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infoSOCIALISTA
10 ottobre 2005

Info SOCIALISTA – 10 ottobre 2005
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei socialisti e del centro sinistra
n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 – Trento/Bolzano
Quindicinale - Anno 2°



UN LIBRO, per cominciare “Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges

Autore: Michael Mann
Titolo: IL LATO OSCURO DELLA DEMOCRAZIA
ed. Università Bocconi - euro 34,50)



Gli orrori della modernità

Una monumentale opera del sociologo Michael Mann sulle radici della violenza etnica, fenomeno moderno, scatenato dalle democrazie in cui si sovrappongono i concetti di demos e di ethnos

di Emanuela Sanna



“Tutto quello che ho visto e udito supera ogni immaginazione. Parlare di mille e un orrore è ben poco in questo caso, mi sembrava di attraversare un girone infernale. I pochi eventi che riferirò, raccolti in tutta fretta qua e là, sanno solo una vaga idea del quadro luttuoso e orripilante. Le stesse scene si ripetono nelle diverse località che ho attraversato, dappertutto è la stessa barbarie del governo che punta al sistematico annientamento per fame della nazione armena, dappertutto la stessa bestiale disumanità da parte di questi carnefici e le stesse torture sopportate da queste vittime”. Con queste parole Bernau, un rappresentante di un’industria americana, in viaggio in Anatolia descriveva nel 1915 il genocidio, perpetrato dai Giovani Turchi, nazionalisti laici, modernizzatori, europeizzanti, ai danni del popolo armeno. Hitler con i suoi sei milioni di morti non era ancora arrivato, ma c’era già stato lo sterminio sistematico da parte degli Stati Uniti contro gli indiani americani (“Nella guerra loro uccideranno alcuni di noi: noi li distruggeremo tutti” disse a proposito Thomas Jefferson, terzo presidente degli Usa); quello degli spagnoli in Messico e nelle isole caraibiche contro le popolazioni native che portarono alla scomparsa del 90 per cento della popolazione azteca nel solo primo secolo di dominio coloniale; quello dei coloni australiani contro gli aborigeni. Ovunque e comunque le stesse discriminazioni prima, deportazioni poi, in un crescendo di restrizioni, torture, massacri, fino all’etnocidio e al genocidio. Una storia di orrore e di orrori le cui parole per descriverla, sempre inferiori alla realtà, potrebbero essere le stesse o quasi in ogni circostanza. E si va avanti con le pulizie etniche comuniste e i suoi fautori, Stalin, Mao, Pol Pot, fino ai fatti più recenti delle repubbliche jugoslave, culminate con il vergognoso massacro di Srebrenica, di cui è appena trascorso il decennale, del Ruanda e di quei paesi dove non è in corso una pulizia etnica, bensì violenze contro le minoranze “diverse”: in India, in Indonesia, a Timor est. Storie di oggi e di ieri, ma tutte figlie della modernità. La pulizia etnica omicida è infatti un fenomeno sostanzialmente moderno, perché alla sua base vi è una concezione della democrazia, nella quale si sovrappongono i concetti di demos e di ethnos. É quanto sostiene in un monumentale volume il sociologo britannico, naturalizzato negli Usa, Michael Mann che in questo “Il lato oscuro della democrazia. Alle radici della violenza etnica”, un vero e proprio “libro nero della modernità”, ricco di elementi storici, di interpretazioni, analisi, tabelle, ma soprattutto una meticolosa indagine delle strutture sociali e dei processi politici che resero possibile il compimento di tali misfatti. Una ricostruzione che mostra come ciò non si verificasse quasi mai prima del ‘700, quando i grandi conflitti coinvolgevano imperi multietnici contrapposti. Ci furono certo casi di pulizia etnica dettati dalla religione come nella Spagna del 400 contro gli ebrei, o in Germania durante la guerra dei Trent’anni, o in Irlanda, ma in questi casi si trattò non tanto di scontri tra etnie diverse, quanto di una “pulizia delle anime”. Persino quella che viene spesso considerata la madre di tutte le contrapposizioni etniche, la battaglia del Campo di Kosovo del 1389, fu in realtà combattuta tra due schieramenti multietnici e il mito di un esercito integralmente serbo che si contrapponeva al nemico musulmano è un’invenzione nazionalistica dell’800. “La pulizia etnica era poco comune in quanto a sua volta era poco comune la macroetnicità. La dimensione etnica raramente aveva la meglio sulla distanza o sulla classe”.

La violenza etnica è fenomeno moderno, dunque, e figlia degenere della democrazia (anche se in quasi tutti i casi esaminati nel volume i governi in questione avevano ben poco di democratico), per Mann, infatti, la sovranità esercitata in nome del popolo, sia essa democratica o autoritaria, ha in sé violente possibilità discriminatorie, perché consente allo stato di escludere interi gruppi sociali dalla comunità politica. Il passo allora è breve per fare di questi non più cittadini delle non-persone passibili di essere arbitrariamente discriminate, perseguitate, scacciate, deportate, massacrate.

La “zona di pericolo” viene raggiunta quando due gruppi etnici consolidati rivendicano il diritto alla creazione di uno stato sullo stesso territorio e le loro rivendicazioni hanno una qualche legittimità e possibilità di riuscita. Si supera la soglia della pulizia omicida quando la parte più debole decide di combattere nella convinzione che riceverà aiuto dall’esterno o la più forte pensa di poter attuare la pulizia senza sostanziali rischi fisici e morali. Uno stato frazionato e un ambiente geopolitico instabile e improntato alla guerra risultano essere fattori facilitanti..

Mann sostiene che la pulizia omicida non è quasi mai l’intento iniziale dei perpetratori. Vi si arriva dopo un’escalation che vede fallire, in sequenza, piani meno sanguinosi di allontanamento della minaccia etnica in termini di repressione poliziesca e deportazione.

Negli episodi di pulizia etnica omicida si riescono sempre a distinguere delle élite radicali, dei militanti violenti e una base popolare che fornisce un consenso di massa, anche se raramente maggioritario. I tre attori interagiscono tra di loro fino al raggiungimento di una situazione in cui sono le normali strutture sociali a spingere la gente comune a commettere omicidi e a partecipare alla pulizia etnica, con motivazioni molto più materiali che ideologiche. É il caso del silenzio della popolazione tedesca e della complicità degli innumerevoli seguaci di Hitler durante lo sterminio nazista, o delle violenze attuate nelle ex repubbliche jugoslave, dove spesso i carnefici conoscevano le loro vittime, dove molti episodi di violenza furono perpetrati in stato di ubriachezza, da persone “normali”, assetate di vendetta.

Un libro “deprimente”, come lo definisce lo stesso Mann, anche se sostiene che non ci sono ragioni per sostenere “l’idea che la pulizia omicida sia un carattere necessario della condizione umana o che l’etnia generalmente trionfi su basi meno violente di organizzazione sociale”. Anzi, secondo l’Autore il lato oscuro della democrazia ha ormai compiuto la sua traiettoria attraverso le società moderne, “ha finito di transitare al Nord e ora sta inglobando parti del Sud. Ma finirà prima che passi molto tempo quando la democrazia sarà solidamente istituzionalizzata in forme appropriate a popolazioni multietniche, e soprattutto bietniche. Finirà, auspicabilmente, durante il XXI secolo. A questo punto sappiamo riconoscere le circostanze in cui la pulizia etnica si fa pericolosa e poi sconfina nel baratro dello sterminio di massa. Dal riconoscimento viene la capacità di formulare soluzioni. Ma ci manca al momento la volontà di dedicare risorse al Sud del mondo per queste soluzioni. E il Sud del mondo potrebbe essere condannato a ripetere la stessa dolorosa storia di pulizia etnica che abbiamo vissuto noi”.


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IL PUNTO DI VISTA SOCIALISTA SULL’ATTUALITA’


Il 16 ottobre per Romano Prodi


Per le elezioni primarie del centrosinistra di domenica 16 ottobre il sostegno dello SDI a Prodi non è formale o di circostanza, non è neppure maturato all'ultimo momento, ma nasce dalla piena condivisione del suo progetto. Noi siamo stati tra coloro che sono stati i più determinati nel sostenere la necessità che la coalizione di centro sinistra potesse contare sull'Ulivo come forte e autorevole timone riformista. Dato che questo progetto è ora congelato, tanto più occorre che Romano Prodi esca dalle primarie con un larghissimo consenso che lo metta in condizione di dare un'impronta riformista a tutta l'Unione, necessaria per vincere le prossime elezioni e ancora più indispensabile per poter governare bene.

Noi assicureremo a Romano Prodi tutto il sostegno delle nostre compagne e dei nostri compagni, facendo opera di persuasione innanzi tutto verso le elettrici e gli elettori perché vadano a votare alle primarie.
Non è una prova inutile, né è scontata. Conterà la partecipazione al voto e conterà la dimensione del successo della sua candidatura.
Noi portiamo a Romano Prodi il consenso di un'area socialista che ha fatto sempre del riformismo e della laicità, della libertà e della giustizia sociale, della pace e della sicurezza i suoi valori fondamentali. Per rafforzare questi principi, noi ci stiamo impegnando al fine di realizzare una più larga e forte unità di tutti i socialisti e stiamo lavorando con i radicali di Marco Pannella per la costruzione di una nuova forza che riprenda le idee innovative di Blair, di Zapatero e di Fortuna. Da questa nostra costruzione potrà arrivare all'Unione un rafforzamento ulteriore e un contributo essenziale sui temi delle libertà e dei diritti civili.

Siamo convinti che Romano Prodi saprà apprezzare il nostro forte e pieno consenso, tenendo conto delle nostre idee, dei nostri convincimenti e del nostro attuale lavoro politico nel portare a sintesi politica e programmatica una coalizione che è plurale. A tutte le nostre compagne e a tutti i nostri compagni rivolgiamo quindi un appello perché contribuiscano con passione e tenacia ad una sua grande affermazione.


L'unità dei socialisti è cosa fatta
Dal convegno del 7 e 8 ottobre a Spoleto

''L'Unità dei socialisti é cosa fatta'', annuncia Enrico Boselli. L'attesa, ora, è tutta per il congresso del Nuovo Psi, in programma fra qualche giorno, nel corso del quale si saprà se il partito uscirà dalla coalizione di centrodestra per confluire, intanto, nella Federazione socialista, radicale, laica e liberale, fra socialisti e radicali, appunto. Argomento di cui si era già discusso a Fiuggi dal 23 al 25 settembre, e approfondito venerdì e sabato a Spoleto, in occasione di un seminario promosso dal movimento di Unità socialista di Claudio Signorile.

Venerdì il segretario del Nuovo Psi, Gianni de Michelis, nel corso del suo intervento, aveva aperto a questa possibilità, affermando: ''Il congresso si esprimerà con chiarezza a favore dell' unità, ed anche per una collocazione, che ci costa molto, in un'alleanza che non è quella in cui ci troviamo ora''. Aveva poi posto alcune questioni, ribadendo, fra l' altro, l' ipotesi del terzo polo, ma soprattutto la necessità che il nuovo soggetto politico abbia modo di dire la sua e di chiarire alcuni punti che ha definito ''minimi comuni denominatori''.
''Questo non è il momento - gli ha risposto oggi il segretario dei Radicali, Daniele Capezzone - di giocare su diversi tavoli contemporaneamente, di evocare terzi, quarti, quinti poli, minimi comuni multipli, massimi comuni denominatori. Bisogna mettere al bando, io spero definitivamente, per tutti noi socialisti, radicali, liberali, laici, i tatticismi e i politicismi''. E il leader dei Radicali, Marco Pannella, ha aggiunto che ''una forza come questa che nasce ha come interlocutori i 43 milioni di elettori, e non si deve preoccupare di non perdere il 2 per cento di quelli che ci sono già".
Concludendo i lavori di Spoleto, Enrico Boselli, ha affermato: ''l' unita' dei socialisti fino ad oggi non è stata possibile non per Prodi o per l' Ulivo, ma perché eravamo collocati in due schieramenti contrapposti, e questa é un' anomalia. Ma il giorno dopo la decisione del Nuovo Psi di abbandonare il centro destra, l' unità dei socialisti è cosa fatta. E quel giorno è il prossimo 23 ottobre'', cioè la data del congresso del partito di De Michelis.
Intanto, al termine dei lavori di Spoleto, il movimento di Unità socialista ha deciso di confluire nello Sdi ed il suo leader, Claudio Signorile, ha espresso la volontà di partecipare al prossimo congresso del partito (''poi vedremo i modi e le forme''). Già venerdì Roberto Villetti, nel corso del suo intervento aveva detto di non vedere piu' differenze fra Unita' socialista e Sdi.
Fra i temi al centro del dibattito, l' unanime sottolineatura del fatto che questo processo di unificazione non dovrà portare ad una somma di vecchie esperienze (di ''vecchie crisi'', come ha sottolineato qualcuno), ma ad un soggetto politico nuovo, che si pone l' obiettivo di svolgere un ruolo importante nella futura vicenda politica del Paese, sotto il segno della difesa della laicità dello Stato. ''Il nuovo soggetto politico - ha spiegato Signorile - chiede libertà e sviluppo e questo obiettivo è nell' analisi dei singoli problemi''.
Ora c'è attesa per le decisioni che verranno prese al congresso del Nuovo Psi, mentre Boselli ha augurato che ''il 7 dicembre prossimo, giorno in cui si ricorderà Loris Fortuna, si possa salutare la nascita nel nostro paese della nuova forza politica che abbiamo immaginato in questi mesi di lavoro''.




L'Assemblea Nazionale della FGS del 9 Ottobre 2005 ha approvato il seguente documento politico ed organizzativo:


Sono passati due anni dalla celebrazione del III congresso nazionale della Federazione dei giovani socialisti. Occorre, quindi, da un lato tirare le somme di quanto fatto e dall’altro pianificare le attività future.
Circa il primo punto, è innegabile che siamo stati protagonisti e costruttori di una stagione politica irripetibile. Ci siamo fortificati nella struttura organizzata, inaugurando nuove realtà territoriali e innestando nuova linfa in quelle preesistenti.
Ma soprattutto, siamo stati capaci di costruire una nostra specifica soggettività politica, culturale e programmatica, che ci è stata riconosciuta a più riprese. Da ultima, in occasione della manifestazione nella quale i giovani socialisti hanno incontrato Romano Prodi ed Enrico Boselli.
Solo una settimana prima il nostro simbolo campeggiava affianco a quello dello SDI, dei Radicali italiani e dell’associazione Luca Coscioni sul fondale della Convenzione nazionale per il lancio del "Progetto per le libertà". In quella occasione il nostro segretario nazionale, Gianluca Quadrana, ha aperto i lavori del meeting terzo tra i primi quattro interventi.

In questa disamina non bisogna dimenticare quanto fatto in precedenza, nell’intervallo temporale tra il congresso e il presente: Lancio del sito internet (www.europeintheworld.org) per la raccolta di firme su scala continentale a sostegno del seggio unico UE all’ONU; raccolta delle firme per l?indizione del referendum per l?abolizione della legge 40; conferenza programmatica nazionale del coordinamento donne (FGS Rosa) sul tema della campagna di adesione 2005: "Non in vendita"; campagna di informazione e sensibilizzazione della PDL del Sen. Biscardini in materia di riconoscimento delle Unioni di fatto; Raccolta di 15.000 firme a sostegno della PDL dell’On. Buemi in materia di liberalizzazione delle droghe leggere e di somministrazione controllata di eroina; campagna per l?istituzione dell’"esercito europeo - forza di pace"; campagna a favore delle fonti energetiche alternative dal titolo: "Sinistra a ! idrogeno"; campagna per la difesa della scuola pubblica dal titolo: "Più fatti meno Moratti"; conferenza programmatica sul tema: "Quale minimo comune denominatore valoriale tra laici e cattolici?"; adesione al manifesto anti fobia (pro OGM) del professore Veronesi; campagna "Stop Lukas" contro la dittatura comunista bielorussa; primo Summer camp della FGS; prima festa nazionale della FGS; creazione del Coordinamento nuovi diritti LGBT; cofondazione del "Forum nazionale dei giovani";
Non dobbiamo, però, considerarci paghi di quanto fatto. E per questo abbiamo il dovere morale di pianificare il futuro. Nel farlo non possiamo prescindere dall’indicare un punto d?arrivo che coinciderà con la celebrazione del nostro IV congresso nazionale, previsto per la primavera prossima.

Guai a gettare via quanto fatto, chiudendoci in una logica organicistica, ma appare improcrastinabile provvedere, già dalla prossima riunione dell’esecutivo nazionale, ad individuare le forme e le figure che dovranno trovare spazio negli organismi nazionali così da renderli più vigorosi e nello stesso tempo più rispondenti allo stato attuale della FGS.
In questi mesi che ci separano dalla scadenza dobbiamo rafforzare quindi la struttura, far emergere delle nuove competenze politiche che si sono manifestate a livello territoriale e nazionale, ma anche e soprattutto costruire le basi per un ricambio generazionale interno alla FGS e allo SDI.


Tutto questo lo riusciremo a fare con maggiore facilità e risultato se continueremo ad anteporre la politica a quanto attiene unicamente alla "cucina politica". Continuando, cioè, a bandire dalla nostra comune organizzazione logiche di parte e di divisioni artificiose.
In questa direzione, e dopo il ruolo riconosciutoci alla convenzione di Fiuggi di cofondatori del "Progetto per le libertà", dobbiamo continuare e, financo superarci, ad essere capaci di produrre e proporre analisi e soluzioni politiche, originali nella doppia natura pragmatica e ideale.
Pena la sconfitta del progetto, la prima e più fondamentale sfida dell’Unità socialista e radicale, che trova nella troika Blair, Zapatero e Fortuna i propri modelli positivi e vincenti, deve consistere nella liberalizzazione della politica dalle incrostazioni oligarchiche e dal perseguimento del ricambio generazionale fuori e dentro il nostro progetto politico.
Questo tema a noi particolarmente caro, non fosse altro per il dato anagrafico che ci contraddistingue, è stato già affrontato da Enrico Boselli e da Emma Bonino nell’assise di Fiuggi, facendoci ben sperare in primo luogo che sarà parte dei punti caratterizzanti il programma unitario e in secondo luogo, che sarà un monito nell’affrontare la questione dell’unità socialista, vale e dire che questa, proprio in ossequio alla volontà di svecchiare la politica italiana, non si risolverà in un?operazione amarcord.

Per quanto ci compete vogliamo fare un passo in avanti proponendoci non solo come esperti delle politiche giovanili, ma più coraggiosamente e consapevolmente come supporto paritario al gruppo dirigente del partito ad ogni livello.

Di conseguenza, chiediamo che già a partire dalle prossime scadenze, congresso dello SDI ed elezioni politiche ed amministrative, i dirigenti della FGS, a cominciare dal segretario nazionale, abbiano la possibilità di poter rappresentare ai massimi livelli il progetto in cui credono, vale a dire la costruzione di un forte e moderno soggetto politico socialista, liberale, laico e radicale.


Legge elettorale, dall'Unione pioggia di emendamenti

Dopo la manifestazione di domenica 9 OTTOBRE a Roma che ha portato in piazza centomila persone contro la legge elettorale e la Finanziaria della Cdl, l’Unione mette a punto la strategia per contrastare il “colpo di mano” proporzionalista imposto dalla maggioranza nel tentativo di limitare l’annunciata sconfitta elettorale. Nel corso di un vertice dei segretari e dei capigruppo del centrosinistra è stato deciso di sostenere i circa 540 emendamenti 'soppressivi' e ha deciso di presentarne altri 5 'correttivi'. Fondamentale sarà il ruolo dei franchi tiratori all’interno della Cdl nel bocciare una riforma che non accoglie consensi unanimi dagli alleati di Berlusconi.
"La madre di tutte le battaglie può riservare delle sorprese: contiamo sulle divisioni nella maggioranza” ha detto Ugo Intini commentando le conclusioni del vertice".

“In via di principio – ha continuato Intini – nel centro sinistra ci stanno sostenitori del maggioritario e anche del proporzionale, come lo SDI. Ma tutti saremo determinati e compatti nel lottare contro questa legge, che è un affronto alla Costituzione e alla democrazia. Nella CDL invece le divisioni sono forti e potrebbero emergere con il voto segreto. Mai una maggioranza parlamentare che non è più tale nel Paese e che impone a molti dei suoi stessi membri di votare contro le proprie convinzioni ha osato tanto. Si può sperare che abbia osato troppo”.


CONFRONTO DELLE OPINIONI

«Mi oppongo all’ ingegneria genetica come al fascismo o al comunismo»
Il filosofo Fukuyama mette in guardia sui rischi di una ricerca senza limiti. «Non per motivi religiosi, ma per la necessità di tutelare la specie umana».


• da Corriere della Sera del 10 ottobre 2005, pag. 14


di Gianni Riotta

«Si immagina l'Italia senza famiglie, senza parenti, fratelli e sorelle? No, non è l'idea giusta del vostro Paese, dai film ai romanzi. Eppure nel 2050, solo il 5% degli italiani avrà una famiglia allargata al di là del padre e della madre, una famiglia con fratelli, cugini, zii. E sa perché? Perché con il calo della natalità il Paese diverrà un ospizio per anziani, soggetti a demenza e Alzheimer, l'età media 65 anni, la classe dirigente gerontocratica, i pochi ragazzi smarriti e perplessi. Genetica, diritti delle nuove generazioni, difesa della nostra specie dalle ingegnerie di laboratorio che rischiano di cambiare la carta dei diritti: questo è il manifesto della nuova politica!».

Sono passati sedici anni dal suo pamphlet «La Fine della Storia» che, al crepuscolo della Guerra Fredda, fece discutere il mondo e il filosofo Francis Fukuyama è di nuovo al lavoro ai confini della conoscenza. Non si occupa più solo di politica internazionale, malgrado il suo dissenso con il presidente George W. Bush a proposito di attacco all'Iraq abbia stupito, venendo da uno studioso conservatore. Ha scritto di etica familiare asiatica, di valori occidentali e adesso si concentra a combattere il pericolo del «transumanismo», un nuovo codice genetico elaborato dagli scienziati che potrebbe ledere i diritti umani. Se siamo tutti uguali per la legge, ma alcuni di noi sono in grado di comprare per i figli al momento della nascita qualità formidabili, intelligenza, memoria, salute, in provetta, non cambierà la costituzione materiale? Sono i temi che Fukuyama solleverà in una lezione a Roma, al Centro di Orientamento Politico presieduto da Gaetano Rebecchini.

E l'Italia torna al centro della riflessione, anche con l'occhio alla Chiesa di Papa Benedetto XVI e allo scontro di primavera sui referenda per la fecondazione assistita: «Quello scontro - dice Fukuyama - è stato l'anticipo della politica che verrà. Le democrazie si troveranno sempre più spesso a disputare di diritto alla ricerca e limiti alla ricerca e le opinioni pubbliche si divideranno. Quando parliamo di libertà di studio e di cultura diffusa della comunità, ci viene in mente Galileo Galilei accusato dalla chiesa cattolica del cardinal Bellarmino per le sue tesi astronomiche. Le simpatie vanno automaticamente alla scienza, ma se guardiamo con freddezza al tema vediamo che ogni società pone limiti rigidi agli studi. Non permettiamo esperimenti su cavie umane come il dottor Mengele ad Auschwitz, perfino la ricerca sugli animali è regolata, a prescindere dai risultati. Quindi le regole devono esserci e io credo che una delle fondamentali debba tutelare la specie umana, non alterandone le caratteristiche».

Fukuyama conosce le posizioni della Chiesa sul tema, nei giorni del referendum il cardinal Ruini articolò la posizione tattica con l'astensione, monsignor Sgreccia diede l'impronta teorica, ma la sua scelta è diversa. «Io non parto da una posizione religiosa, sono consapevole della tradizione tomistica, non credo che i diritti dell'embrione siano gli stessi diritti di un cittadino. Credo però che l'embrione abbia una sua sfera di diritti, diciamo così intermedia, e che vada tutelato. So, al tempo stesso, che gran parte della mia comunità crede invece che l'embrione sia un cittadino e rispetto dunque questa idea. La ricerca sulle cellule staminali non va proibita, va regolata. E sa qual è il confine? La differenza tra terapia e cosmetica».

Il lettore avvezzo alle distinzioni grezze, conservatori contro progressisti come nel XIX secolo, aguzzi lo sguardo. Fukuyama, conservatore critico della guerra per esportare la democrazia, chiede - da liberale - cardini per la ricerca. Vuole che dai laboratori escano cure per le malattie, e sa che il futuro della medicina, anche oncologica, è la genetica. Ma rifiuta l'idea di uomini e donne che migliorino in provetta il loro destino: «Mi oppongo all'ingegneria genetica per la stessa ragione per cui mi oppongo al fascismo e al comunismo. Trovo ripugnante l'idea di considerare malleabile la natura umana, plasmandola al volere delle élites. Abbiamo imparato che l'ingegneria sociale provoca milioni di vittime, e temo che lo stesso possa accadere per l'utopia di modificare il comportamento umano in laboratorio, manipolando per esempio l'aggressività di certi individui. Quindi ok curare i malati, no a migliorare la personalità dei sani».

Che cosa ci sarebbe di male a nascere più alti, o più veloci, le cellule esplosive dello sprint sono innate, perché non darle a tutti? E perché mai una memoria migliore dovrebbe alterare il nostro codice etico, o un più diffuso quoziente d’intelligenza mettere a rischio l'Homo sapiens? Non credo che alla fine tutti sceglierebbero capelli biondi e occhi glauchi da ariano, i modelli di bellezza sono tanti e diversi. E non credo neppure che Leopardi fosse grande perché gobbo: anche dritto come un fuso il suo animo sarebbe rimasto grande e malinconico. Fukuyama dissente: «Per me un atleta migliorato in laboratorio è come un atleta dopato, andrebbe squalificato. E si immagina che succederebbe di un'umanità che fa la corsa all'altezza, tutti alti tre metri? Alle Olimpiadi vincerebbero non i migliori atleti, ma i migliori laboratori genetici. Guardi alla nostra società, e guardi soprattutto all'Italia. La vita media toccherà presto gli 80 anni, ma per tanti anziani che vita è? Li teniamo in case di riposo senza famiglia, soggetti a demenza senile, Alzheimer, perché abbiamo allungato la vita e non sappiamo battere questi morbi. E quando in Italia solo pochi tra di voi avranno famiglia che Paese sarà? Allora temo il distacco tra una scienza che va avanti e una società che rincorre, relegando all'infelicità e all'isolamento tanti di noi».

Negli Stati Uniti questa frattura si colma di psicofarmaci, tanto diffusi da essere perfino prescritti nelle scuole medie, per controllare la vivacità degli scolari. Ora gli effetti collaterali di depressione e i casi di suicidio preoccupano, ma fino a poco tempo fa il Prozac sembrava un chewing gum: «È vero. La tentazione di controllare la natura umana è forte per via genetica e fortissima per via chimica. E investe i più giovani. Si dimentica che non tutto è innato, è inutile modificare il nostro codice genetico se poi non modifichiamo l'ambiente, la cultura, intorno a noi. Il destino di ogni individuo è segnato dalle sue caratteristiche personali, ma anche dalla società e dalla famiglia in cui cresce».

Non c'è tempo per un bilancio a 16 anni dalla nostra prima conversazione sul Corriere, dopo il lancio de La Fine della Storia, Fukuyama ride: «Ci risentiamo a gennaio quando esce il tascabile con la nuova prefazione!», ma ai saluti chiedo come hanno reagito i vecchi amici neoconservatori al suo no alla guerra in Iraq: «Alcuni bene, altri male, alcuni non mi saluteranno più. Ma ho ragione io: un conservatore liberale ha un acuto senso dei limiti del potere statale nel modificare la realtà. E consiglia sempre prudenza, cautela, rispetto. Io lo faccio adesso sulla ricerca genetica, ma quando si sono illusi di disseminare democrazia a piene mani all'estero sono i miei amici che hanno rotto con il paradigma conservatore, non certo io».



No agli anatemi sull'eutanasia


• da Panorama del 7 ottobre 2005, pag. 34

di Luca Coscioni

L’eutanasia deve porsi al centro del dibattito politico nel nostro Paese perchè deve essere riconosciuto e garantito il diritto di morire dignitosamente. Cioè il riconoscimento della volontà del morente, libera, autentica volontà assunta come norma che preveda e garantisca la manifestazione della coscienza di ciascuno di noi, che non esprima altro significato se non quello intimamente voluto.



La morte è una realtà che appartiene all'esistenza e al vivere, imprescindibile. Tuttavia viviamo in una società, quella italiana, dove il morire è sentito come fatto emotivo esclusivamente personale e isolato. E’ difficile, dunque, parlarne con libera franchezza, con libertà, non per esorcizzarlo o per svelarne il mistero, se un mistero della morte esiste, quanto piuttosto come questione sociale, come problema politico, là dove il morire è legato a condizioni estreme di dolore e sofferenze, intollerabilì. Viviamo in un Paese dove per i sedicenti difensori della vita, in realta paladini del martirio e della morte, il diritto al suicidio esiste già, nel senso che quando mani e braccia funzionano ancora, una persona può scegliere di togliersi la vita, dandosi fuoco. Insomma un rogo sì, una morte dignitosa no. Mi rivolgo infine al cardinale Camillo Ruini e al Vaticano perche non scaglino anatemi religiosi contro chi decide di mettere fine alla propria esistenza.



(info©associazionecoscioni.org)




Fiera delle ipocrisie sulla legge Biagi


• da Il Sole 24 Ore del 4 ottobre 2005, pag. 1

di Michele Tiraboschi

Abrogare la legge Biagi? Rassegnamoci sin da ora. Quella che sembra essere poco più di una provocazione diventerà, ben presto, uno dei principali leit motiv che caratterizzeranno, di qui ai prossimi mesi, la lunga volata che ci porteràalle elezioni politiche. E’ già successo in Germania e Norvegia, dove il confronto elettorale delle settimane passate è stato polarizzato dalle riforme di mercato del lavoro e dal problema della disoccupazione.
E lo sarà a maggior ragione in Italia, dove non sono neppure bastati i dati, più che positivi, sull'occupazione per portare un po' di tregua sulla riforma Biagi.

Siamo l'unico Paese che registra, da quasi quattro anni, un costante incremento dei tassi di occupazione regolare e una significativa contrazione del lavoro precario. Lo stesso tasso di disoccupazione è drasticamente sceso al 7,5 per cento. Ben al di sotto della media europea, e di gran lunga meglio rispetto a quanto avviene in Paesi come Francia, Spagna e Germania. Eppure i significativi sforzi compiuti sulla strada della modernizzazione del mercato del lavoro, in una chiara linea di continuità tra pacchetto Treu e legge Biagi (come ben sanno gli addetti ai lavori), stentano ad essere riconosciuti. Quasi si rimpiangesse, per mere convenienze politiche o pregiudiziali ideologiche, quello che sino a pochi anni fa veniva considerato dalla Ue il peggiore mercato del lavoro in Europa.


Nelle dinamiche, invero mai limpide, del confronto politico e sindacale il merito stenta in ogni caso ad emergere. E poco o nulla importa se, pur con alcune difficoltà e rilevanti contraddizioni, la legge Biagi ha consentito di rendere più effettive e fluide le regole che governano l'incontro tra domanda e offerta di lavoro. Al di là di quanto di positivo emerge dalle rilevazioni statistiche ha, dunque, certamente senso porsi il problema, tutto politico, dell'abrogazione di una legge divenuta suo malgrado il simbolo della precarietà e della mercificazione del lavoro.


Ma è davvero possibile, anche ammesso che si presentino a breve le condizioni politiche, abrogare la legge Biagi e i relativi decreti di attuazione? Chi ne abbia seguito in questi anni il complesso e laborioso processo di implementazione può affermare che la legge Biagi si è a tal punte radicata nel nostro ordinamento che difficilmente potrà essere smantellata da una diversa coalizione di governo. Per cambiare registro non saranno certamente sufficienti le fatidiche tre parole del legislatore. La conferma di ciò viene dal fatto che, paradossalmente, nella completa inerzia delle Regioni della maggioranza, sono state proprio le Regioni del centro-sinistra a dare piena e tempestiva attuazione alla legge Biagi. Cancellarla significherebbe, in altre parole, abrogare svariate normative regionali, altrettanto corpose e incisive, che toccano tutti i profili centrali del nostro mercato del lavoro, a partire dall'organizzazione e disciplina dei servizi per l'impiego sino ai contratti di apprendistato che rappresentano il principale canale di contrasto del precariato e di sostegno dell'occupazione giovanile.
Si tratterebbe di un clamoroso passo indietro che, pur con tutte le cautele del caso, pare davvero difficile ipotizzare. E, a ben vedere, che il giudizio sostanziale sulla legge Biagi possa cambiare, non appena si passi da una posizione di contestazione a un ruolo istituzionale e di responsabilità di governo, lo dimostra ora quanto fatto a Bologna da uno degli oppositori della prima ora della legge. Nessuno lo ha ancora fatto notare. Ma, nell'imporre la modalità cosiddetta "a progetto" della Biagi alle collaborazioni coordinate continuative attivate dal comune di Bologna, Sergio Cofferati si è spinto ben oltre estendendone il campo di applicazione, per mero accordo sindacale, persino alle pubbliche amministrazioni che pure formalmente risulterebbero escluse. Una conferma della bontà di talune intuizioni contenute nella legge Biagi su cui vale la pena di insistere. Trattandosi di una legge sperimentale sarebbe del resto controproducente qualunque modifica, anche per quanti ne hanno ingiustamente fatto il simbolo della precarietà, prima di averne potuto verificare sul campo gli effetti sul nostro mercato del lavoro.



L’ultimo misfatto del bipolarismo prêt-à-porter

• da Il Riformista del 10 ottobre 2005, pag. 1


Perché in Germania stanno per fare un governo che mette insieme il diavolo e l’acqua santa pur di salvare il paese dal declino? Perché in Francia conservatori e socialisti sono andati a braccetto alle urne a votare Chirac pur di salvare il paese da Le Pen? E perché in Gran Bretagna i Tories non hanno esitato a sostenere il nemico interno Blair contro il nemico esterno Saddam, perché right or wrong my country? Perché lì il bipolarismo consente di unirsi per l’interesse nazionale e qui obbliga a dividersi anche quando l’interesse nazionale è in gioco?
Sono domande che bisogna farsi mentre sta per cominciare, degno finale di una pessima legislatura, la più cinica e cruenta delle battaglie politiche tra i due schieramenti, perché giocata sulle regole della democrazia, dunque sulla pelle della Repubblica. Bisogna chiedersi, con un po’ di vergogna, perché da noi non è neanche immaginabile che possa scattare nel ceto politico un analogo riflesso di patriottismo istituzionale, che spinga le due parti in lotta a sentirsi comproprietarie dello stesso bene immobile, la Repubblica, di cui le vittorie elettorali assegnano solo l’affitto con contratto quinquennale. Perché i due poli non si sentono mai condomini, ma si comportano sempre da tribù.



La responsabilità maggiore di questa ultima batracomiomachia ricade sulle spalle della maggioranza, che ha deciso di usare gli ultimi mesi utili per fare qualcosa di buono per sé, invece che per il paese. La legge elettorale, poche chiacchiere, la fanno per prendere più voti, o per perdere meno seggi. Pagando spensieratamente il prezzo di una guerra civile che è già debordata nelle piazze, e che avrà strascichi pesanti nella prossima legislatura, nella quale chiamerà vendetta; così da renderci già sicuri che anche i prossimi cinque anni andranno persi ai fini della stabilizzazione del sistema, così come sono andati persi questi e quelli prima di questi. I due poli sembrano ormai due tennisti esausti, che si scambiano colpi da fondo campo sempre più flebili ormai da dodici anni, senza avere la forza, il coraggio e la classe di scendere a rete e di assestare una volée vincente. Sperano ormai solo nel solo nel tie-break, nel colpo di fortuna o di forza. Da domani alla Camera si gioca il tie-break della seconda Repubblica.



Il vizio di usare le istituzioni al fine di far vincere la propria parte, in questo decennio è stato infatti bipartisan. Per un Fini che prima promuove un referendum per abrogare la residua quota proporzionale e poi promuove una legge per abrogare l’intera quota maggioritaria; per un Berlusconi che va al potere sull’onda del rifiuto della prima Repubblica e poi si industria ad abbattere la seconda, c’è un campionario di aporie anche dall’altra parte. Fateci caso, ma gli argomenti più forti che oggi il centrosinistra oppone alla riforma proporzionale sono esattamente quelli che demonizzava per opporsi alla riforma costituzionale del centrodestra.

Ora è il centrosinistra che teme ribaltoni, mentre prima ne difendeva la legittimità, in nome del diritto del parlamento, e non degli elettori, di eleggere il premier. Qualche mese fa riteneva il premier forte (Berlusconi) fosse una dittatura, ora si lamenta che il premier futuro (Prodi) sarà troppo indebolito dall’andare in ordine sparso dei partiti. Prima c’era troppo vincolo di coalizione, ora ce n’è poco. Ben altra credibilità avrebbe avuto la battaglia dell’Unione contro il proporzionale se fosse stata preceduta da una coerente difesa del modello Westminster, anche quando era il centrodestra a proporlo. E ben altra forza avrebbe adesso se invece che un muro contro muro con tanto di appello alla piazza fosse un intelligente e serio confronto parlamentare, non a base di editti ma di emendamenti, che potrebbero far esplodere le divergenze in seno al Polo e salvare il soldato Follini, abbandonato nella sua trincea. Dopo la manifestazione di ieri ci risulta difficile immaginare un partito di cinquanta franchi tiratori di centrodestra nel voto di domani; e il dio dell’Unione non voglia che ce ne siano invece nel centrosinistra, nonostante la manifestazione di ieri.

La verità è che quest’ultima battaglia di fine legislatura segna il fallimento di un’intera classe politica, di destra e di sinistra, che ha perso la grande occasione del ’92-’94, quando in un raro momento di scarsa presa dei partiti sulla cosa pubblica si riuscì a mettere in sesto conti pubblici e sistema istituzionale. Da allora in poi entrambi questi beni, preziosi per l’interesse nazionale, sono stati picconati insieme alla casa comune, solo per farsi il proprio quartierino. Si spiega così il sostanziale scoramento e la silenziosa indifferenza di quella società civile che dal bipolarismo si era aspettata una svolta capace di farci diventare più simili alla Germania, alla Francia o all’Inghilterra. E che ora, come la Confindustria che ne aveva fatto una bandiera, non se la sente più di difendere l’uso prêt-à-porter che i due poli ne hanno fatto.



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