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Trento/Bolzano, 16 aprile 2013 - Sommario: 1. Un Libro per cominciare: «La ricchezza di pochi avvantaggia tutti» Falso! di Zygmunt Bauman – commento di Gianfranco Sabattini 2. Il Psi trentino riprende il filo della storia laica e riformista – doc. Esecutivo provinciale Psi 3. La crisi della politica e il ruolo dei partiti – di Lorenzo Passerini 4. Il vangelo secondo Matteo (Renzi) – di Giuseppe Tamburrano 5. Walter Veltroni e l'anomalia del fattore 'D'– di Mauro Del Bue 6. Storielle di moralisti mendaci @@@@@@@@@@@@@@@ 1. Un Libro per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges) o Autore: Zygmunt Bauman o Titolo: «La ricchezza di pochi avvantaggia tutti» Falso! - Laterza, Roma - Bari, Marzo 2013 Si allarga la forbice tra ricchi e poveri finendo per danneggiare anche il sistema La ricchezza di pochi avvantaggia ... pochi -di Gianfranco Sabattini – Avanti della Domenica del 14 aprile 2013 Uno studio del World Institute for Development Economics Research delle Nazioni Unite denuncia che nel 2000 l’1% delle persone adulte più ricche possedeva il 40% delle risorse globali e che il 10% ne possedeva l’85%, mentre il 50% delle persone adulte del mondo possedeva solo l’1% delle ricchezza globale. Notizie sempre più negative sulle disuguaglianze distributive si susseguono di giorno in giorno e la diffusione e la persistenza della povertà, in presenza del “fondamentalismo” della crescita continua e del susseguirsi di crisi sempre più frequenti, inducono a riflettere sulle cause e gli effetti negativi dell’abisso sempre più profondo che si è scavato, e che continua ad approfondirsi, tra poveri privi di ogni prospettiva futura e ricchi ottimisti, fiduciosi e chiassosi. L’abisso è divenuto così profondo da risultare ormai al di la delle capacità di scalata di chiunque si trovi involontariamente in stato di bisogno: è questo il “J’accuse” che Zigmunt Bauman lancia nel suo ultimo libro, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti: falso”, contro gli esiti del funzionamento sul piano distributivo del capitalismo moderno. In particolare, la crescente disuguaglianza del reddito, benché indesiderabile dal punto di vista sociale, non avrebbe grande rilevanza se tutti fossero liberati dallo stato di bisogno; ma se la maggior parte del prodotto sociale corrente è “catturato” da un numero relativamente piccolo di soggetti, come avviene nella realtà di oggi, è evidente che nel funzionamento dei moderni sistemi economici c’è qualcosa che non funziona. Le dichiarazioni di quanti affermano che il perseguimento del tornaconto individuale fornisce anche “il meccanismo migliore per il perseguimento del bene comune” sono perciò false. Secondo Bauman, malgrado che gli esseri umani siano consapevoli del carico di negatività del quale sono portatrici le disuguaglianze distributive, queste nei sistemi sociali capitalistici persistono tenacemente, a causa della radicata credenza nei “dogmi dell’ingiustizia”; ciò perché tali dogmi sono le premesse che danno senso alle convinzioni radicate con cui gli uomini pensano e decidono, delle quali però non si rendono conto della debolezza loro intrinseca. I dogmi dell’ingiustizia sono per lo più espressi dalle credenze che l’elitismo sia all’origine del benessere del sistema economico, perché la libertà dal bisogno di molti può essere assicurata solo promuovendo e proteggendo le capacità delle quali solo pochi dispongono; che l’esclusione è insieme normale e necessaria per conservare lo stato di salute del sistema sociale e che l’avidità costituisce uno dei “motori” centrali per il miglioramento del sistema sociale; che lo stato di bisogno diffuso e persistente è ineluttabile e non può essere evitato. La condivisione di questi dogmi non ha concorso a creare un clima sociale favorevole alla cooperazione ed alla solidarietà umana, in quanto ha plasmato nel tempo un’etica sociale tale da rendere cooperazione e solidarietà opzioni non solo impopolari, ma anche dannose per essere condivise; in particolare, ha reso difficile la comprensione che la costruzione di un sistema sociale competitivo e conflittuale è opera umana, nel senso che sono stati gli uomini stessi a privilegiare, nella costruzione del sistema sociale, la forma conflittuale. Sennonché, la competizione è un surrogato sublimato della guerra e questa non è affatto inevitabile, perché se gli uomini avessero voluto la pace e la cooperazione in luogo del conflitto avrebbero potuto farlo con la stessa facilità con cui all’origine hanno optato per la rivalità in luogo dell’”amichevole cooperazione”. L’essere stati educati a credere che il benessere di tutti i componenti del sistema sociale lo si potesse promuovere meglio solo lasciando che pochi si arricchissero a danno di tutti ha causato, per Bauman, il travisamento della tradizionale relazione tra gli “esseri pensanti” e gli “oggetti del pensiero umano”, trascurando che i primi sono il lato attivo della relazione, mentre i secondi sono il lato ricevente dell’azione umana. Il travisamento si è verificato allorché il “modello della relazione soggetto/oggetto”, derivato dall’esperienza e giustificato dalla tradizione filosofica, è stato trasferito alle relazioni fra gli esseri umani, con questi ultimi trattati alla stessa stregua degli “oggetti”. In tal modo, è stato possibile forgiare e plasmare un’etica sociale individualistica ed esclusiva, che, malgrado i suoi effetti disgreganti sulla “tenuta” del sistema sociale, mostra ancora oggi segni di forza aggregante. L’aver preteso quindi, originariamente, di giustificare la sostituzione della cooperazione e della solidarietà con la competizione e la rivalità attraverso il richiamo del vecchio adagio “homo homini lupus est” è stato, conclude Bauman, solo un insulto per i lupi. Bauman ha certamente ragione, perché l’avidità, posta a presidio della distribuzione del prodotto sociale, è servita a giustificare una “distribuzione a somma zero”, nel senso che il “privilegio di pochi” ha potuto essere reso possibile solo a danno dei più; mentre l’avidità, se fosse stata trasformata e depotenziata con la collaborazione e la solidarietà in accettabile e funzionale emulazione, avrebbe potuto giustificare una distribuzione “a somma positiva”, nel senso che il maggior risultato del “vivere insieme” che sarebbe stato possibile conseguire sarebbe andato a vantaggio di tutti. Il mondo attuale è totalmente “chiuso” ad “aprirsi” all’accoglimento di questa lapalissiana verità. @@@@@@@@@@@@@@@ 2. Il Psi trentino riprende il filo della storia laica e riformista -documento dell’Esecutivo provinciale Psi Le elezioni regionali di ottobre si avvicinano e ormai la corsa elettorale è già entrata nel vivo. Per evitare fughe in avanti personalistiche, immobilismi di chi non vuole perdere la propria centralità e rischi di sterili spaccature, il centro sinistra autonomista deve rinserrare al più presto le fila. Nell’ultimo incontro del tavolo della coalizione si sono poste utili basi, ma dalle parole bisogna passare presto ai fatti concreti. Innanzitutto occorre elaborare una cornice programmatica che almeno ponga i problemi principali della prossima legislatura: sviluppo economico e lavoro, diminuzione delle risorse del bilancio PAT, riorganizzazione della burocrazia provinciale, politiche ambientali e nuovi diritti di cittadinanza. Per ognuno di questi ambiti il PSI condivide la proposta del segretario PD Nicoletti, di insediare fin d’ora gruppi di lavoro rappresentati da esponenti delle varie forze politiche della coalizione. A livello più strettamente politico resta il nodo dell’eredità del governo di Lorenzo Dellai. È necessario superare la contrapposizione tra quanti si muovono nel solco dellaiano e quanti sono più propensi al cambiamento: riteniamo di essere giunti ad una nuova fase politica che ha bisogno di nuove energie. Nella scelta del candidato presidente della provincia si dovrà pensare a una figura capace di traghettare l’autonomia in un mare probabilmente burrascoso. Imprescindibili saranno i rapporti con il livello nazionale: il dialogo tra i partiti del Centro sinistra e le forze autonomiste SVP e PATT deve continuare secondo il patto preelettorale siglato con Bersani. Si potrebbe delineare il profilo di un candidato con forte esperienza nazionale e capacità amministrativa che conosca profondamente la realtà trentina. Le primarie di coalizione sono uno strumento importante ma non esclusivo o alternativo ad altri procedimenti per la scelta della leadership. L’importante sta nel non chiudersi nelle segrete stanze, ma nel coinvolgere i cittadini che altrimenti risponderanno con il rigetto e il voto di protesta. Per questi motivi occorre decidere presto il percorso per la scelta del candidato presidente , le regole e le modalità di partecipazione: che siano elezioni primarie o “stati generali” della coalizione. Lista laica e riformista. Il Partito socialista inizierà prima dell’estate una serie di incontri con l’obiettivo di raccogliere quei cittadini che si riconoscono nella prospettiva riformista. Dopo il crollo della prima Repubblica (che pure aveva ricostruito l’Italia dopo gli orrori della guerra), la ventennale sbornia berlusconiana (non ancora finita) e l’era dell’antipolitica, molte persone hanno il desiderio di un modo di fare politica in grado di affrontare i temi concreti, con uno stile davvero democratico. In Trentino c’è spazio per una lista a forte carattere riformista. Per raggiungere l’obiettivo di presentarsi all’elettorato in maniera unitaria, occorre mettere da parte il passato, l’identità presente e le ambizioni future per porre al centro il bene della comunità. Come detto molte volte le parole d’ordine dovranno essere: lavoro, ambiente, nuovi diritti di cittadinanza, sburocratizzazione, partecipazione politica, riforma dell’autonomia, apertura internazionale. @@@@@@@@@@@@@@@ 3. La crisi della politica e il ruolo dei partiti -di Lorenzo Passerini, giornale Trentino del 15 aprile 2013, p. 25 La crisi del sistema politico italiano e della cosiddetta II Repubblica merita, da parte di tutte le forze democratiche, uno sforzo di riflessione: lo stato delle “cose” ha ragioni storiche profonde e complesse, che vanno oltre una lettura superficiale degli accadimenti degli ultimi mesi. L’Italia, durante i decenni della I Repubblica, è sempre stata una democrazia debole, con un sistema bloccato. Alberto Ronchey impiegò la formula fattore K per analizzare le ragioni della mancata alternanza di governo nel nostro Paese: nel momento in cui un potente partito comunista prevaleva su ogni altra opposizione, con quel nome legato alla tragica esperienza sovietica, senza un'ideologia e una politica estera compatibili con le condizioni storiche dell'Europa a ovest del muro di Berlino, non potevano crearsi le condizioni per una democrazia dell’alternanza. Con il crollo del blocco sovietico, quando questo sarebbe stato possibile, anziché riformare politicamente le istituzioni e il sistema dei partiti, venne aperta una stagione giustizialista e di “delegittimazione della politica”, in cui molte forze politiche e alcuni settori del mondo economico-finanziario ebbero importanti responsabilità. La svolta dei primi anni '90, con l'acqua sporca del finanziamento illecito ai partiti e dei fenomeni di corruzione, ha buttato via anche il bambino, delegittimando alla radice il sistema politico esistente e quindi anche il ruolo positivo che i partiti di massa – gli artefici della Costituzione - avevano avuto nell'Italia repubblicana. Si perse l'occasione per cambiare il sistema politico partendo dall'art. 49 della nostra Costituzione, che recita “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Come ebbe a dire Bronislaw Geremek, intellettuale polacco ed esponente di spicco di Solidarnosc, senza i partiti non c’è democrazia e proprio per questo vedeva con preoccupazione la tendenza delle nuove generazioni ad allontanarsi dai partiti e dalla cultura politica. E anche la storia del nostro Paese conferma questa riflessione: infatti nel corso del Novecento i partiti sono stati strumenti di lotta politica, ma anche luoghi di socializzazione e di formazione culturale e politica e quindi di selezione della classe dirigente a tutti i livelli, dai Comuni alle Provincie, dalle Regioni allo Stato, dai Sindacati alle Cooperative. I “grandi padri” come – per citarne solo alcuni – Alcide Degasperi e Aldo Moro, Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano, Pietro Nenni e Sandro Pertini non possono essere pensati senza i partiti in cui militavano. Così come la Resistenza, la Repubblica, la Costituzione, le conquiste democratiche, sociali ed economiche del secolo scorso non possono essere pensate senza il lavoro, l'impegno e il sacrificio di milioni di militanti e le capacità organizzative e propositive dei grandi partiti di massa; senza di loro, senza il Partito Comunista, il Partito Socialista, la Democrazia Cristiana è difficile pensare ed immaginare l'Italia del Novecento. I partiti sono fondamentali per costruire percorsi dove le persone possono sperimentarsi, sbagliare e imparare dagli errori, dove i giovani possono misurarsi con le problematiche quotidiane attraverso un impegno costante a servizio della comunità. Quella che stiamo vivendo è una fase storica particolarmente difficile e complicata che necessita di energie in grado di interpretare il cambiamento. Il futuro non si improvvisa e il rinnovamento deve essere costante, ma graduale. C'è bisogno delle energie e delle competenze di tutti, ogni cittadino deve sentirsi responsabile dei destini della Comunità. Negli ultimi vent'anni si è invece favorita la personificazione, ma si è dimenticato che il leaderismo favorisce il populismo contro lo spirito critico, la demagogia contro il ragionamento politico. Oggi prevale la ricerca esasperata di visibilità personale troppo spesso non accompagnata da impegno vero e dalla fatica dell’approfondimento che le responsabilità necessitano. I soggetti collettivi vengono ridotti ai leader stessi abbassando il livello generale della politica che quindi diventa sempre più incapace di decidere e di affrontare in modo efficace i problemi. Per tutte queste ragioni occorre recuperare il ruolo delle forze politiche partendo da una riforma che deve puntare a costruire una democrazia dell'alternanza, con partiti che selezionano in modo condiviso i propri dirigenti e candidati, che determinano in modo aperto le proprie scelte politiche, che gestiscono in modo trasparente e sobrio le proprie risorse, anche pubbliche. Partiti che sono capaci di offrire personale qualificato, dal Governo nazionale alle Amministrazioni locali, che dialogano positivamente con la Comunità, che sanno rendere protagonisti i cittadini della vita delle Istituzioni. 4. Il vangelo secondo Matteo (Renzi) Senza chiarezza in una società sempre più divisa tra ricchi e poveri -di Giuseppe Tamburrano, www.fondazionenenni.wordpress.com Una intera pagina del Corriere della Sera del 4 aprile è dedicata ad una intervista a Renzi. Il Renzi-pensiero è di notevole interesse per la sua concretezza e per la sua chiarezza; egli potrebbe dividere o indebolire il M5S perché propone soluzioni e rimette in moto la politica: “Non si può stare così in mezzo al guado”: o si va al voto o si tratta col PDL. Lo stesso vale per l’elezione del Capo dello Stato: scelta chiara, di una persona che non sia tra i rottamandi, e accordo eventuale con chi ha i numeri. Renzi è una ventata di aria fresca in un PD che vivacchia di tattiche logore. Riuscirà a diventare il leader giovane di un partito che vivacchia e si fa umiliare dai grillini? Può darsi. Ma ciò che manca a Renzi è il progetto: i suoi orizzonti sono limitati all’attualità. Eppure il suo partito ha bisogno soprattutto di dire con chiarezza che cosa è. Secondo una geografia vecchia esso è “la sinistra”. Invece non è niente. La sinistra combatte con i metodi della concretezza, per cambiare il mondo. Ma il PD questo mondo lo accetta così com’è. Il capitalismo conosce una mutazione gigantesca ed una crisi gravissima, ma quel partito che era nato per cambiare in profondità le strutture del suo avversario storico e realizzare una società più libera e più giusta, il socialismo, sembra non accorgersi nemmeno che la società da prevalentemente industriale è diventata una società prevalentemente finanziaria e globalizzata: sempre più ingiusta. Nel suo ultimo libro (“Il prezzo della disuguaglianza”, Einaudi) il Nobel Joseph E. Stiglitz sostiene che la “società divisa di oggi minaccia il nostro futuro”. Egli non chiede l’abolizione del mercato ma “un’adeguata regolamentazione da parte del governo” (p. XXIII). Con riferimento agli Stati Uniti Stiglitz scrive: “i ricchi stanno diventando più ricchi, i più ricchi tra i ricchi stanno diventando ancora più ricchi: i poveri stanno diventando più poveri e più numerosi e la classe media si sta svuotando” (p. 11). E ancora: “Anche dopo che i più ricchi ebbero perso parte dei loro patrimoni con il crollo dei prezzi delle azioni nella Grande Recessione, l’1 per cento più ricco delle famiglie deteneva ancora 225 volte la ricchezza dell’americano tipico, pari ad almeno il doppio del rapporto esistente nel 1962 o nel 1983” (p. 12). Insomma oggi gli interessi consolidati dell’1 per cento della popolazione hanno prevaricato quelli del 99 per cento. Questi sono i problemi di fondo dell’America e dell’Europa, ed in particolare dell’Italia. Bisogna prenderne coscienza e dare il via alla ricostruzione di un socialismo all’altezza di tali problemi. Ma nessuno nella cosiddetta sinistra se ne accorge. E neppure Renzi. Eppure se la sua tattica fosse ispirata ad una idea di socialismo moderno il suo avvenire in questa Italia “nave senza nocchiero in gran tempesta” sarebbe grande. Dal blog della Fondazione Nenni @@@@@@@@@@@@@@@ 5. Walter Veltroni e l'anomalia del fattore 'D' -di Mauro Del Bue, http://www.locchiodelbue.it/2013/04/08/quel-che-veltroni-ha-dimenticato/ Veltroni ha scritto un vero e proprio appello all’unità del Pd. Teme scissioni o anche solo separazioni in casa. Ritiene il Pd una forza politica necessaria per il nostro Paese e che discende direttamente dall’esperienza politica italiana, dalla scelta di superarla e di rinnovarla. Sostiene che il Pd non è il partito che proviene da Berlinguer e Moro, che non si erano mai sognati di unire Pci e Dc, ma dal superamento di Berlinguer, la cui fine sarebbe scoccata già con la sua morte, e di Moro, la cui politica si sarebbe esaurita dopo il suo omicidio. Questo, però, appare innanzitutto come un’autocritica rispetto alle scelte operate dal stesso Veltroni, che rimase nel Pci, senza proporre di superarlo, anche dopo la morte di Berlinguer, fino alla svolta di Occhetto, che risale al 1989. E anche come critica nei confronti di coloro, come Marini, Fioroni, Castagnetti, che furono autorevoli esponenti della Dc anche dopo la morte di Moro, cioè dal 1978 al 1993, senza lottare per superarla. Ma si sa, nella politica italiana quello che conta non è mai il passato. Resta un’altra affermazione di Veltroni, che si sofferma molto più su quel che il Pd non è, molto meno su quel che il Pd dovrebbe essere. Afferma Veltroni che il Pd non deve essere né socialista, né moderato, ma una forza che deve consentire una contrapposizione tra riformisti e conservatori anche in Italia. Per la verità in tutta Europa, dove la contrapposizione democratica esiste, essa è proprio imperniata sul contrasto tra socialisti e conservatori. Il Pd, come è noto, esiste solo in Italia, tanto che tra i suoi punti di riferimento Veltroni è costretto a citare Roosvelt e Obama. E nemmeno il buon Walter può riuscire a farci credere che l’anomalia sia l’Europa, come faceva quell’autista che aveva sbagliato corsia e si lamentava di tutte le auto che gli piombavano addosso. La verità è che in Italia all’anomalia di Berlusconi si contrappone proprio quella del Pd, che finisce addirittura per alimentarla (ci sono ancora i comunisti…) e per giustificarla (allora votiamo Berlusconi). Quel che non si volle fare nel 1989, per colpa di tutti, e cioè superare le ragioni storiche della separazione tra socialisti e comunisti in un unico partito socialista e democratico, si paga ancora. A caro prezzo, perché impedisce a un leader storico della sinistra di ambire alla guida del Paese (per conquistarla si è dovuto ricorrere due volte a un ex democristiano), e perché dal fattore K (l’anomalia del più forte partito comunista d’Europa) si è dovuti passare al fattore D (l’unico partito democratico d’Europa). Anzi il fattore D è per molti aspetti figlio del fattore K. Cioè per non diventare socialisti, gli ex comunisti si sono dovuti inventare il Partito democratico assieme a parte della sinistra Dc. Questo naturalmente Veltroni non l’ha scritto. E ha dimenticato. Per forza… @@@@@@@@@@@@@@@ 6. Storielle di moralisti mendaci (ndr 1.) -In Francia e' appena caduto un ministro che predicava altissima onestà e trasparenza organizzando sacrosante crociate contro i trasferimenti segreti di capitali all'estero: era un impostore, aveva un conto protetto in Svizzera! Va sempre cosi: anche in Italia... -L'on. estremista J.L. Melenchon, che predica contro i privilegi degli altri politicanti, diserta il parlamento europeo (per presenze e' al 732. posto su 754) salvo passare a sera a firmare il foglio presenze per ricevere la diaria di 304 euro. Lo smaschera così il suo compagno J. Bovè. Morale: c'è sempre uno più puro che vi epura, cari moralisti mendaci che infestate le vite degli umani con il vostro doppiogioco. @@@@@@@@@@@@@@@ torna in alto |