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PREFERIAMO GLI ILLUMINISTI MITI Il 28 giugno 2012 ricorre il 300° anniversario della nascita di Jean-Jacques Rousseau. Proverei a proporre una concisa nota sul grande filosofo grazie alla rilettura di un importante opera che l’editore Laterza aveva pubblicato negli anni ’90 affidandosi a tre studiosi: E. Cassirer, R. Darnton, J. Starobinski, Il titolo del libro “Tre letture di Rousseau” riflette le posizioni diversificate degli autori. Ma è la stessa opera rousseauiana che si presta a plurime interpretazioni e si dimostra essa stessa ricca di paradossi: precorse il moderno individualismo in difesa dell’illimitata libertà del sentimento, della coscienza e del cuore oppure gettò le basi di uno statalismo che sacrifica l’individuo alla comunità, costringendolo a rinunciare alla libertà d’azione e perfino alla libertà di sentimento? Nel Discours sur l’origine de l’inégalité l’uomo è buono per natura e diventa cattivo per via della società, che è causa della corruzione e dell’infelicità del genere umano. Nello stato di natura la diversità fra gli uomini è minima, mentre col bisogno di razionalizzare la fornitura del cibo nasce la coltivazione, la conseguente divisione della terra, i più forti hanno la meglio, sorge la proprietà privata: come l’animale diventando domestico perde metà delle sue doti, così l’umanità organizzata nella società si indebolisce e corrompe, soggetta com’è all’usurpazione dei ricchi e al brigantaggio dei poveri. Quando poi l’uomo si mette a pensare, con la nascita della cultura, si corrompe definitivamente: noi cerchiamo di conoscere – sentenzia Rousseau – solo perché desideriamo godere, mentre non v’era nessuna condizione migliore di quella degli uomini selvaggi, di gran lunga più felice di quella degli uomini civili: “giova più in quelli l’ignoranza dei vizi, che in questi la conoscenza della virtù”. All’opposto nel Contrat social, anziché pensare di “tenere a freno il più possibile la società”, Rousseau - leggiamo nel saggio di Ernst Cassirer – “annuncia ed esalta uno sfrenato assolutismo della volontà dello Stato”. Siccome ci è precluso il ritorno alla semplicità e alla felicità dello stato di natura, gli uomini riacquistano la “vera libertà” rinunciando alla libertà originaria, all’indépendance naturelle, per aderire spontaneamente “all’unione di tutti nella legge”: l’individuo si pone sotto una obbligazione che viene da questi considerata come valida e necessaria e accettata perciò come se egli la ponesse a se stesso. Lo “stato di natura” rousseauiano assomiglia allo “stato originario” della dottrina cristiana: l’evoluzione dell’uomo da essere naturale ad essere ragionevole è simile alla caduta nel peccato di Adamo ed Eva, i quali infranta la condizione precedente abbisognano di un aiuto, di una “redenzione divina” per salvarsi; in Rousseau la redenzione avverrebbe invece rinunciando all’impulso degli appetiti naturali – che sono “schiavitù” – per “obbedire alla legge che ci siamo prescritta”: è questa la vera libertà, realizzata nella volonté générale, nella volontà che diventa quella dello Stato. Questa non è somma o compromesso fra gli interessi delle volontà individuali di tutti, è la volontà della maggioranza dei cittadini, che diventa maggioranza etica tesa “a fare e a educare i cittadini”. Quello auspicato da Rousseau non sarebbe dunque lo Stato di “mera necessità”, quello in cui l’umanità è posseduta dallo Stato senza poterlo formare liberamente promuovendo un ordine adatto a se stessa. Per Rousseau non si tratta più dello Stato che secondo la pregnante definizione di Tommaso Moro “altro non era che una congiura dei ricchi contro i poveri”; ma non è neanche lo Stato di Voltaire o degli Enciclopedisti, di Diderot o d’Holbach, che non credono a cure radicali, che pensano a riforme lente. No, per Rousseau non era ammissibile patteggiare con la società esistente, né fare tentativi di miglioramento che riguardassero solo aspetti esteriori. Respingendo soluzioni parziali, Rousseau diventa il pensatore che ha dato impulso alle fasi più rivoluzionarie della storia moderna, giungendo ad assegnare allo Stato il compito “etico” - che precede ogni potestà – di “educare” i cittadini: lo Stato – leggiamo ancora in Cassirer – non si rivolge a soggetti già formati, il suo primo intento deve essere quello di “crearsi i veri soggetti ai quali possa rivolgere il suo appello”. Tanto radicalismo poteva effettivamente “liberare” l’individuo, ridargli le libertà conculcate? Ora, nel Contrat social “ Stato e individuo devono ritrovarsi vicendevolmente”, devono crescere e formarsi insieme: l’uomo non è per se stesso né buono né cattivo, né felice né infelice, la sua forma è “plasmabile” e la forza che lo plasma è la società. I paradossi richiamati inizialmente paiono così stemperarsi, il Discours e il Contrat sembrano concatenarsi. Non si tratta più di ritornare allo stato di natura originario, “bello ma impossibile”, diremmo con lievi parole contemporanee: attraverso il contratto sociale – lo scandisco facendomi soccorrere dalle lezioni universitarie di Storia delle dottrine politiche del prof. Enrico Opocher - i singoli individui cedono i loro diritti, ma - a differenza della teoria sostenuta da Hobbes – questa cessione non avverrebbe a favore di un principe ma della collettività, per cui ognuno rinunciando ai propri diritti non li perderebbe ma li riacquisterebbe come membro della società; ciò che un individuo perde come uomo lo riacquista come cittadino. Restano sul piano politico dei quesiti aperti: avevano ragione i tiepidi “riformisti” dell’ Enciclopedia secondo cui “la voce della ragione non è sediziosa né sanguinaria” e che dunque andavano cauti nei rimedi ai mali sociali per evitare che essi procurassero più crudeltà di quelle che volevano sanare? Oppure aveva ragione Rousseau nel suo radicalismo etico? Pare significativo questo passo del saggio di Robert Darnton: per Rousseau “le Repubbliche non traevano la loro vita da libere elezioni, bensì dalla cultura repubblicana: qualcosa che si consolidava fraternizzando nei club, gareggiando nelle competizioni all’aperto e unendosi al coro durante le celebrazioni civiche”. Rileggiamo meglio: sì, per Rousseau “le elezioni contavano meno delle celebrazioni”. Intravediamo un avvenire di adunate oceaniche e di parate sportive e canore irreggimentate, un tripudio di inni per la novella austera Sparta ed il vituperio della più molle rediviva Atene. Non casualmente Bertrand Russel giunse a definire Rousseau “antenato dei nazisti e dei fascisti”. Allora, ci sovviene infine una dolce preferenza per i più miti illuminati Enciclopedisti, cultori di una ragione che propone riforme lente, ma proprio per questo tanto più sicure. Nicola Zoller -Rovereto 1955, studi classici, lavoro aziendale, consigliere nazionale Psi torna in alto |