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ERETICI a Trento
18 novembre 2010

dal giornale TRENTINO: L'età del riformismo UNA STAGIONE DA RILEGGERE, pp.1-41
Oggi 18 novembre alle 17.30 verrà presentato presso la Biblioteca comunale di Trento in via Roma il libro di Bruno Pellegrino “L’eresia riformista” (Guerini ed.), che ricostruisce il processo di modernizzazione del socialismo italiano sviluppato negli anno 70/80 del Novecento. Accanto all’autore, interverranno Lorenzo Dellai e Mario Raffaelli, con il direttore del “Trentino” Alberto Faustini.
Molti di noi sono stati partecipi di quella stagione riformista, alla quale – riteniamo - la sinistra italiana dovrebbe utilmente ancor guardare per superare le sue permanenti difficoltà di orientamento culturale e progettuale. Una stagione che è nata appunto nel segno dell’eresia, come titola Pellegrino, perché rompeva tanti tabù ideologici. Non fu soltanto un’opera di tattica politica per spezzare l’accerchiamento esercitato sul Psi dai maggiori partiti. Molti di quelli stessi tabù erano stati infranti da una schiera di liberi pensatori ai quali la nuova stagione socialista volle far riferimento. “Mondoperaio” - la rivista del socialismo italiano che oggi promuove significativamente l’incontro trentino con Pellegrino - ha accompagnato quella rinascita riformista, ospitando molti articoli e saggi di quei pensatori. Alcuni fra i più illustri di questi - schierati tra “liberalismo libertario e socialismo antitotalitario” - sono stati commentati anche in un libro di Filippo La Porta, edito da Bollati Boringhieri, dal titolo programmatico: “Maestri irregolari”. Sempre “Mondoperaio” non a caso ha pubblicato sul recente numero 9/2010 (in edicola e sul sito www.mondoperaio.it) una mia recensione dedicata all’opera di La Porta, che fa una concisa rappresentazione dello spessore di innovazione e creatività di quei personaggi che hanno dato tanti spunti e stimoli agli “eretici riformisti” italiani. Di seguito ne riportiamo un estratto.
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Noi orfani di tutte le ideologie, smarriti abitanti del terzo millennio, abbiamo bisogno di maestri da ammirare, in un’epoca in cui non si ammira più nessuno, tutt’al più lo si invidia. Filippo La Porta traccia alcuni ritratti di “Maestri irregolari” la cui azione nel Novecento appena trascorso è stata caratterizzata: 1) dalla critica all’esistente, ma non in nome di abbaglianti utopie futuribili (“uno scopo lontano è sempre una truffa”), quanto piuttosto di un impegno verso la realtà del presente; 2) dal pensare da soli, ripudiando appartenenze di fazione o di classe, ma anche a questa o quella accademia letteraria; 3) dallo schierarsi senza vincoli tra un liberalismo libertario e un socialismo antitotalitario che li ha resi sempre “inaffidabili” per le burocrazie partitiche; 4) infine dal praticare una religiosità senza fede e senza bramosia di convertire gli altri. Guidato passo a passo dalla penna di Filippo La Porta provo dunque a riportare concisamente un profilo di alcune delle personalità considerate “irregolari”.
Per Nicola Chiaromonte (1905-1972) il peccato mortale è la tracotanza, l’illusione di poter guidare o controllare gli avvenimenti. Meglio la semplicità. Egli è scettico verso le mitologie del proprio tempo: restando sempre fedele ad un umanesimo libertario e non violento, laico e radicale, contesta gli intellettuali che hanno tradito la loro funzione critica diventando così “laudatori dei fatti compiuti”, pronti - da un lato – ad accodarsi a tutti gli estremismi per non perdere “il treno dell’avvenire”, o – d’opposto lato – a far causa comune con il potere e gli interessi costituiti. Può spuntare anche l’ibrida figura dell’apocalittico integrato, a cui tutti – ammettiamolo - un po’ partecipiamo. Chiaromonte ammonisce: gli ideali si dimostrano (o si negano) mediante il tipo di esistenza che conduciamo.
Viene poi George Orwell (1903-1950) che ci spiega perché ci ostiniamo a scrivere: in buona parte per vanità, egoismo, desiderio di apparire intelligenti, di far parlare di sé, etc.; ma questo non sarebbe il movente decisivo: scrivere è utopia di libertà, ricerca di verità, una tensione che lo accomuna a Ignazio Silone (1900-1978) per il quale la scrittura diventerà “assoluta necessità di testimonianza”. Per il resto Orwell è il continuatore dello scetticismo libertario inglese: non segue una ideologia o una morale astratta, nelle sue scelte (antifranchista nella guerra civile spagnola, poi fiero antistalinista) agisce in nome della “decenza”, che significa dignità, decoro ma anche modestia. E nei suoi libri famosi (“La fattoria degli animali”, “1984”) ci racconterà di aver a cuore “soprattutto la libertà dell’individuo”.
Simone Weil (1909-1943) dice basta con la “grandezza” storica. Chiunque intenda contestare o riformare l’ordine dei cose esistente, deve elaborare un’idea di grandezza completamente diversa da quella dominante. Il castigo più grande per Hitler sarebbe quello di escluderlo dalla grandezza! La vera grandezza sarebbe dunque riconoscere il “prestigio” della debolezza, che qualsiasi uomo – anche il più potente e il più ricco – intuisce al fondo della condizione umana. La forza – attraverso cui si è manifestata l’azione singola e collettiva nel corso dei secoli – è una male “monotono”, ripetitivo : eppure alle fonti della nostra civiltà - nella Bibbia e nell’Iliade – si capisce che la debolezza è nascosta dentro la forza. Achille, barbarico e collerico, cede di fronte a Priamo che gli chiede il corpo di Ettore. E lì, in questa delicatezza, ricorda le parole di Peleo, il padre lontano: “Essere miti, questo è essere forti!”. Il mondo contiene la distruzione, la catastrofe, l’infelicità ma ogni giorno possiamo anche riscoprirne la misteriosa gentile bellezza.
Procediamo con Albert Camus (1913-1960), grande dilettante del pensiero, filosofo senza sistema, l’autore che – secondo La Porta – gli adolescenti percepiscono come fraterno, rispondente alla loro “esigenza di purezza” per il suo oltranzismo morale poco propenso all’ironia. In verità Camus riesce a coniugare amore per la vita e disperazione dell’esistenza, piacere e rigorismo morale. L’importante è scegliere, non farsi scegliere da ideologie, chiese, partiti, corporazioni. Quando la rivolta individuale spontanea si fa organizzata e diventa tattica e strategia, essa si corrompe, si trasforma in rivoluzione politicante. E la rivoluzione predilige l’uomo che ancora non c’è e in nome del futuro organizza e coarta gli individui. Camus diffida di ogni alienante rinvio utopico, invita a “vivere” il nostro unico tempo presente (il nostro tempo è così breve che il provvisorio copre tutta la nostra vita!). Come? Con severità giansenistica verso se stesso, ma avvertendo nella propria umanità “il gusto della felicità”, l’inclinazione per un edonismo solare che spiazza i moralisti pronti ad incasellarlo in una icona penitenziale. Camus resta a noi carissimo per la sua “devozione alla verità” e per l’impegno concreto a favore della libertà - che lui associava alla difesa dei ceti oppressi e poveri da cui proveniva - declinandolo sia in senso antifascista che antistalinista.
Con Arthur Koestler (1905-1983) ritorna – come in Orwell – il tema della “decenza”, ammantata da una sensibilità scettica che nell’azione del libero pensatore dà per scontata una dose “né troppa né poca” di frustrazione, di moderata infelicità: per un impegno umano e politico coerente, anche fino all’estremo sacrificio, non occorrono utopie grandiose, ideali solenni, visioni palingenetiche, ma solo un senso geloso, inscalfibile del proprio decoro. Ma come Camus, anche Koestler saprà addolcire rigore e austerità con un culto epicureo della buona tavola e del buon vino: meglio essere imperfetti che “costretti alla felicità”, meglio essere infelici ma liberi di sbagliare e di peccare.
Per Carlo Levi (1902-1975), anch’egli scrittore “non professionale”, la politica – da tecnica per conquistare e gestire il potere – diventa soprattutto “rinnovamento di civiltà”, creazione di un contropotere, esperienza formativa ed educatrice, manifestazione concreta di democrazia partecipativa. Profetizza: “ci si libererà della politica attraverso la politica”. La visione “libertaria” di Levi è un antidoto fecondo all’antipolitica volgare: c’è progresso se si dà più importanza all’individuo che alle organizzazioni, più al potere esercitato dal basso, più agli stili di vita che alle formule di governo. Il suo è un “azionismo” senza i miti delle rivoluzioni proclamate dall’alto, il suo è un socialismo di base, che si innesta sull’amore per la civiltà contadina; afferma che è impensabile una modernità che non consideri anche i valori della visone “contadina”, proponendo un tema di pertinente attualità: si “sopravvive” allo sviluppo celebrando la bellezza antica della vita, col suo senso elementare di giustizia, col suo senso naturale del diritto.
Giunti ad Hannah Arendt (1906-1975) ci fermiamo a rimeditare il nostro ’68, la nostra rivoluzione giovanile. Quei giovani progressisti erano animati dalla critica alla diplomazia e al tatticismo, insistevano sulle questioni di principio e sulla “autenticità” del loro impegno. Quel sogno collettivo - degenerato da un lato verso la lotta armata e dall’altro nella cooptazione di capi e capetti ex- rivoluzionari nella nuova spregiudicata classe dirigente borghese – dimostra per la Arendt (come per Camus) che l’iperpoliticizzazione fu uno dei demoni più insidiosi di un movimento la cui grande originalità consisteva esattamente nel contrario: nella ricerca di una libertà personale non garantita dalla politica conformista o dottrinaria, ma emergente da un dialogo tra uguali, da una comunicazione interpersonale disinteressata, come succede nelle fasi libertarie della rivolta prima che questa si istituzionalizzi diventando rivoluzione statolatrica oppure degeneri nel terrorismo o nel ritorno al conformismo. Come uscirne? “Pensare da soli” è il consiglio della Arendt: come per Socrate, anche noi possiamo vivere nella polis solo se impariamo a vivere con noi stessi, ad autoesaminarci. Se pensiamo con la testa degli apparati, se ci atrofizziamo nelle fazioni politiche, ci impediamo una vita “normale”. Da soli dovremmo capire quali sono i compromessi accettabili per vivere nella città ideale proposta da Jefferson: “una comunità di cittadini capaci, responsabili e in grado di governarsi”. Una società formata da cittadini pensanti funziona molto meglio di una organizzata nel dettaglio ma con cittadini passivi e acritici. C’è l’esempio illuminante di Eichmann, il boia nazista: il suo male era banale, non c’era grandezza, mancava di idee, voleva solo “fare carriera” eseguendo da burocrate il losco compito commissionatogli.

Nicola Zoller



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