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Storia del Debito
14 febbraio 2012

INFO SOCIALISTA 14 febbraio 2012
a cura di n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592
Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it / www.socialisti.bz.it
Sito nazionale PSI: www.partitosocialista.it - Quindicinale - Anno IX
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1. Un Libro per cominciare: “La democrazia in trenta lezioni” di Giovanni Sartori, commento di N. Zoller
2. Comunità trentina – di Alessandro Pietracci
3. www.avantidelladomenica.it :
- Legge elettorale. Preferenza unica per cambiare sistema
- FGS. Lavoro vicino a mamma? A volte meglio tacere
- Quando avevamo la tripla AAA. La vera storia del debito italiano – di Pieraldo Ciucchi
4. Il potere dei giudici: caso Del Turco, lezione per la sinistra -di Antonio Polito

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1. Un Libro per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges)

o Autore: Giovanni SARTORI
o Titolo: “La democrazia in trenta lezioni”
- Mondadori, Milano, 2010

Dalla recente lettura di un libro per la scuola di Giovanni Sartori “La democrazia in trenta lezioni” possiamo ricavare degli utili avvertimenti per la nostra vita collettiva, tutti di vibrante attualità…
-di Nicola Zoller
Cos’è la democrazia e quali sono i pericoli che incontra? Innanzitutto è demoprotezione, “protezione del popolo dalla tirannide”; solo in secondo luogo è demopotere, “attribuzione al popolo di quote di effettivo potere”. Per diffondersi nel mondo in modo non contradditorio, la democrazia deve primariamente essere demoprotezione, badare quindi alle “strutture costituzionali”, essere “liberaldemocrazia”. Non deve cioè trasformarsi in “tirannide della maggioranza” sulla minoranza, in un sistema dove la democrazia “è necessariamente un dispotismo”, come ha osservato il padre dell’Illuminismo Immanel Kant. Il diritto della maggioranza a governare deve inserirsi in “un sistema costituzionale che lo disciplina e lo controlla”: dunque, la maggioranza deve esercitare il potere non in forma assoluta – come avveniva nelle democrazie delle polis antiche – ma in modo limitato e moderato. Facciamo un esempio chiaro: non può imporre la propria religione o le proprie credenze agli altri.
Demoprotezione vuol dire quindi garantire il pluralismo, che significa tolleranza, un principio basato su tre criteri. “Primo: rifiuto di ogni dogma e di ogni verità unica. Io devo sempre argomentare, dare ragioni per sostenere quel che sostengo. Secondo: rispetto del cosiddetto harm principle: Harm vuol dire ‘farmi male’, ‘farmi danno’. Il principio è allora che la tolleranza non comporta e non deve accettare che un altro mi danneggi. E viceversa, s’intende. Terzo: il criterio della reciprocità. Se io concedo a te, tu devi concedere a me: do ut des. Se non c’è reciprocità, allora il rapporto non è di tolleranza”. Col rifiuto di ogni potere monocratico e uniformante, il pluralismo difende il dissenso e così facendo lo rende meno dirompente, “lo civilizza, lo modera, lo trasforma in un lievito benefico o anche in una discordia che si trasforma, alla fine, in accordo e concordia: punta su una diversità che produce integrazione, non disintegrazione”. Il multiculturalismo invece promuove la separazione, “l’identità separata” di ogni gruppo, anziché la “diversità integrata” come fa il pluralismo. “Il risultato – conclude Sartori – è una società a compartimenti stagni e anche ostili, i cui gruppi sono molto identificati in se stessi, e quindi non hanno né desiderio né capacità di integrazione: il multiculturalismo non supera il pluralismo, lo distrugge”: ciò comporta un grave pericolo per la democrazia.
Un altro pericolo è che – in tempi di videocrazia – l’ opinione pubblica venga distorta. Siccome in democrazia i risultati elettorali esprimono l’opinione pubblica, bisognerebbe che le elezioni per essere libere siano il risultato di opinioni effettivamente libere, cioè “liberamente formate”: se le opinioni sono imposte, le elezioni non possono essere libere. Il che significa che “le opinioni nel pubblico devono essere opinioni del pubblico, opinioni che in qualche modo e misura il pubblico si fa da sé”. Ma come può formarsi un’opinione “veritieramente” del pubblico? Secondo Sartori si può tendere solo ad una opinione pubblica “relativamente autonoma”, che sarebbe già una conquista. E cita Karl Deutsch, che ha immaginato i processi di formazione di un’opinione pubblica secondo il “modello cascata”, di “una cascata d’acqua con molte vasche successive nelle quali ogni volta le opinioni che scendono dall’alto si rimescolano e ricevono nuovi e diversi apporti”. Questo resta sempre un “costrutto fragile”, che ai detrattori della partecipazione popolare fa muovere da sempre l’obiezione che comunque “il popolo non sa” o non sa abbastanza, mentre per governare – asseriva Platone – si richiede “epistene”, vero sapere. Ma quella era una obiezione che poteva preoccupare maggiormente nella antica democrazia delle polis greche, dove era il popolo assiso in assemblea a decidere direttamente.
Ora – continua il ragionamento di Sartori – nella nostra democrazia elettiva, dove il demos si limita ad eleggere i propri rappresentanti, il problema è minore: qui - anche se l’opinione pubblica non è completamente autonoma, anche se è vero che il pubblico può essere disinformato e “non sapere granché di politica” - con le elezioni non si decidono le questioni ma si “decide chi deciderà le questioni: la patata bollente passa così dall’elettorato agli eletti, dal demos ai suoi rappresentanti”. Ma quest’ultimi – chiediamo – possederanno mai l’epistene, il vero sapere, oppure come pensava Platone dovremmo affidarci al “filosofo-re”, ai sapienti, ai competenti, ai tecnici in generale? E’ appunto una vexata quaestio, che anticamente veniva scagliata contro il popolo e la democrazia “diretta” ed oggi contro quella “rappresentativa”. Però a quest’ultima - ci par di capire - secondo Sartori non ci sono valide alternative. Non possiamo accogliere “filosofi-re” senza che siano eletti. Ma non si può precipitare neanche nell’opposto, nell’ “infantilismo” di chi critica la democrazia rappresentativa perché “poco partecipata”, perché il cittadino dovrebbe “decidere in proprio le questioni, invece di affidarsi ai rappresentanti”: chiunque può comprendere che nelle democrazie moderne – che non sono antiche città-stato con poche migliaia di abitanti – non può essere praticabile una democrazia governante diretta. D’altronde – ad avviso di Sartori – diventa anche pericoloso – oltre che impraticabile – proporre la figura di un cittadino-militante “che vive per servire la democrazia, in luogo della democrazia che esiste per servire il cittadino”. E’ questo un perfezionismo che critica la democrazia rappresentativa in modo irresponsabile e immeritato: crea “una promessa troppo irraggiungibile per poter essere mantenuta”. Il pericolo sta nel finire per ripudiare “la democrazia che c’è” - quella rappresentativa - reclamando la “vera democrazia” che non c’è. E sovente chi la reclama altri non è che espressione di una élite che irretisce masse inermi e credule denunciando l’elitismo altrui.
Le masse irretite costituiscono un “problema” per la democrazia. Succede soprattutto per i politici chi si ritengono di sinistra: “sinistra è altruismo, è fare il bene altrui mentre destra è egoismo, è attendere al proprio bene”. Ma poi succede che “chi si fa vanto di moralità, di immoralità perisca…: se il potere corrompe un poco tutti, comunque più di tutti la sinistra al potere”. Masse “tradite” dai politici, ma attenzione: un grandissimo pensatore spagnolo J.Ortega y Gasset nella sua opera preveggente scritta ancora negli anni ’30 del Novecento, “La ribellione delle masse”, parla di loro come di “un bambino viziato e ingrato che riceve in eredità benefici che non merita e che, di conseguenza, non apprezza”. La democrazia trova qui il pericolo più decisivo: è l’iperdemocrazia, l’emancipazione priva di assunzione di responsabilità. Per Ortega “la massa non capisce che se ora si può godere di certi vantaggi, ciò è dovuto al progresso, che è costato tanto sforzo delle persone impegnate, mentre le masse considerano il progresso come qualcosa di naturale, che non è costato alcun sforzo”. Così vengono meno le discussioni, i conseguenti creativi dissensi che non piacciono all’uomo-massa. Abbiamo un uomo “infiacchito”, “invertebrato” che si aspetta tutto dall’alto. Così rischia di cadere la democrazia, la democrazia liberale, l’unica democrazia “che c’è”.
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2. COMUNITA’ TRENTINA

-di Alessandro Pietracci
Corriere del Trentino del 7 febbraio 2012

Nel dibattito politico trentino si è affacciata da qualche tempo l’ipotesi di un passaggio dalla “Provincia Autonoma” alla “Comunità Autonoma”. Non si tratta di un cambiamento soltanto nominalistico, ma descrive la presa d’atto di una nuova fase, più in sintonia con gli scenari che, da decenni, stanno modificando l’assetto istituzionale e politico del mondo. La globalizzazione dimostra quanto la sovranità (fiscale prima di tutto) non appartenga più agli Stati nazione che, volenti o nolenti, hanno dovuto abdicare a molte loro prerogative. Oggi è possibile discutere di un “commissariamento” della Grecia da parte dell’Unione Europea, mentre i giudizi delle agenzie di rating contano di più di mille dichiarazioni di politici o di uomini di governo che devono rispondere alle scadenze elettorali e all’opinione pubblica. Il mondo, sempre più intrecciato e interdipendente, vive e vivrà sempre di più in futuro una frammentazione che, da un lato fa emergere i nuovi giganti asiatici o le potenze informatiche americane (Facebook è sbarcato in borsa con una capitalizzazione di 5 miliardi di dollari!) e dall’altro mette in secondo piano quelle istituzioni che ci erano famigliari fino a qualche anno fa. La dimensione locale, che si trova a sopportare i maggiori e più diretti effetti della presente crisi economica e sociale, può però giocare un nuovo ruolo, trovando un protagonismo mai avuto nei decenni precedenti. L’orizzonte locale corre sempre il rischio di diventare asfittico e limitato: il localismo e la chiusura identitaria sono pericoli che vanno a braccetto con un’eccessiva frammentazione. Eppure costruire una nuova comunità locale, concepita secondo le esigenze del mondo contemporaneo, è una sfida affascinante e ineludibile. Da qui si gioca il nostro futuro. I territori possono finire schiacciati oppure diventare le tessere di un mosaico sempre più grande. I territori devono riuscire a pensarsi come nodi autonomi ma sempre interconnessi a una rete globale. Il cambio di paradigma che scaturirebbe dalla concreta presa di coscienza di questa inevitabile trasformazione sarebbe di enorme portata, rimodellando economia e politica, modificando le nostre abitudini consolidate. Questa dimensione territoriale incontra per forza il concetto di comunità. In un libretto di Zygmunt Bauman di qualche anno fa, intitolato "Voglia di comunità", veniva descritta l'attrazione del mondo contemporaneo verso una dimensione ristretta, più accogliente, più gestibile rispetto alla realtà globale che appare ingovernabile e preda di forze sempre più lontane. Il sociologo polacco metteva in guardia da una certa idealizzazione della comunità, quasi che in essa convogliassero tutti i nostri desideri di relazione e di sicurezza, tutto il nostro bisogno di un mutuo riconoscimento. Eppure soltanto in regioni piccole e ben limitate si può pensare ad un'economia, certamente liberale e di mercato, ma che sia più legata al territorio. Solo partendo dalle città, dalle comunità si può affrontare la questione ambientale, visti i continui fallimenti delle grandi assisi internazionali. Credo che la tradizione socialista italiana abbia in sé una cultura adeguata per parlare di questi temi, declinati certamente al tempo presente. E’ dunque nostro compito recuperare il socialismo liberale di Gobetti, il sogno federalista di Altiero Spinelli, l'utopia concreta di Adriano Olivetti. E proprio la lezione di quest'ultimo sembra essere tornata di prepotente attualità. Solo nella comunità, infatti, la persona può realizzare se stessa; solo nel rapporto tra persona e comunità si può assicurare la libertà di ognuno e di tutti; a partire da comunità capaci di autonomia e da un serio decentramento si può costruire un vero e moderno federalismo. Tale architettura istituzionale dovrebbe essere basata, secondo la prospettiva di Olivetti, su tre grandi principi posti sullo stesso piano valoriale: democrazia, lavoro, cultura. Siamo lontani dalla concretezza? E questo cosa c'entra con il Trentino? Sicuramente l'autonomia non si rinnova attraverso feste identitarie o impostazioni austriacanti già sepolte dalla storia ma, al contrario, sforzandosi di gestire in modo nuovo, equilibrato, rigoroso e perché no, più austero, le vastissime competenze che la nostra Autonomia ha conquistato in questi sessant’anni, soprattutto oggi, nella concreta prospettiva di una cospicua contrazione di risorse finanziarie. Il Terzo Statuto, con magari la nascita, di una possibile "comunità autonoma", non può non avere alle proprie spalle una grande visione culturale, da cui far scaturire una rivisitazione istituzionale di vasto respiro. Il dibattito di questi giorni sulle Comunità di valle oppure sulle fusioni dei Comuni non può essere soltanto limitato ad una questione di risorse, ad una scelta referendaria che gioco forza non è mai accompagnata dalla necessaria riflessione. La Lega, presunta campionessa di federalismo, non può certo dare lezioni in quanto ha fallito proprio sul federalismo, di cui non è stato possibile apprezzare alcun effetto positivo. L a Lega, in realtà, ha inventato un finto centralismo padano fuori dalla storia e dalla realtà. Nel contesto dunque di quel vasto rinnovamento dell’Autonomia speciale, da tante parti auspicato, fuori e dentro il Trentino, proprio le Comunità di valle, oggi additate come punta estrema della dispersione delle risorse, magari solo per disinformazione o insufficiente conoscenza della nostra realtà territoriale, possono rappresentare un tassello utile per un nuovo assetto del Trentino. Ciò non è in contrasto con l’accorpamento volontario dei Comuni, modalità alla quale, nei giorni scorsi si è detto favorevole anche l’assessore Gilmozzi. Tutto però non può essere ridotto al problema finanziario delle spese per i Comuni. Il disegno deve essere più politico e quindi più complessivo. Abbiamo tempo di parlarne?

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3. www.avantidelladomenica.it
*Legge elettorale. Preferenza unica per cambiare sistema

“Bisogna cambiare la legge elettorale, ma la strada maestra è solo una: restituire ai cittadini il diritto di decidere, attraverso il voto di preferenza dentro un sistema che renda chiare maggioranza e opposizione. Tutte le altre soluzioni indicate finora, compreso lo sbarramento, - secondo Riccardo Nencini - sono artifici che servono solo a consolidare rendite di posizione senza cambiare il sistema in profondità. Lavoreremo per trovare una convergenza tra tutte le forze riformiste del centrosinistra e intanto sono felice di annoverare su questa posizione anche larga parte del mondo cattolico, in testa le Acli, con il quale siamo disponibili a confrontarci” ha concluso annunciando di avere già chiesto al Pd un incontro sul tema. “Aprire un tavolo di confronto politico – ha dichiarato da parte sua Carlo Vizzini, presidente della commissione Affari Costituzionali del Senato, chiamata a occuparsi in prima battuta della delicata materia - per definire le linee guida della riforma elettorale”. Secondo Vizzini della questione elettorale ‘’debbono occuparsi i partiti politici ai massimi livelli, anche perché si tratta di una materia in linea di principio estranea ai compiti del governo Monti’’.

*FGS. Lavoro vicino a mamma? A volte meglio tacere

“Quando non si sa cosa dire, è meglio tacere”, hanno dichiarato il segretario e il presidente nazionale della FGS, Claudia Bastianelli e Vincenzo Iacovissi, commentando le parole del Ministro dell’Interno relative alla pigrizia dei giovani italiani nel cercare lavoro. “Il tema della disoccupazione giovanile che ha superato ormai quota 31% non può essere liquidato con sterili provocazioni snobistiche, perché è molto più grave di quanto si pensi. A fronte di una fetta di ragazzi che assumono atteggiamenti di pigrizia verso la ricerca del lavoro, ce ne sono molti di più che ogni giorno compiono sacrifici per un piatto di lenticchie senza alcuna garanzia di futuro. Se davvero il Governo vorrà affrontare questa piaga generazionale consulti i giovani precari e disoccupati, così si farà un’idea più consapevole per l’urgente riforma del mercato del lavoro”.

* Lettera a la Repubblica
Quando avevamo la tripla AAA. La vera storia del debito italiano
- di Pieraldo Ciucchi

Egregio Direttore,
le scrivo a proposito di quanto affermato dal Vostro corrispondente Federico Rampini nel suo libro “Alla mia sinistra” a proposito dei vari giudizi espressi su Craxi e, in particolare, riguardo al processo di sviluppo economico che caratterizzò gli anni del suo governo.
Solo chi vuol fare scempio della verità può affermare, come fa Rampini, che Craxi è stato un dilapidatore, che ha generato il debito pubblico di questo Paese, che negli anni del suo splendore l’inflazione schizzò alle stelle. Per far parlare i fatti che devono segnare e caratterizzare il giudizio su Bettino Craxi vale la pena ricordare che dal dopoguerra fino al crollo del muro di Berlino la stragrande maggioranza delle leggi di spesa che hanno portato il debito pubblico a livelli insopportabili sono state approvate in Aula e/o in Commissione sempre con il voto favorevole o con l’astensione contrattata della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano (che negli anni 60-70-80 raccoglievano circa il 70% dei voti) e, vale la pena, ricordare che quando nell’agosto del 1983 il primo Governo Craxi iniziò ad operare, la situazione e le prospettive dell’economia italiana apparivano a molti osservatori già estremamente gravi. I deficit di bilancio superavano 50.000 miliardi di lire.
La produzione industriale era crollata del 7%. Le quotazioni azionarie crollavano, al punto che, solo pochi mesi prima, si era stati costretti ad un intervento assolutamente eccezionale: la sospensione per tre giorni dell’attività di Borsa per evitare un vero e proprio tracollo. Inoltre, per chiarire in modo inequivocabile quale è stato il ruolo svolto da Craxi sull’economia del Paese vale la pena riportare qualche stralcio delle considerazioni finali del Governatore Carlo Azeglio Ciampi (che sicuramente non è mai stato un craxiano impenitente) alla 93° assemblea della Banca d’Italia: “…Nel 1986 si sono concentrati i frutti di una azione tenace e di tendenze positive come non era più avvenuto da quando la prima crisi petrolifera, unendosi a squilibri interni, serrò l’economia italiana nelle strette dell’inflazione e ne minò la possibilità di sviluppo. La produzione e soprattutto la domanda interna hanno accelerato la crescita al 2,6% dell’una, al 3,2% dell’altra; il fabbisogno statale è stato contenuto entro i 110 mila miliardi, al netto degli interessi e delle regolazioni di debiti pregressi è sceso da 47.000 a 36.000 miliardi di lire. Soprattutto, l’inflazione è stata piegata.
Quei progressi sono stati il risultato ultimo dell’azione del Governo, che si oppose alla deriva a cui, all’inizio degli Anni ’80, i prezzi e il sistema produttivo stavano abbandonandosi e che affrontò le cause interne dell’inflazione. L’economia italiana è stata sottratta a squilibri irreparabili.
L’ampliarsi del disavanzo pubblico veniva contrastato, la politica delle tariffe e dei prezzi amministrati cercava di contemperare le esigenze allocative e distributive con quella di non alimentare l’inflazione”.
Infine, per dare a tutti i cittadini-lettori del suo giornale la possibilità di conoscere, una volta per tutte, come sono andate le cose è doveroso dare la parola direttamente all’imputato: “…E’ vero che lo stock del debito pubblico durante il mio governo è cresciuto più del PIL. Debbo tuttavia osservare che questa è stata una caratteristica costante degli ultimi decenni. Solo nel 1995 si è riusciti a frenare il rapporto debito/PIL, che ha raggiunto quota 124,9 nel 1994 e nel 1995 è leggermente sceso a 124,4. Negli anni che vanno dal 1983 al 1987 si scelse come priorità strategica l’obiettivo di portare a risanamento l’economia reale. Ciò significava il ritorno al profitto delle imprese e il loro radicale risanamento finanziario. La finanza pubblica migliorò anch’essa (il fabbisogno del Tesoro passò dal 14% del prodotto lordo all’11,3%. Un miglioramento certamente insufficiente dovuto anche al fatto che nel contempo avevamo preso e poi rispettata la decisione di non aumentare la pressione fiscale (era al 36,8 nel 1983 e restò al 36,7 nel 1987). Comunque, alla fine di quella azione di governo, le società di “rating” internazionali attribuirono al nostro Paese la valutazione massima, la tripla A, portando in questo modo l’Italia nella aristocrazia dei paesi industrializzati.
Questa posizione non è stata mai più riconquistata. Lo sviluppo era stato del 3%, il tasso di inflazione era sceso dal 16% al 4%, la conflittualità ridotta al minimo e cioè al livello più basso a partire dal dopoguerra”. Questo e tanto altro scriveva Bettino Craxi sull’Avanti di mercoledì 28 gennaio 1998. A buon intenditor poche parole!
I dati recentemente forniti da Oscar Giannino in riferimento al debito pubblico italiano attinto dai dati ufficiali della Banca d’Italia, aggiornati in euro a oggi rendono ancor più paradossali e mistificatori i giudizi su Craxi riportati da Rampini. Nel 1992, quando iniziò Mani pulite, il debito pubblico italiano era complessivamente di 795 miliardi di euro. Oggi è salito fino a 1.931 miliardi. Anche rapportandolo al Pil il debito, che era circa l’85%, è arrivato al 120%. Nella cosiddetta Prima repubblica, considerando il periodo che va dal primo governo De Gasperi del 1945 (dopo la breve parentesi di Parri) al governo Andreotti, che cadde con le elezioni del 1992, il debito pubblico era alimentato al ritmo di 47,5 milioni di euro al giorno, che assommavano a 14 miliardi l’anno. Nella seconda Repubblica il debito è salito a 60 miliardi di euro l’anno. Dal 1992 al 1994, nella fase di transizione durante l’offensiva di Tangentopoli, coi governi Amato e Ciampi, il debito pubblico è arrivato a 950 miliardi, con 185 milioni di indebitamento al giorno. Dal 1992 al giugno di quest’anno il debito pubblico è dunque cresciuto a dismisura di ben 1.136 miliardi, dei quali 981 dal 1994 al giugno del 2011. Scomponendo la cifra risulta che durante il primo governo Berlusconi, che è durato solo 252 giorni, la crescita del debito è stata cospicua, di ben 330 milioni al giorno (record assoluto), col governo Dini, che gli è succeduto, è stata sempre molto alta, ma leggermente più lieve, e cioè di 207,3 milioni al giorno, con il Prodi uno (1996-1998) è scesa a 96,2 milioni al giorno, con D’Alema (1998-2000) è scesa ancora, a 76,3 milioni al giorno, con Amato (2000-2001) è lievitata a 124,5 milioni al giorno. Ma l’aumento più corposo si rileva ancora col governo Berlusconi II-III (2001-2006).
Nei cinque anni di governo del centro-destra l’incremento è stato di 124,3 milioni al giorno, è sceso con il Prodi due (2006-2008) a 97,5 e risalito ancora col Berlusconi IV (2008-2011) fino a 217,8 milioni al giorno. Sono dati inconfutabili, che provano che: non è vero che la colpa del debito risale ai governi allegri della Prima repubblica, che pure il debito pubblico aveva aumentato, che i due governi Berlusconi sono stati quelli che hanno prodotto il più alto incremento del nostro debito, che nonostante tutte le finanziarie, le manovre e i sacrifici richiesti agli italiani, il debito pubblico (a fronte di una crescita del prodotto interno lordo di solo lo 0,6% negli ultimi dieci anni) non solo non è stato controllato, ma è gravemente e colpevolmente aumentato. Chi bisognerebbe processare?
La prima o la seconda Repubblica?

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IL POTERE DEI GIUDICI
Caso Del Turco, lezione per la sinistra

-di Antonio Polito
Corriere della Sera del 2 febbraio 2012

Nella campagna di riabilitazione che l'Unità sta conducendo in favore di Ottaviano Del Turco (al tempo del suo arresto abbandonato come un appestato da quel Pd che aveva appena contribuito a fondare) ieri Luciano Violante ha fatto un passo avanti di notevole importanza. Un passo che solo la sua fama di inflessibile persecutore di reati può accreditare presso il popolo democratico, affamato di giustizia più o meno sommaria, soprattutto ora che ha scoperto nel senatore Lusi la sua ennesima «mela marcia». Il caso Del Turco è ben diverso.
Non si tratta solo di accorgersi, tre anni e mezzo dopo, che il castello di accuse contro l'ex governatore dell'Abruzzo era fragile fin dall'inizio, perché mancava il corpo del reato: nel senso che i pm non hanno mai trovato i tanti soldi che l'imputato avrebbe incassato. Né si tratta solo di riparare al torto grave subìto da un uomo la cui storia di sindacalista e di politico era più che specchiata: un uomo che è stato al fianco di Lama e al capezzale del Psi morente, e che forse ha pagato un prezzo proprio alla sua provenienza socialista (per quanto ne so, gli sarebbe bastato essere trattato come gli ex Ds hanno poi trattato Penati, con un'abbondante presunzione di innocenza). Ma ieri sull'Unità Violante ha aggiunto una cosa in più: e cioè che «se il magistrato inquirente ha sbagliato, alla fine del processo dovrà risponderne personalmente».
Siccome si è fatto un referendum per introdurre la responsabilità civile dei giudici, stravinto e poi tradito; e siccome ogni volta che torna in ballo il tema la sinistra alza le barricate in difesa dei magistrati, la frase di Violante o è una voce dal sen fuggita o è una nuova linea politica. Di più: Violante giustamente segnala l'enormità del danno politico che un errore giudiziario del genere avrebbe prodotto. Del Turco infatti fu costretto a dimettersi a inchiesta a malapena iniziata, si sciolse il consiglio regionale, si convocarono nuove elezioni che furono vinte dal centrodestra, il quale spodestò così un governatore di centrosinistra scelto direttamente dagli elettori proprio come il centrosinistra avrebbe voluto fare con Berlusconi approfittando di una delle tante inchieste giudiziarie sull'allora premier. Oltre a una carriera politica distrutta e a un uomo fatto a pezzi, se il pm ha sbagliato c'è stato anche un sovvertimento per via giudiziaria della sovranità popolare. Un fenomeno pericoloso, che Violante definisce ormai apertamente «giuristocrazia».
Essendo un ex magistrato, sa bene di che parla. Ma se il suo encomiabile sforzo è serio, va completato. Intanto perché sono numerosi i casi in cui accuse poi non provate nel processo hanno rovinato vite e reputazioni pubbliche, e sarebbe bello allora leggere sull'Unità analoghe richieste di risarcimento morale anche nei confronti di avversari politici come Calogero Mannino, giusto per uscire dalla maledizione dei due pesi e delle due misure. Ma soprattutto sarebbe importante che nel Pd si aprisse una riflessione autocritica sugli effetti istituzionali che un uso leggero o spettacolare delle inchieste giudiziarie può provocare anche prima del processo e indipendentemente dalla sentenza, perché questo è stato il cuore dello scontro tra politica e giustizia nelle tante inchieste contro Berlusconi, spesso considerate anche dal Pd di per sé sufficienti, pur in assenza di condanna, a provocare dimissioni e crisi di governo. Se nella cultura italiana rientra il concetto che il pm non ha né il compito né il potere di tagliare le teste dei politici, perché lui muove solo accuse ma è il giudice che emette le sentenze, e che dunque di fronte a un uomo che si dichiara innocente bisogna considerarlo tale fino a prova contraria, perfino se è un politico, allora la fine del berlusconismo e dell'antiberlusconismo ci avrebbe regalato un grande progresso. Non è facile per il Pd, perché è sotto la pressione del «partito della giuristocrazia», che ormai sta anche formalmente nascendo sull'asse de Magistris-Emiliano. Ma è per fare le cose difficili che esistono i grandi partiti.

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Preghiamo gentilmente i nostri lettori di scrivere una e-mail a n.zoller@trentinoweb.it con il semplice oggetto "CANCELLAMI" se le nostre "info" risultano indesiderate. Grazie per la cortese paziente attenzione



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