|
....Una guida per orientare consapevolmente chi decide di lavorare nei teatri di guerra Manuale di pace Dalla distribuzione degli aiuti umanitari alla promozione dei diritti umani, uno sguardo sui meccanismi interni alle organizzazioni internazionali Recensione di Eugenia Palazzetti Bastano un esame e la curiosità per fare il giornalista? L’amore per gli animali per scegliere veterinaria?. E una laurea in diritto internazionale per diventare operatori di pace? No. Lo ha ben chiaro Marco Mayer che nel suo “Intervento umanitario e missioni di pace” affronta la delicata questione della formazione di quanti desiderano intraprendere una delle tante professioni legate alle operazioni di pace. Appurato che l’entusiasmo non basta, che l’idealismo il più delle volte, rischia di rendere troppo intransigenti, che anche un corso di studi specialistici non è sufficiente, l’autore disegna il suo “itinerario” virtuale e virtuoso del moderno operatore. Utilizzando la sua vasta esperienza sul campo (in particolare nei Balcani) ed esponendo l’andamento delle più recenti missioni (Somalia, Timor Est, Afghanistan, Iraq), Mayer chiama in causa errori, modelli, visioni, a volte “vittorie”, che più di tanti discorsi sono in grado di accompagnarci all’interno di meccanismi complicati e ambigui. Non un processo, ma uno sguardo lucido su scenari estremamente delicati. Al centro dell’attenzione i conflitti inter e intra-etnici, i più difficili da gestire ma anche quelli che negli ultimi anni sono stati alla base di circa novanta guerre, dalle più note a quelle dimenticate. Già perché dalla caduta del muro di Berlino tante cose sono cambiate e ciò che un tempo si richiedeva ai professionisti del settore oggi non basta più. “Durante il bipolarismo chi lavorava per le organizzazioni internazionali aveva alle spalle una formazione rigidamente orientata all’esercizio di funzioni ‘notarili’, di osservazione ‘imparziale’, di ‘inerte’ interposizione tra le parti, di controllo di aspetti puramente procedurali e protocollari”. Viceversa, negli anni Novanta “si viene affermando, sia pure in forme molto confuse e spesso incoerenti, una maggiore propensione a un intervento attivo di carattere esterno” accompagnata “da una varietà di fenomeni che vanno dalla proliferazione dei soggetti – internazionali, regionali, intergovernativi, governativi e non governativi – che premono per l’azione, peraltro in perenne competizione tra di loro, al forte ampliamento dei settori e delle aree di intervento, alla nascita di nuove funzioni e figure professionali, all’aumento esponenziale della quota di personale internazionale, umanitario, civile e militare, dislocato sul terreno”. Insomma un orizzonte del tutto cambiato. Del resto prima “chi avrebbe pensato alla possibilità che un funzionario di carriera Onu, addetto al protocollo, si ritrovasse a doversi improvvisare sindaco o assessore al Bilancio di un comune dei Balcani o a Timor Est?”. Ovvio, di conseguenza, che “alla complessità dei nuovi percorsi professionali debba simmetricamente corrispondere una struttura poliedrica e innovativa del ‘paniere formativo’”. “Se la confidenza con l’inglese e con il computer sono supporti essenziali”, assumono importanza fondamentale “la ricezione e la decodificazione dei segnali non verbali”, la familiarità con le tradizioni etniche, la storia, la psicologia degli attori coinvolti. Oltre ad una buona formazione in diritto internazionale, l’attenzione deve rivolgersi soprattutto all’apertura mentale, alla flessibilità, alla diplomazia, agli aspetti politici, psicologici, investigativi e ad un certo grado di disincanto. Soprattutto per non restare ostaggio delle logiche che muovono le opposte fazioni, per evitare “da un lato l’eccesso di comprensione e solidarietà, dall’altro la tentazione di demonizzare le comunità locali” e per essere pronti a misurarsi quotidianamente con l’inevitabile “binomio onnipotenza/impotenza”. A organizzazioni internazionali altamente burocratizzate e in parte impreparate, dopo anni di congelamento, al lavoro sul campo, si contrappongono oggi scenari che pretendono interventi rapidi, agili, di ingerenza. Non è un caso, del resto, che i maggiori problemi emergano non tanto nella (rodata) fase dell’elargizione di aiuti umanitari in casi emergenziali, quanto la gestione del dopoguerra, quando si impongono impellenti necessità di ricostruzione (delle case, dei confini, delle istituzioni), di pacificazione delle fazioni in lotta, di bonifica del territorio. Interessante, e imprescindibile ai fini della comprensione del contesto politico in cui ci si muove, anche l’esposizione del diverso approccio di Stati Uniti ed Europa rispetto alle problematiche sollevate dai conflitti di natura etnica, laddove all’imperativo statunitense dell’integrazione, del “modello melting pot” (cui consegue un’eccessiva semplificazione della situazione ed il carattere prettamente residuale delle azioni a favore delle minoranze oppresse) si contrappone la “dimensione valoriale” europea, in cui prevalgono maggiormente “le componenti umanitarie e dell’aiuto allo sviluppo, della non violenza e della ricostruzione”. Mayer non si sottrae neanche al dilemma principe che accompagna ogni intervento: è sempre necessario l’uso della forza? O meglio, “ogni azione non violenta (diplomazia realistica in primis) che tenta di indebolire, spiazzare e isolare i sostenitori della guerra è sicuramente benvenuta, ma può bastare da sola? E, allo stato dei fatti, “l’unica valutazione che possiamo esprimere è che è difficile escludere per principio il dispiegamento di una forza multinazionale di stabilizzazione, quanto meno quella necessaria a predisporre un ombrello di sicurezza e a condurre funzioni che potremmo definire (anche se con un po’ di ipocrisia) ‘operazioni di polizia internazionale’”. Difficile tentare di esporre gli infiniti spunti di riflessione che questa “guida non retorica” suscita. I tanti suggerimenti (da un maggiore coordinamento tra civili e militari, all’invito ad una maggiore valorizzazione della creatività), le mille angolazioni da cui osservare i teatri di guerra, le appassionate polemiche contro la superficialità dei media, l’imprudenza delle ONG, gli errori di organizzazione (vedi l’elevato turn over degli operatori) e di gestione di casi tristemente noti (Somalia). Quello che lascia è forse un panorama ancora più confuso, ma anche un’intensa voglia di conoscere di più e meglio. E per un libro con dichiarati intenti di formazione è questo il risultato migliore. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ dal CORRIERE DELLA SERA - 25 luglio 2005 Amicizie sbagliate Di solito prima di portare qualcuno a casa nostra, ci si informa quantomeno su chi sia. Capita invece che noi italiani non soltanto ci portiamo in casa un estraneo, ma l’abbracciamo e stringiamo accordi. Accordi che ridicolizzano la nostra credibilità e minano la nostra sicurezza. Sarà perché siamo anime pie, forse spregiudicati avventurieri o peggio ancora degli ideologizzati che infieriscono contro se stessi. Ma è così che abbiamo consegnato la rete delle moschee d'Italia agli integralisti e estremisti islamici dichiarati fuorilegge nei rispettivi Paesi d'origine. Che scegliamo come interlocutori all'estero nomi altisonanti di prestigiose istituzioni islamiche, come l'università Al Azhar del Cairo o la Lega musulmana mondiale della Mecca, senza preoccuparci minimamente del fatto che in realtà sono degli strenui apologeti del terrorismo suicida che massacra gli ebrei in Israele o gli occidentali in Iraq. E tra questi, val la pena ricordarlo, ci siamo anche noi italiani. E' successo poco più di un mese fa, il 15 giugno, che al Cairo è stato siglato un accordo per la creazione di un Comitato accademico italo-egiziano di «studi comparati per il progresso delle scienze umane nel Mediterraneo» (Oscum), tra la celebre università islamica di Al Azhar, considerata una sorta di Vaticano sunnita, e un cartello di cinque università italiane (La Sapienza di Roma, il Pontificio Istituto Orientale di Roma, l'Orientale di Napoli, la Bocconi di Milano, l'Iuav di Venezia), coordinato dal professore Sergio Noja Noseda, ex docente di Lingua e letteratura araba alla Cattolica di Milano e titolare di una omonima Fondazione. L'accordo è stato firmato dal rettore di Al Azhar, Ahmed al-Tayeb e dall'ambasciatore d'Italia, Antonio Badini, alla presenza dello sheikh di Al Azhar, Mohamed Sayed Tantawi, ritenuto la massima autorità teologica dell'islam sunnita. Ed è sorprendentemente l'Avvenire , l'organo della Cei (Conferenza episcopale italiana), a ricordarci che proprio Tantawi, un «amico del Papa» avendo accolto Giovanni Paolo II al Cairo nel 2000 e partecipato alle sue esequie, è in realtà a capo di un'istituzione islamica che legittima il terrorismo suicida. Lo ha fatto il rettore al-Tayeb persino nel convegno organizzato dalla comunità di Sant’Egidio a Milano il 7 settembre 2004 dal titolo «Disarmare il terrore. Un ruolo per i credenti». «Un conto è il terrorismo che colpisce innocenti, un conto è affibbiare l'etichetta di terrorismo a quella che è solo una reazione di autodifesa per proteggersi da qualcosa, come nel caso della resistenza nei confronti di forze di occupazione», spiegò in un'intervista al mensile 30 Giorni , «I palestinesi sono un popolo che non ha niente. Povera gente che viene uccisa ogni giorno. Nella disperazione ricorrono a mezzi estremi per opporsi all'occupazione». In precedenza, il 4 aprile 2002, quando ricopriva la carica di Gran mufti d'Egitto, massimo giureconsulto islamico, sentenziò che «la soluzione al terrorismo israeliano si basa sulla proliferazione degli attacchi di martirio che terrorizzano i cuori dei nemici di Allah. I Paesi islamici, sia i popoli che i governanti, devono sostenere queste operazioni di martirio». Così come lo stesso Tantawi, sempre il 4 aprile 2002, ricevendo al Cairo il deputato arabo-israeliano Abdel Wahhab Darawsheh, emise una fatwa, un responso giuridico, in cui sentenziò che «le operazioni di martirio contro qualsiasi israeliano, inclusi i bambini, le donne e i giovani, sono legittime dal punto di vista della legge islamica». Tantawi spronò «il popolo palestinese a intensificare le operazioni di martirio contro il nemico sionista, in quanto la manifestazione più alta della Jihad». Non sorprende quindi che il collega Carlo Termignoni concluda sull' Avvenire : «Alla luce di una simile realtà ad alcuni osservatori non è parso dunque prudente l'accordo di collaborazione culturale e di cooperazione scientifica tra l'università di Al Azhar e istituzioni italiane». Che l'università di Al Azhar sia pesantemente infiltrata dal movimento integralista dei Fratelli Musulmani è un fatto noto. Così come lo è la Lega musulmana mondiale sponsorizzata dall'Arabia Saudita che, tramite il Centro culturale islamico d'Italia, gestisce la grande moschea di Roma. Anche se l'ambasciatore Mario Scialoja, che presiede la sezione italiana della Lega musulmana mondiale, non ha nulla a che fare con i Fratelli Musulmani. Ben diverso è il caso di gran parte delle moschee sorte in modo incontrollato in Italia. E che oggi sono sottoposte al controllo, diretto o indiretto, dell'Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), emanazione dei Fratelli Musulmani, e di gruppi fondamentalisti che predicano la Jihad, intesa come guerra santa, ed esaltano i kamikaze islamici in Israele e in Iraq. E' qui che si attua il lavaggio di cervello che trasforma i musulmani in robot della morte. Ed è da qui che deve scaturire il riscatto alla piena legalità dell'islam d'Italia. Magdi Allam IL PUNTO DI VISTA SOCIALISTA SULL’ATTUALITA’ Boselli, patto di consultazione con i radicali Un patto di consultazione tra lo SDI e il partito Radicale. E' questa la proposta avanzata all'apertura dei lavori del Comitato direttivo dello Sdi, nella relazione del presidente del Partito e accolta dall'assemblea. Enrico Boselli ha ricordato che sui temi della laicita' dello Stato, compresa la "sfortunata avventura referendaria", i socialisti "si sono incontrati naturalmente con i radicali, insieme a noi, a cominciare da Loris Fortuna, hanno portato avanti tante battaglie sui diritti civili. Una parte impostante della relazione è stata dedicata anche alla prospettiva di un'alleanza con il Nuovo Psi. Con Marco Pannella, Emma Bonino, Daniele Capezzone e Marco Cappato - ha detto Boselli nella sua relazione - abbiamo ritrovato il filo di un rapporto che vogliamo sviluppare". Boselli ha poi sostenuto che "una visione laica della societa' e dello Stato deve avere piena cittadinanza nell'Unione. I radicali, una volta che fanno una scelta strategica per il centrosinistra e si ricollocano nel mondo progressista dove sono sempre stati, devono trovare a pieno titolo il loro posto nell'Unione. Non sarebbero infatti comprensibili veti e pregiudiziali da parte di un'alleanza che e' per definizione plurale". Boselli ha poi lanciato la proposta di un seminario con i radicali sui temi del programma da tenersi a settembre, e la redazione di un "manifesto di principi" che si augura di poter presentare nella prossima primavera. Il Leader dello SDI ha sottolineato infine che "l'incontro con i radicali poggia su basi solide che non riguardano solo motivazioni dettate dall'attualita' ma trovano un forte ancoraggio nella tradizione del socialismo italiano" Una parte importante della relazione è stata poi dedicata alla prospettiva di un'alleanza con il Nuovo Psi, a cui si è ricolto "con spirito di amicizia". A Gianni De Michelis e Bobo Craxi il presidente dello SDI ha detto: "E' sufficiente che al vostro congresso facciate una scelta a sinistra perche' l'unita' socialista si trasformi in una cosa bella e fatta". L'invito, ha chiarito e' rivolto anche a coloro che sembrano orientati a restare nel centrodestra "e anche a quelli che sono oggi al governo con Berlusconi perche' riflettano e ritrovino la strada che porta alla vecchia casa socialista". Boselli si è rivolto "con amicizia" a Chiara Moroni, figlia del deputato socialista che si suicido' dopo essere stato coinvolto nell'inchiesta di 'mani pulite', per dirle che "noi abbiamo compreso il suo dramma personale e che qui tra di noi trovera', se volesse venire, quell'affetto vero ed autentico che si puo' ricevere solo dalla propria famiglia che per lei, come era per suo padre, e' solo quella dei socialisti italiani". Le parole del segretario sono state accolte da un caldo applauso della platea. =============================== L’Osservatorio di… Fabio Fabbri Una terapia contro la grande depressione È stata necessaria la “discesa in campo”, come direbbe Berlusconi, di due ottuagenari per lanciare una proposta, finalmente concreta ed efficace, idonea a dare vitalità propulsiva al nostro sistema economico infiacchito, facendo perno sui distretti industriali. Il primo ottuagenario fecondo è Paolo Sylos Labini, così avanti negli anni da aver vissuto la stagione riformatrice che ebbe la sua fonte nei “Convegni degli amici del Mondo”. Fu lì che nacque in gran parte il programma del primo centro-sinistra. Sylos Labini non si intende soltanto di economia. Ha dedicato parte delle sue ricerche allo studio delle classi sociali. Un retroterra certamente non estraneo al suo approccio al problema dei distretti, gli arcipelaghi virtuosi, variamente incardinati nei diversi tessuti regionali, che costituiscono il nerbo dell’economia italiana: tanto che sono oggetto di studio e di imitazione, oltre che di tentativi di trapianto. La crisi dei distretti è insieme spia e causa della grande depressione in atto, generata in larga misura dalla caduta dello spirito imprenditoriale e della difficoltà della gran parte delle piccole e medie imprese a navigare nel vasto mare del mercato-mondo. La terapia suggerita da Sylos Labini è riassunta nel documento ospitato, e benedetto, dal “Sole-24 Ore” di venerdì 15 luglio. Il colpo d’ala, capace di risvegliare gli animal spirits dello sviluppo, è affidato all’istituzione di nuovi organismi di distretto, deputati alla promozione e al coordinamento di un insieme di azioni volte ad incentivare l’innovazione e la ricerca, alimentata da più intensi rapporti con le Università, e a favorire la collaborazione con la Regione di appartenenza, lo Stato, gli enti locali e l’Unione Europea. Ogni Autorità di Distretto sarà anche provvista di un centro di servizi e di consulenza, operativo per la soluzione dei problemi concreti delle imprese, anche di ordine amministrativo. Le nuove strutture saranno sicuramente utili per dare impulso al processo di internazionalizzazione della piccole e medie imprese, favorendo, ma non soltanto in vista di questa finalità, la costituzione di consorzi e di altre forme associative. Una legge-quadro nazionale potrebbe fungere da ordito di collegamento ed indirizzo verso comuni obiettivi strategici, precisati poi, in modo aderente alle varie realtà territoriali, dal legislatore regionale. Basti pensare agli sbocchi incrociati e coordinati di una vasta panoplia di prodotti del made in Italy sui mercati mondiali, alla pianificazione di operazioni di società miste all’estero e di delocalizzazione di gruppi di imprese nei Paesi in via di sviluppo. Si affronteranno così anche tutte le questioni che hanno ostacolato il ritorno alla crescita: la sconfortante transizione generazionale che ha messo in ginocchio il capitalismo dinastico delle province italiane, il nanismo della maggior parte delle nostre imprese, la difficoltà del salto dalla piccola alla media dimensione. Sullo sfondo la priorità delle priorità: una politica creditizia che colmi il vuoto che si è creato con la quasi-distruzione delle banche locali, che sono state decisive nella fioritura dei distretti. Non è mancato chi ha storto il naso: “Si rischia di dar vita a nuove sovrastrutture burocratiche; meglio puntare sul ruolo delle forme associative degli imprenditori”. Si tratta di un’antinomia inesistente. Le Autorità di distretto potranno infatti esaltare l’autogoverno degli imprenditori, agevolato dalla cooperazione con le istituzioni elettive. Si potranno così raggiungere, nel clima fecondo della concertazione, importanti traguardi di modernizzazione, innescando processi di sviluppo che spesso l’associazionismo di categoria, lasciato solo e spesso costretto a fare i conti con la riluttanza delle singole imprese a fare sistema, non ha potuto realizzare. Certo, è un ritorno alla programmazione di impronta new-dealistica, in controtendenza rispetto a chi crede ciecamente nel dogma del mercato come autorisolutore benefico di tutti i problemi: non solo dell’economia, ma anche della società. È anche una sferzata alle Regioni, che si sono dimostrate più solerti a reclamare nuovi poteri che ad usare bene quelli di cui gia dispongono. Ho quasi dimenticato il secondo ottuagenario che ha dato un forte incoraggiamento alle idee di Sylos Labini. È il Presidente Ciampi, che ha visto nell’autorità di distretto uno strumento di sicura utilità per imprimere quella salutare scossa ad un Paese che sembra rassegnato alle statistiche dominate dal segno “meno”. =============================== La dichiarazione di voto di Enrico Buemi. Il no dello Sdi alla pseudo-riforma del governo La giustizia della maggioranza Un provvedimento confuso e contraddittorio, che non risolve i problemi posti dal Presidente Ciampi e mantiene aperte varie questioni di costituzionalità. È mancato il coraggio di affrontare i nodi storici dell’ordinamento giudiziario italiano I Socialisti democratici italiani negheranno la loro fiducia a questo Governo, certo in ragione di un giudizio più complessivo sul suo operato di questi quattro lunghi, travagliati, contraddittori e spesso irresponsabili anni, sia dal punto di vista delle scelte di contenuto che per le modalità spesso inaccettabili con cui i problemi sono stati affrontati, in particolare in materia giudiziaria. Oggi la nostra posizione è ancora più determinata nel giudizio negativo per il metodo utilizzato e per il contenuto del provvedimento in esame. Un provvedimento confuso e contraddittorio, che non ha risolto i problemi posti dal Presidente Ciampi con il messaggio alle Camere, che mantiene aperte varie questioni di costituzionalità e nel contempo non ha neanche avuto il coraggio di affrontare i nodi storici dell’ordinamento giudiziario italiano. Se invece di imporre con arroganza e chiusura, con voti di fiducia e tempi contingentati, sia in Commissione che in Aula, una proposta di legge sostanzialmente vendicativa nei confronti della magistratura, che non ha affrontato il problema di una corretta impostazione dei percorsi formativi degli operatori giudiziari, siano essi avvocati, pubblici ministeri o giudici, di una separazione netta delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, il non avere impostato una dinamica delle carriere dei magistrati in grado di valorizzare crescita professionale, qualità e quantità delle prestazioni, senza burocratizzare l’attività, che di tutto ha bisogno fuorché di burocratismi, il non aver predisposto una regolamentazione definitiva della magistratura onoraria che non è giusto escludere da una legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, poiché sappiamo quanta urgenza c’è in questo ambito della giurisdizione, se si fosse accettato e promosso un confronto vero su tutto questo con magistrati, avvocati e mondo scientifico, con un particolare rispetto alla dialettica parlamentare fra maggioranza e opposizione, condizione indispensabile per dare il necessario equilibrio alla regolazione di un settore così delicato e importante come quello della giustizia, non solo avremmo potuto dare al Paese un moderno ordinamento giudiziario, ma avremmo potuto evitare imbarazzanti invasioni di campo da più parti, comprese quelle dell’organo di autogoverno della magistratura. Si sarebbe potuto evitare uno scontro frontale con la magistratura associata, le cui scelte di sciopero continuiamo a ritenere inopportune, se pure legittime e motivate da un’arroganza del legislatore inaccettabile su argomenti di questa natura, ma anche con l’avvocatura associata da sempre attenta e aperta alle esigenze di riforma. Di certo comunque non si sarebbero esposte le più alte cariche dei due rami del Parlamento a critiche per le prese di posizione a difesa dell’autonomia delle Camere. Di forzatura in forzatura, di lesione in lesione, la maggioranza e il Governo, con questi comportamenti stanno squilibrando il nostro sistema istituzionale, esponendo a critiche le più alte responsabilità di garanzia per le prese di posizione spesso necessarie, ma non sempre prive di quel distacco che invece è indispensabile per il loro ruolo. Per queste ragioni che sinteticamente abbiamo voluto evidenziare i Socialisti Democratici Italiani confermano la negazione della fiducia a questo Governo. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ torna in alto |