelta antinterventista compiuta nella prima guerra mondiale, é stretto tra due alternative: da una parte la Nato, dall’altra il blocco dei paesi dell’est, guidati dall’Unione Sovietica. Il neutralismo socialista, sotto il condizionamento del P.C., si colora per qualche tempo, all’inizio degli anni 50, di una tendenziale preferenza per i paesi del blocco comunista. A ciò fanno riscontro, sul piano interno, due linee sostanzialmente contrapposte: da un lato, nel partito, si sviluppa il tentativo di Morandi di costituire, nel P.S.I., un apparato che possa essere concorrenziale con quello comunista; dall’altro, prendono consistenza le scissioni sindacali del 1948 – 1950, che si concludono con la formazione della C.I.S.L. (dominata dai democristiani) e della U.I.L. (comprendente repubblicani, socialdemocratici, ma anche alcuni gruppi di “socialisti autonomi”, usciti dal P.S.I. nel 1949, tra i quali é lo stesso segretario dell’organizzazione Viglianesi). Indubbiamente, comunque si voglia analizzare il tentativo di Morandi, a lui va riconosciuto il merito di aver teorizzato la riorganizzazione del P.S.I. (come partito di opposizione), sintetizzabile nello slogan: “costruire un partito forte perché sia autonomo e libero di effettuare le proprie scelte politiche”. Sul piano dell’organizzazione di massa, peraltro, i dirigenti socialisti sono ancora sottoposti ad un indiscutibile egemonia dei comunisti, come emerge chiaramente nel sindacato. L’egemonia é una conseguenza diretta del maggior seguito organizzativo della corrente comunista. Nulla muta dopo il 1947, avendo designato il P.S.I., alla segreteria della C.G.I.L., il meno condizionato Fernando Santi, al posto di Oreste Lizzadri, che é considerato uno dei più convinti sostenitori del “fusionismo” (cioé dell’opportunità di una fusione tra i partiti della classe lavoratrice, comunisti e socialisti). Questa situazione generale condiziona anche le possibilità di manovra del gruppo dirigente socialista dopo le elezioni del 1953: il partito, tutto sommato, ha dato prova di vitalità, che può rivalutare, in prospettiva, il suo ruolo di terza forza tra la D.C. ed il P.C.. Questa linea politica (che si sintetizza nella formula di “apertura ai cattolici”) é impostata da Nenni, con l’assenso di Morandi, già nel 1955; mentre subiscono una distensione anche i rapporti con i socialdemocratici. Dall’Autonomia al Governo (1956 – 1962). La rivolta ungherese, soffocata nel sangue dai carri armati sovietici, determina una spinta decisiva alla scelta autonomistica che il P.S.I. é avviato a compiere. Ma la composizione organizzativa del partito ritarda, di fatto, il compimento di tali scelte: al Congresso di Venezia, nel 1957, Nenni ottiene l’unanimità sulla sua mozione politica, ma viene messo in minoranza dall’apparato del partito al momento dell’elezione del comitato centrale. L’apparato del partito vede i suoi quadri intermedi (costituiti quasi totalmente da morandiani ed abbasiani) imbarazzati nei confronti della leadership di Nenni, in quanto contrari ad una rottura del rapporto con i comunisti. L’incertezza del momento é causata dal contrasto tra le scelte politiche di fondo (l’apertura ai cattolici) e la possibilità che esse scelte vengano attuate dai quadri intermedi, dal corpo stesso del partito. non a caso, dopo i fatti drammatici del luglio 1960 (a conclusione dei quali il Partito Socialista decide di non votare contro, ma di astenersi riguardo al Governo Fanfani (composto da D.C., P.S.D., P.R.I.) una delle battaglie più importanti vinte da Nenni – insieme con la realizzazione di alcune giunte di centrosinistra, in alcuni grandi Comuni, tra i quali Milano – é quella dell’appoggio della corrente sindacale: a favore del centrosinistra, cioé, si schierano i cosiddetti “sindacalisti Bassiani”, cioé Santi, Brodolini e Boni. E’ uno dei momenti di semaforo verde per la collaborazione dei socialisti con i democristiani, in quanto il favore dei sindacalisti assicura un seguito di massa e, comunque, la possibilità di un concreto seguito tra i lavoratori rappresentati dalla C.G.I.L.. Centrosinistra ed unificazione (1962 – 1968). L’avvio del centrosinistra apre un periodo sostanzialmente nuovo per il P.S.I.. L’ipotesi di fondo é che l’ingresso nella “stanza dei bottoni” debba consentire al P.S.I. di amministrare una fetta di potere adeguata soprattutto al suo peso politico, oltre che elettorale. Questa ipotesi di fondo, alla lunga, finisce per diminuire il significato che viene attribuito al ruolo dell’organizzazione, come elemento determinate del successo politico: tantopiù questo elemento viene sottovalutato dopo che l’ala sinistra del partito, guidata da Basso e Vecchietti, ha deciso di uscire dal P.S.I. e fonda il P.S.I.U.P. (gennaio 1964). La maggioranza del partito, saldamente controllata da Nenni, é oramai decisa a portare aventi la collaborazione di governo con i democristiani (nel 1964 appunto, si costituisce il Governo Moro, con Nenni Vicepresidente del Consiglio) ed a prospettare concretamente la possibilità di un’unificazione con i socialdemocratici. Alla luce di queste scelte politiche di fondo, anche il problema della presenza sociale del P.S.I. viene riproposto: sul piano degli Enti Locali si registra una quasi generalizzata rottura delle alleanze con i comunisti; si attenuano i legami di interdipendenza nelle organizzazioni economiche di tipo cooperativistico; si accentua il distacco della corrente socialista nella C.G.I.L.. Anzi, si comincia a discutere dell’opportunità di costituire un “sindacato socialista” partendo anche dalla considerazione che la C.G.I.L. é sostanzialmente dominata dai comunisti e la C.I.S.L. dai democristiani. Proprio perciò, dopo l’unificazione P.S.I. – P.S.D.I., nel 1966, si avanza la proposta di concentrare l’impegno e la rappresentanza del partito unificato nella U.I.L., che é la confederazione sindacatale dove socialisti e socialdemocratici dispongono di un indiscussa maggioranza. Ma, infondo, l’interesse per il sindacato non é più secondo lo schema del 1948, l’interesse per un’organizzazione di massa che può dare un sostegno politico di larga base: é, piuttosto, l’interesse per un’organizzazione che dovrebbe affiancare il partito nel suo nuovo ruolo di “gestione del potere”. Di potere, in realtà, la Democrazia Cristiana, ne lascia ben poco da gestire al P.S.U. (Partito Socialista Unificato). In compenso il nuovo atteggiamento ha finito per sfaldare sensibilmente la presenza reale del partito nel paese, come é emerso dallo stesso risultato elettorale del 1968. Si potrebbe stabilire un parallelo tra la prima crisi del 1948, derivata dall’assoggettamento al P.C., per la sua egemonia organizzativa, e la seconda crisi: quella del 1968, dovuta in gran parte all’accettazione dell’impostazione, tipica dei socialdemocratici, per cui si trascura, o comunque si sottovalutano, i problemi dell’organizzazione e della presenza sociale nel paese. “Da un punto di vista qualitativo, la fusione con il P.S.D.I., ha significato per il P.S.I. una caduta del suo elettorato operaio” (F. Cazzola citato pag. 198). Ha spostato verso le categorie impiegatizie una quota sensibile del nuovo elettorato, mentre sono stati perduti non pochi consensi operai. L’unificazione ha, inoltre, accresciuto i contrasti personalistici che si sono espressi in un accentuati rincorsa al voto di preferenza da parte dei singoli candidati. Più in generale si potrebbe osservare che: “il legale esile ma esistente, tra organizzazione socialista ed elettorato socialista, in atto fino al 1963, si é completamente spezzato allorché si é venuto a creare il processo di unificazione tra P.S.I. e P.S.D.. Nel 1968 l’elettorato vota per il Partito Socialista Unificato perché é influenzato da situazioni socio economiche, mentre non é influenzato affatto dall’organizzazione partitica” (Giorgio Galli citato pag. 193). Dal Governo all’Autonomia nel Governo (1968 – 1973). La sconfitta elettorale del 1968 segna l’avvio di un ripensamento che porta la scissione del 1969 (da cui rinasce il partito socialdemocratico, anche se molti dirigenti sindacali della U.I.L., prima socialdemocratici, rimangono ora nel P.S.I.) e quindi, ad un nuovo orientamento del partito: si torna a porre attenzione ai problemi organizzativi; in sintonia con altri atteggiamenti innovativi: si afferma la possibilità di costituire maggioranze anche con i comunisti negli enti locali; si accentua l’attenzione verso il mondo del lavoro e verso i sindacati, approfittando della favorevole congiuntura dovuta alla presenza, in posizione di rilievo, di dirigenti socialisti, sia nella C.G.I.L. che nella U.I.L.; si punta al recupero di quei quadri intermedi che sono usciti dall’esperienza del P.S.I.U.P. e non hanno accettato l’ipotesi di una confluenza nel partito comunista. In questo quadro sintetico ci pare di dover evidenziare due elementi essenziali: il rapporto con i sindacati e l’autonomia nel governo. Il rilancio del P.S.I. come partito operaio, si é scontrato, dopo il ’69 con una realtà obiettiva, anche se statisticamente non quantificabile: una larga parte degli aderenti del P.S.I. non sono “classe operaia” in senso stretto, ma appartengono più in generale alla classe lavoratrice: sono impiegati, ceto medio, intellettuali, ecc. Per recuperare, quindi, un effettivo consenso operaio, si é puntato ad un collegamento preferenziale con le organizzazioni sindacali: il P.S.I. cioé si fa portatore, nell’ambito delle forze di governo, delle istanze espresse dalle masse lavoratrici attraverso le organizzazione sindacali. Da qui deriva anche la scelta che abbiamo definito “autonomia nel governo”. Il partito, cioé, rifiuta l’identificazione completa ed assoluta con il Governo, come era stata proposta negli anni del primo centrosinistra; al contrario il P.S.I. tende ad accentuare la sua caratterizzazione di forza di sinistra nell’ambito di una più vasta coalizione di governo che, inevitabilmente, deve realizzare una sintesi tra le istanze politiche e sociali dei diversi partiti. In questo contesto viene realizzato ciò che non era stato possibile alle altre forze politiche anche se più numericamente rappresentative delle masse lavoratrici ed operaie: la promulgazione dello statuto dei lavoratori, vera carta dei diritti che affrancava finalmente il singolo lavoratore dando una condizione di subalternità al capriccio, all’abuso, all’indifferenza per tutte quelle condizioni che la vita presenta, per prima le malattie, troppo spesso anche direttamente derivanti dall’assoluta non curanza per i presidi di salute sul lavoro. Dagli “equilibri più avanzati” all’alternativa (1973 – 1975). La gestione dell’autonomia nel governo, ha posto in evidenza quelli che sono gli aspetti di fondo più urgenti ai quali riferire l’azione politica dei socialisti. A questo proposito risulta preminente il merito del P.S.I. nell’impostare, condurre e portare a termine nonostante le resistenze nella D.C., suo partner di governo, sempre più arroccata su posizioni di tutela dell’assetto clerico conservatore, scelte di ampio interesse sociale. Tutte il P.S.I. viene in tal modo impegnato in una battaglia ideologica sui principi che produce i suoi frutti migliori sul terreno legislativo. Basti menzionare tre pilastri delle civile convivenza che sono stati l’esito dell’affermazione dell’azione socialista nel governo del paese: in materia di giustizia sociale il già rammentato traguardo di miglioramento e tutela dei diritti dei lavoratori: lo Statuto dei Lavoratori. In tema dei diritti civili, a conferma dell’ideale laico e libertario della tradizione socialista, é stata disciplinata la possibilità di separazione e scioglimento del matrimonio – divorzio; tanto che l’intero paese ha sconfitto la controffensiva della parte più reattiva della D.C., quella legata ai circoli clericali, dichiaratamente conservatrice ed antisocialista per “vocazione”, in seguito al referendum che ha seccamente sancito l’interesse a questa riforma. In questo ambito temporale il P.S.I. ha giustamente considerato uno dei più importanti adempimenti costituzionali: l’attuazione delle Regioni: attribuendo a tale iniziativa un profilo parafederale di autonomia della programmazione economica nella sottolineatura della distinzione e diversità reale del territorio statale. Distanziando così finalmente il destino della gestione territoriale da un concetto di centralismo statale del tutto contraddittorio, tanto sul piano economico, quanto su quello socio politico. Basti quindi fare riferimento a queste riforme dovute all’azione dei socialisti per rendersi conto che nella loro semplice straordinarietà sono divenute patrimonio comune dell’intero paese, tanto da considerarle, invece che l’esito di una impegnata e faticosa campagna politica, un dato di fatto acquisito che appartiene all’indiscusso patrimonio di civiltà nazionale. Le origini di questa marcata qualificazione parlamentaristica del P.S.I., scaturiscono da due importanti aspetti della realtà: uno riferito a quella culturale, l’altro a quella del modo operaio – popolare. La prima nella maturazione del livello culturale e generale promuove, con il movimento studentesco, l’esigenza di privilegiare la cultura di massa su quella di classe, occupando nell’intervento tutta l’attivismo giovanile “impegnato”. Le attività che costituirono l’affermazione del movimento studentesco (basti rammentare l’impegno e la mobilitazione sui tempi del pacifismo, dell’antimilitarismo, dell’antimperialismo e dell’anticolonialismo, ecc.) andarono a coprire lo spazio solitamente occupato dalla sinistra ufficiale, che venne esautorata dalla guida sui temi e perse completamente il primierato negli interventi di massa. Circa il movimento operaio citiamo due fatti che meritano principale attenzione: l’unificazione delle confederazioni sindacali C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L. ed il particolare delicato momento della congiuntura economica che ebbe ad incidere sulla spirale dei prezzi e, all’opposto, la conflittualità permanente dei sindacati operai, volta a mantenere invariato il potere di acquisto dei salari, giorno per giorno intaccati dalla svalutazione finanziaria. Così l’ombra della disoccupazione scese ad oscurare il grande incontro delle diverse componenti ideologiche schierate con la classe operaia. In questo delicato momento la D.C. scelse di adottare la linea di un irrigidimento antioperaio ed una sterzata a destra dell’inclinazione politica. Quando i socialisti lanciarono la proposta (guidata dalla segreteria di Francesco Demartino) di governare sulla base di “equilibri più avanzati”, associando le energie ed il peso del P.C. alla conduzione del paese, la D.C. reagì negativamente. Si aprì un periodo di ricerca, a destra, di un allargato consenso che potesse condurre a dei risultati che fondavano la loro giustificazione nell’atmosfera di incertezza che la teoria degli opposti estremismi andò ad alimentare. Mentre nel paese la strategia della tensione, di provata matrice neofascista, proseguì indisturbata la sua lugubre marcia tra le vittime delle stragi che, con fredda spietatezza erano state strumentalmente agli inizi attribuite agli anarchici istigati dalle sinistre. E’ solo dopo il 1973 che divengono di pubblico dominio le notizie del tentato colpo di stato ad opera di neo fascisti. L’incredibile rete di omertà che la D.C. favorisce, le costa un secco calo di consensi per causa dell’indice di credibilità che la sua gestione del potere ha avvilito ed umiliato. Il rifiuto della proposta di un asse preferenziale tra D.C. e P.S.I. viene ignorato nella speranza di un miracolo elettorale. Il 15 giugno segna una data di trapasso. Nella generale avanzata delle sinistre si confrontano due strategie che si riconnettono a due modi di essere della sinistra italiana: quella del compromesso storico (cioé delle tre componenti, comunista, socialista e cattolica) e quella dell’alternativa (governo di sinistra). Ad orientare le scelte del P.S.I. concorre certamente anche quanto un memorabile congresso provinciale socialista di Trento aveva concorso ad irrobustire e quindi il partito ebbe a schierarsi complessivamente per l’alternativa; finalmente unito nella convinzione che questa strategia offrisse un piano visuale più limpido. Basti considerare l’aspetto, da più parti riconosciuto, che numerosi cattolici in Italia non si riconoscevano più nella D.C.. Sul tema dell’alternativa il partito ebbe ad impegnarsi con tutte le sue energie, in quanto interprete di una linea politica autonoma ed unitaria che coinvolse, in diverse misure, tutte le composizioni politiche ipotizzabili. Il ruolo dell’organizzazione. In sintesi, il problema della presenza del P.S.I. nel paese é il problema della sua stessa organizzazione. Riproporre questo problema non vuole essere una facile concessione, ma sottolineare l’urgenza di una questione che può risultare vitale per le prospettive del partito. La prospettiva dell’amministrazione del potere, da sola, non é sufficiente e rischia di rivelarsi una vana utopia se alle spalle dei dirigenti non esiste un seguito reale, di massa, che interpreti e sostenga l’azione politica che, per il vero, non ha mai smesso di alimentare il dibattito politico generale, anche quando la crisi politica ha calato un sipario sul Partito Socialista. Nemmeno il generale più preparato, abile e geniale, può vincere una battaglia, se non dispone di un esercito da schierare in campo. torna in alto |