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Info SOCIALISTA – 25 agosto 2005 a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l’azione nazionale dei socialisti e del centro sinistra n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 – fax 0461-944880 – Trento/Bolzano Quindicinale - Anno 2° AVANTI DELLA DOMENICA UN LIBRO, per cominciare (“Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro” Jorge L. Borges) Autore: Giorgio Bernardelli Titolo: OLTRE IL MURO L’Ancora del Mediterraneo ed., € 12,00 Storie, incontri e dialoghi tra israeliani e palestinesi La pace possibile Per un futuro diverso nonostante il “Muro” Recensione di Emanuela Sanna Israele parla di barriera di sicurezza e non di confine. In realtà è difficile definire in altra maniera quella barriera di cemento e reticolati che percorre per 705 chilometri in maniera tortuosa i territori occupati dagli israeliani e circonda e ghettizza quelli dei palestinesi. É il muro di Sharon, nato in realtà da un’idea di Rabin, per contrastare gli attentati terroristici durante la seconda intifada. É il muro condannato dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, il muro delle vittime (1049 da parte israeliana e 3869 da parte palestinese dal 2000, ma le cifre vanno prese con le molle), il muro delle accuse reciproche (la provocatoria passeggiata di Sharon sull’Haram al Sharif e l’omicidio in diretta del bambino palestinese da una parte e il no di Arafat alla “generosa” offerta di Barak e il linciaggio di due soldati israeliani a Ramallah dall’altra), il muro dell’esclusione, dell’incomprensione, dell’odio. Le sue vittime sono i palestinesi che si trovano dall’altra parte. Costretti a chiedere permessi, il più delle volte arbitrariamente rifiutati, per andare nei loro campi, a sottostare a continui controlli e umiliazioni, a vivere in un regime di apartheid. Ma il muro è anche la fine del sogno sionista; la necessità, anche a questo punto per Israele, di avere uno Stato palestinese dall’altra parte. Ma non è di questo che il libro di Giorgio Bernardelli, ci parla. Il suo “Oltre il muro”, racconta al contrario storie di convivenza possibile, di israeliani e palestinesi che si incontrano e provano insieme a costruire un futuro diverso nonostante e attraverso il muro. Partendo da fatti di cui nessuno parla, come i casi sempre più frequenti di soldati israeliani che si rifiutano di prestare servizio nei territori o delle truppe scelte dell’aviazione che hanno diffuso un documento in cui si definiscono “immorali” le demolizioni a tappeto di case a Gaza. Si va dall’esperienza del villaggio di Nevé Shalom, in cui 25 famiglie ebree e 25 palestinesi vivono insieme, alla storia del rabbino Arik Ascherman, battagliero direttore dell’organizzazione umanitaria Rabbis for Human Rights, che si batte in nome della Torah per la salvaguardia dei diritti dei palestinesi, all’associazione Parent’s Circle, che riunisce le famiglie colpite da un lutto, a Bitter lemons un luogo virtuale dove due israeliani e due palestinesi si confrontano e dibattono un argomento in ottocento parole, a “Windows” la rivista in cui i ragazzi raccontano la vita da una parte e dall’altra della barricata. Piccole storie di gente che ha scelto di continuare a incontrarsi nonostante il muro. Eppure, quello di Bernardelli non è un libro ottimista o ingenuo. Il sogno di pace che emerge dalle sue pagine è tutt’altro che vicino o a portata di mano. Così come i suoi racconti di un dialogo possibile sono tutt’altro che facili o scontati. Come nel villaggio di Nevé Shalom/Wahat as-Salaam (il bilinguismo è d’obbligo) che non va preso “come prova del fatto che in fondo sarebbe tutto così semplice e che se solo volessero, israeliani e palestinesi avrebbero la soluzione a portata di mano”, perché accettare di condividere la stessa sorte comporta fatica “compresa quella di pronunciare per intero un nome che per noi accidentali assomiglia a uno scioglilingua”. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ IL PUNTO DI VISTA SOCIALISTA SULL’ATTUALITA’ Guerra di civiltà. Se si parlasse di “confronto”anziché di “scontro”? Il nemico visibile Una rivoluzione culturale per combattere il terrorismo. O l’Islam vincerà la partita al suo interno, o la perderemo tutti di Alberto Benzoni “Hitler dimostra”, così dice Andreotti,”che non tutti i cristiani sono buoni. E, quindi, è meglio lasciar perdere il discorso sulle civiltà”. Insomma, “qui il più pulito ci ha la rogna”. Forse gli argomenti di Pera non meritavano una replica migliore. Ma comunque, come dibattito, non siamo messi bene. Si ha l’impressione che le parole siano sfuggite di mano ai loro stessi autori, per materializzarsi in strategie confuse e in direzioni dove non vorremmo andare. I sostenitori del politicamente corretto propongono di risolvere il problema alla radice. Se una parola è rischiosa, meglio non usarla. E così, niente “guerra”, niente “civiltà” e, men che meno, “scontro di…”, nessuna menzione di un Islam “moderato” o, peggio ancora, “radicale”; e, al limite, niente “terrorismo”. Non a caso, la Bbc ha definito gli attentatori di Londra “bombaroli”; con un piccolo sforzo, avrebbe potuto chiamare quelli delle Torri gemelle “bombardieri”. Una linea che ci lascia perplessi. Dando nomi alle cose, c’è il rischio che ci sfuggano di mano ma, se ci rifiutiamo di “chiamarle” il rischio è che si lascino in mano a chi i nomi li usa. E, allora, si dovrebbe seguire una via intermedia: usare le parole, ma al tempo stesso “leggere attentamente le avvertenze”: assumerle, insomma, tenendo conto delle possibili controindicazioni; e, quindi, correttamente. Non c’è purtroppo, in materia, un’autorità che ci possa illuminare. Bisognerà, allora, affidarsi al senso critico dei cittadini; al loro sano sospetto di fronte a tante prese di posizione di cui è facile scorgere la strumentalità ma difficile cogliere sino in fondo le conseguenze. In questo spirito, il nostro giornale intende fornire un modesto “aiuto alla lettura”: a cominciare dalle parole più gettonate di recente come “guerra” e/o “ scontro di civiltà”e “islam moderato e/o radicale”. Cominciamo dalla prima coppia di termini: da due concetti - appunto guerra e scontro di civiltà - che i nostri teocon considerano rappresentativi della stessa realtà. È nel loro interesse. A loro serve creare un clima. Servono gli amici e i nemici. La gente in trincea a difesa dei “valori minacciati”. E cioè di tutto e di nulla. E così via. Provate invece a separarli. E, già che ci siamo, a parlare di “confronto”anziché di “scontro”. E, allora, i contorni delle cose cominceranno a definirsi un po’ meglio. Così rimane la realtà della guerra. O, se si vuole, di uno scontro tutto condotto sul terreno della violenza e di una violenza senza regole e limiti. Qualcuno, dopo tutto, ce l’ha dichiarata, l’11 settembre. Per punirci per le nostre colpe? O, piuttosto, per coinvolgerci direttamente nel conflitto, per presentarci agli occhi del suo mondo come il Nemico visibile? Se così è - e, in parte è così - la nostra risposta alla provocazione sarebbe stata un tragico errore; e non solo in Iraq, ma anche in Afghanistan. Per altro verso, però, quale è l’oggetto, il terreno di questo scontro? Il luogo dove si vince o si perde? È forse il nostro? Se così fosse, dovremmo gonfiare il petto e lucidare le armi e le volontà in attesa di una nuova Lepanto. Ma, forse, perderemmo il nostro tempo. Perché la tragedia in atto è tutta interna al mondo musulmano; e “interna” in tutti i sensi. Perché a vedere minacciate di distruzione le loro vite, individuali e collettive, le loro società civili e i loro stati sono dei musulmani; e per opera di altri musulmani. Di qui la contraddizione da cui non riusciamo ad uscire ma che non possiamo ignorare: perché, se l’intervento militare è stato un tragico errore, abbandonare il campo oggi lo sarebbe ancora di più. Ma veniamo, ora, al tormentone sullo “scontro di civiltà”. Detta così, la cosa evoca fatalmente scenari apocalittici. Due mondi. Due culture, due modi di pensare e di vivere, reciprocamente incompatibili e, quindi (attenti all’avverbio), l’un contro armati. E costretti, dunque, a serrare le fila, a difendere la loro identità mortalmente minacciata, a sacrificare alla sicurezza la loro libertà. Se parliamo invece di “confronto” il quadro è tutto diverso. Qui ognuno è libero di essere se stesso e di rivendicare la propria identità - la nostra, tanto per intenderci, è quella della libertà, che non ci appartiene per superiorità naturale, ma che è stata conquistata attraverso mille prove - e di misurarsi, anche criticamente, con quella degli altri, in un giuoco in cui ci possono essere vinti e vincitori ma che non è mai a somma; e che men che meno conosce vittorie totali. In parole povere, il confronto è un fatto della vita. Mentre lo scontro è un imperativo collettivo. E, ancora, il confronto, presuppone una fiducia nella propria civiltà; nel senso che non sente il bisogno di difenderla con la violenza o con la separazione. Ma veniamo, infine, alla questione dell’islam “radicale” e, di riflesso, dell’islam “moderato”. Espressioni che non piacciono ai nostri fondamentalisti di destra e di sinistra. Ai primi, perché supporrebbero una distinzione che in realtà non esisterebbe (“tutto l’islam è potenzialmente radicale”). Ai secondi, perché introdurrebbero una definizione dell’islam in rapporto al terrorismo (“radicali quelli che lo praticano, in nome della religione; moderati, quelli che ne prendono le distanze) che a loro pare politicamente assai pericolosa e, quindi, “scorretta”. Due posizioni che corrispondono a due linee. La prima è quella del muro: cordone sanitario e vigilantismo. La seconda è quella della riassicurazione a buon mercato: dopo ogni attentato, si dialoga con l’autorità islamica locale o con l’intellettuale di turno; si ottiene una condanna del fatto, in nome del “carattere pacifico della nostra religione”; e ci si ferma lì in attesa dell’appuntamento successivo. Due atteggiamenti adeguati? Alla luce dei fatti, si direbbe di no. E i fatti sono l’esistenza di decine di migliaia di persone (e ci teniamo bassi…) che, in ogni parte del mondo, sono disposte a suicidarsi trascinando con sé centinaia di migliaia di innocenti; e, attenzione, in nome della loro religione o dell’interpretazione che della medesima offrono miglia e migliaia di “cattivi maestri”¸ e con effetti sempre più dirompenti e in prospettiva insopportabili per il consorzio umano. E i fatti sono, purtroppo, la risposta molle, ambigua, imbarazzata delle comunità musulmane al cancro che si sta sviluppando nel loro seno; sino al punto di negare l’evidenza (“sono stati gli americani; sono stati gli israeliani…”). Che cosa ha originato questo cancro? Che cosa si deve fare per combatterlo? Terapie di contenimento? Oppure una vera e propria rivoluzione culturale? E qui è bene che si faccia un attimo di silenzio. Perché le nostre parole sono inutili e fuorvianti. E perché la partita decisiva so gioca in un mondo di cui non possediamo le chiavi di acceso. Il nostro compito è semplicemente di “fare presente” l’urgenza del problema: senza sconti per nessuno. Perché delle due l’una: o l’islam vincerà la partita al suo interno; o la perderemo tutti. ******************** La giustizia nel Paese di Alice Era afoso a Bologna…. di Gualtiero Vecellio Era un afoso sabato di agosto, più o meno come questi giorni di caldo torrido. L’Italia chiudeva per ferie, più di quanto non faccia ora. Lunghe colonne sulle autostrade direzione mare, stazioni gremite di persone che vanno a raggiungere le località di vacanza. A Bologna quel giorno in molte migliaia si mettevano in viaggio. Alle 10,25 – l’ora della tragedia viene immortalata nelle lancette ferme del grande orologio sul piazzale della stazione – un boato. La sala d’aspetto della seconda classe polverizzata, e disintegrata la sala ristorante, gli uffici del primo piano, e anche il treno Adria Express 13534 Ancona-Basilea, fermo sul primo binario, è centrato in pieno. Una strage: 85 i morti, più di duecento i feriti. La vittima più piccola ha appena tre anni: Angela Fresu; Luca Mauri di anni ne ha sei; Sonia Burri uno in più, sette; fino ai più anziani: Idria Avati, ottant’anni; e Antonio Montanari, 86. Si ipotizza lo scoppio di una caldaia, ma come può essere? Caldaie non ce ne sono, lo si capisce subito che è stato un attentato: in quella Bologna già colpita, il 4 agosto 1974: i dodici morti e i 44 feriti della strage sul treno Italicus. E infatti il massacro è stato provocato da una ventina di chili di esplosivo militare gelatinato Coupound B., occultato in una valigetta lasciata nella sala d’aspetto. Condannati come esecutori della strage, due neo-fascisti: Francesca Mambro e Giusta Fioravanti, militanti dei NAR. Processi e sentenze che non hanno fugato dubbi, e anzi, hanno sollevato polemiche. I due hanno sempre respinto l’accusa, si dichiarano innocenti ed estranei. Dubbi e perplessità avanzati non solo da ambienti di destra, ma anche da chi è collocato su altre, opposte sponde politiche. Sono trascorsi venticinque anni da quella strage; anche a credere che gli esecutori della stage siano effettivamente i due condannati, non si comprende e non si spiega mandati da chi, e perché. E’ da dire che anche chi si batte per la revisione della condanna, ritenendo Fioravanti e Mambro innocenti, non sa spiegare il perché di quella strage, e si arrampica in fumose teorie, che vorrebbero la strage frutto di un più complesso war game che riguarderebbe anche la strage del DC-9 Itavia esploso il 27 giugno di quell’anno sul cielo di Ustica; e che vedrebbe coinvolti palestinesi, libici, barbe-finte e spioni di mezza Europa. È davvero avvilente che dopo un quarto di secolo non si abbia una parola chiara, su questa strage, e che come per altre, non si sia saputo/potuto/voluto accertare la verità. Non è la sola cosa che avvilisce. Sentite cosa dice Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei famigliari delle vittime delle stragi: “Ci siamo battuti perché le vittime del terrorismo venissero considerate vittime del dovere, come i carabinieri, i poliziotti e i soldati; e solo alla fine degli anni ’80 fu fatta la legge che dava 100 milioni per ogni vittima e ai feriti con almeno l’80 per cento di invalidità. Poi, sempre per nostra insistenza, nel 1990 la legge fu estesa anche a chi aveva avuto il 25 per cento di invalidità e la cifra fu portata a 150 milioni. Infine, dopo Nassiriya, il Parlamento ha elevato a 250mila euro l’indennità delle vittime del dovere, comprese quelle del terrorismo. In questi anni non c’è una famiglia che abbia avuto ciò che la legge stabiliva…Stiamo valutando le posizioni e se a settembre il quadro non cambierà porteremo lo Stato in tribunale”. Dopo venticinque anni neppure questo è stato fatto! Dice ancora Bolognesi: “Bisogna abolire il segreto di Stato sui delitti di strage terroristica; fare una legge che faccia diventare il depistaggio reato grave per i militari; e parlare di riappacificazione, ma solo dopo che gli assassini hanno raccontato tutta la verità”. Cose ragionevoli, si direbbe. Per questo non se ne farà nulla. Siamo o no il paese di Alice, dove tutto è rovesciato, e dove il diritto è appunto rovescio? ******************** A 13 anni dall’approvazione della nuova legge bancaria Dalla foresta pietrificata alla giungla selvaggia La sostituzione del capitale pubblico con quello privato porta le grandi banche sotto il controllo di gruppi capitalistici e le pone al servizio di interessi particolaristici di Nerio Nesi Nel 1992, Giuliano Amato, commentando la nuova legge bancaria che sostituiva quella del 1936 (che per oltre mezzo secolo aveva disciplinato, onorevolmente, il sistema bancario italiano) disse: “Abbiamo distrutto una foresta pietrificata”. Con queste parole egli definiva il sistema - allora vigente - che comprendeva: istituti di credito di diritto pubblico, banche di interesse nazionale, casse di risparmio, banche popolari, casse rurali e banche private. Un sistema che si basava su alcuni concetti fondamentali: la netta separazione tra banche e imprese industriali e tra banche e compagnie di assicurazioni; la distinzione fra credito a breve termine e credito a medio e lungo termine. A questa trionfale dichiarazione di Giuliano Amato, risposi d’istinto: “Alla foresta pietrificata si sostituirà una giungla selvaggia. E vedremo tra anni quali dei due sistemi è il migliore”. Di anni ne sono passati 13, e la situazione del sistema è davanti ai nostri occhi. Bisogna innanzitutto ricordare, a quanti fingono di averlo dimenticato, che quella “foresta pietrificata” riuscì, per decenni, a svolgere il ruolo al quale era stata chiamata: e cioè far lievitare le risorse latenti, provocando il processo di fusione delle iniziative produttive, per creare nuova ricchezza; basti pensare al finanziamento della ricostruzione del Paese negli anni ’50 e ’60. Né si può ignorare che quella “foresta” diede al Paese uomini di livello internazionale, tra i quali (li cito in ordine alfabtico): Alberto Beneduce, Francesco Bignardi, Enrico Cuccia, Ettore Lolli, Imbriani Longo, Raffaele Mattioli, Arturo Osio, Pasquale Saraceno. Ad essi si deve la creazione di istituti di credito speciale che ebbero una parte di rilievo nello sviluppo imprenditoriale italiano: Mediobanca, Istituto Mobiliare Italiano, Efibanca, per citarne alcuni. Quando la principale delle banche private del tempo, il Banco Ambrosiano, cadde nel baratro del fallimento, la “foresta” la salvò, con una serie di operazioni che furono apprezzate da tutta la finanza internazionale. Infine fu proprio dall’ala più pubblica della “foresta” (quella cioè direttamente appartenente allo Stato, la BNL) che sorsero le imprese parabancarie più innovative: il leasing, il factoring, i fondi comuni di investimento, il trading, le strutture miste per le assicurazioni sulla vita ed infine quel disegno preveggente di previdenza - BNL, INA, INPS - che se non fosse stato boicottato, avrebbe dato un grande contributo alla soluzione dei gravi problemi attuali. Come si vede, la “foresta pietrificata” rese alcuni notevoli servizi al Paese. Non si può dire altrettanto del sistema che è nato dalla sua abolizione, che io continuo a chiamare “giungla selvaggia”. Come definire altrimenti le evidenti responsabilità bancarie negli scandali della Cirio, della Parmalat, dei bond argentini? Come chiameremo le speculazioni colossali di gruppi di abili maneggioni sul capitale di alcune banche? Quali vantaggi ha avuto il Paese nel suo complesso ed in particolare i risparmiatori italiani dalla compravendita continua di banche nel mercato nazionale? Quali vantaggi ha avuto l’Italia meridionale dalla perdita di tutti gli istituti di credito locali? E quali vantaggi hanno avuto i piccoli operatori dalla spersonalizzazione del rapporto con quelle che erano le piccole banche di fiducia? Questi sono i pensieri di oggi, mentre si leggono sui giornali episodi scandalosi, colloqui telefonici incredibili e incontri che turbano la coscienza di chi ha a cuore la credibilità del sistema e l’efficacia dei controlli sul medesimo. Che fare? In momenti come questo, tornano alla memoria le preoccupazioni del Governatore della ricostruzione e del miracolo economico, Donato Menichella, fatte proprie dal più famoso banchiere italiano, Raffaele Mattioli: “La sostituzione del capitale pubblico con quello privato - disse - rischierebbe di trasferire le grandi banche sotto il controllo di gruppi capitalistici e porle al servizio di interessi particolaristici”. Sono preoccupazioni di alcuni decenni orsono, ma, purtroppo, attualissime. Non essendo più possibile un ritorno al controllo pubblico, le azioni bancarie dovrebbero trovare posto nei portafogli di fondi di investimento, di investitori istituzionali, di singoli risparmiatori e soprattutto delle fondazioni, quelle fondazioni che, dopo averle create, Giuliano Amato definì ingiustamete “mostri”. Ripeto, ingiustamente, perché esse darebbero al sistema bancario nazionale una stabilità che evidentemente non ha. ******************** Il dibattito nella Spd: uno Stato che voglia continuare a svolgere la sua funzione sociale come e dove può trovare le risorse finanziarie adeguate? Germania il welfare cerca soldi Sembra in crisi irreversibile il tradizionale modello continentale franco-tedesco, a cui si richiama anche l’Italia. Il sistema scandinavo non è altro che “socialismo all’interno di una sola classe”. La ripartizione non ha luogo tra capitale e lavoro, ma solo tra gli occupati che guadagnano di più o di meno di Roberto Obner Il dibattito sullo strapotere del capitalismo, innescato dal presidente della Spd, Franz Müntefering, non ha toccato finora il punto essenziale: uno Stato che voglia continuare a svolgere la sua funzione sociale come e dove può trovare le risorse finanziarie adeguate? Il vincitore delle elezioni anticipate tedesche, previste per il 18 settembre, se la Corte costituzionale non ci metterà lo zampino, sarà costretto a farsi carico della risposta. Alcune indicazioni, anche se insufficienti, sono state già date, la favorita Merkel, leader della Cdu-Csu, ha indicato nell’aumento di due punti dell’Iva (dal 16 al 18%) lo strumento per poter ridurre i costi accessori che gravano sui rapporti di lavoro, mentre la Spd indica in una imposizione aggiuntiva del 3% sui redditi più alti (250.000 euro per i celibi, 500mila per gli sposati) la soluzione. L’aumento dell’Iva può procurare notevoli risorse ma nell’immediato può essere controproducente, abbassando ancora di più la domanda interna, già molto in crisi. Mentre la via seguita dalla Spd sembra avere maggiore valore politico che capacità di reperire risorse adeguate. Questi due strumenti, Iva alta e forte tassazione dei redditi, di cui la Cdu e la Spd prendono ciascuno un elemento considerato separatamente, fanno in realtà parte del modello scandinavo in cui lo Stato del benessere è finanziato in prima linea dalle imposte, dirette ed indirette come un’Iva molto alta. Ma le imposte sono molto alte sui redditi da lavoro, mentre toccano appena i proventi da capitale, come guadagni d’impresa, interessi e dividendi. Negli ultimi quindici anni Finlandia, Norvegia e Svezia hanno praticamente dimezzato le quote d’imposta sui redditi da capitale, passando dal 72% all’odierno 28-30%, le più basse tra i paesi industriali. A ciò si contrappone la forte tassazione sui redditi da lavoro, che arriva su quelli più alti fino al 52-56%, che spiega la definizione del sociologo Fritz Scharp secondo il quale il sistema scandinavo non è altro che “socialismo all’interno di una sola classe”. La ripartizione non ha luogo tra capitale e lavoro, ma solo tra gli occupati che guadagnano di più o di meno. In questo modo gli scandinavi riescono a finanziare il loro imponente Stato sociale senza spaventare gli investitori. Da un punto di vista politico ci si può chiedere se sia eticamente giusto vezzeggiare in tal modo il capitale, ma dal punto di vista economico la ricetta appare ancora funzionale. Sembra invece in crisi irreversibile il tradizionale modello continentale franco-tedesco, a cui si richiama anche l’Italia. Secondo Stefan Collignon, professore di economia a Harvard, è ormai fallito. In esso una grande parte del sistema di sicurezza sociale non è finanziata da imposte ma su tributi sociali che vengono pagati dai datori di lavoro e dai loro dipendenti. Questi furono aumentati già dal governo Khol per far fronte ai costi della riunificazione, alla crescente disoccupazione conseguente e alla necessaria copertura per le pensioni. I costi accessori del lavoro sono diventati progressivamente più alti, i posti di lavoro regolari sempre più cari e quindi più rari. La crescente disoccupazione portava a nuovi buchi nelle casse sociali, e quindi a rincarare ancora il costo del lavoro in un circolo vizioso che appare senza soluzione. Però se in queste condizioni la Germania è riuscita lo scorso anno ad essere il Paese maggiore esportatore al mondo, vuol dire che alcune frecce al suo arco le ha ancora e che gli effetti delle riforme dell’Agenda 2010, voluta dal Cancelliere Schroeder, cominciano a farsi sentire. Nel mese di luglio è decisamente aumentata la fiducia degli imprenditori e l’occupazione dà segnali di ripresa (dall’inizio dell’anno i disoccupati sono diminuiti di 500mila unità). Proprio per queste ragioni appare ancora più incomprensibile la decisione del Cancelliere di fare ricorso ad elezioni anticipate. Entro il settembre 2006, scadenza naturale per le elezioni, il contesto economico sarebbe stato indubbiamente migliorato e Schroeder avrebbe potuto cogliere i frutti delle riforme. Il prossimo governo federale, quale sarà, finanzierà di più il sistema sociale con le imposte, cioè a carico di tutta la collettività, e meno con le trattenute sociali sulle buste paga e a carico delle imprese. Ciò dovrebbe portare nuovo slancio sul mercato del lavoro con la diminuzione dei costi accessori del lavoro e quindi con la creazione di nuovi posti di lavoro. Ma i socialdemocratici sospettano che l’opposizione democristiana, grande favorita delle imminente elezioni, si accinga una volta al potere ad intaccare il sistema sociale. Allora farebbe ricorso al terzo modello economico, quello anglosassone, dove grandi settori della società come l’istruzione e la sanità sono organizzati privatamente e dove lo Stato si limita alla protezione dalla povertà. È un sospetto probabilmente infondato per le enormi difficoltà di transizione da un sistema all’altro. Ma qualcosa c’è. La Merkel vuole rientrare subito nei parametri di Maastricht e i suoi esperti economici arrivano a ipotizzare, come fa Hartmut Shaverte, persino tagli alle pensioni. Il modello anglosassone è molto diversificato al suo interno. Ad esempio le grandi imprese americane come la General Motors incontrano problemi enormi nell’assicurare le pensioni agli ex e agli attuali dipendenti, così come diventano sempre più insopportabili i costi per l’assicurazione malattia. Circa 44 milioni di salariati e di pensionati vedono le loro pensioni assicurate dai fondi pensione d’imprese private. I loro versamenti potrebbero essere minacciati dopo che la giustizia ha autorizzato United Airlines, che lamentava una perdita di oltre dieci miliardi di dollari, a smettere di pagare le pensioni dei suoi 120mila vecchi dipendenti. In generale il deficit dei finanziamenti dei fondi raggiungeva 353,7 miliardi di dollari alla fine del 2003, con un aumento del 27% in un anno. Una situazione esplosiva. Ogni sistema ha la sua croce. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ torna in alto |