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INFO SOCIALISTA 30 OTTOBRE 2010 a cura di n.zoller@trentinoweb.it - tel. 338-2422592 Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it / www.socialisti.bz.it Quindicinale - Anno VII ________________________________________ o Un libro per cominciare: Filippo La Porta, “Maestri irregolari”- commento pubblicato da MONDOPERAIO N.9/2010- di Nicola Zoller o Eresie - Bruno Pellegrino racconta in un saggio l' esperienza del Psi negli anni di Craxi - di Pierluigi Battista Corriere della Sera del 13 aprile 2010 o L'ERESIA RIFORMISTA - di Bruno Pellegrino - da Mondoperaio n.4/2010 @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ Un libro per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges) o Autore: Filippo La Porta o Titolo: “Maestri irregolari” o Bollati Boringhieri - di Nicola Zoller commento pubblicato da MONDOPERAIO N.9/2010 Noi orfani di tutte le ideologie, smarriti abitanti del terzo millennio, abbiamo bisogno di maestri da ammirare, in un’epoca in cui non si ammira più nessuno, tutt’al più lo si invidia. Filippo La Porta traccia undici ritratti di “Maestri irregolari” (Bollati Boringhieri) la cui azione nel Novecento appena trascorso è stata caratterizzata: 1) dalla critica all’esistente, ma non in nome di abbaglianti utopie futuribili (“uno scopo lontano è sempre una truffa”), quanto piuttosto di un impegno verso la realtà del presente; 2) dal pensare da soli, ripudiando appartenenze di fazione o di classe, ma anche a questa o quella accademia letteraria; 3) dallo schierarsi senza vincoli tra un liberalismo libertario e un socialismo antitotalitario che li ha resi sempre “inaffidabili” per le burocrazie partitiche; 4)infine dal praticare una religiosità senza fede e senza bramosia di convertire gli altri. Guidato passo a passo dalla penna di Filippo La Porta provo dunque a riportare concisamente un profilo delle undici personalità considerate “irregolari”. Per Nicola Chiaromonte (1905-1972) il peccato mortale è la tracotanza, l’illusione di poter guidare o controllare gli avvenimenti. Meglio la semplicità. Egli è scettico verso le mitologie del proprio tempo: restando sempre fedele ad un umanesimo libertario e non violento, laico e radicale, contesta gli intellettuali che hanno tradito la loro funzione critica diventando così “laudatori dei fatti compiuti”, pronti - da un lato – ad accodarsi a tutti gli estremismi per non perdere “il treno dell’avvenire”, o – d’opposto lato – a far causa comune con il potere e gli interessi costituiti. Può spuntare anche l’ibrida figura dell’apocalittico integrato, a cui tutti – ammettiamolo - un po’ partecipiamo. Chiaromonte ammonisce: gli ideali si dimostrano (o si negano) mediante il tipo di esistenza che conduciamo. Viene poi George Orwell (1903-1950) che ci spiega perché ci ostiniamo a scrivere: in buona parte per vanità, egoismo, desiderio di apparire intelligenti, di far parlare di sé, etc.; ma questo non sarebbe il movente decisivo: scrivere è utopia di libertà, ricerca di verità, una tensione che lo accomuna a Ignazio Silone (1900-1978) per il quale la scrittura diventerà “assoluta necessità di testimonianza”. Per il resto Orwell è il continuatore dello scetticismo libertario inglese: non segue una ideologia o una morale astratta, nelle sue scelte (antifranchista nella guerra civile spagnola, poi fiero antistalinista) agisce in nome della “decenza”, che significa dignità, decoro ma anche modestia. E nei suoi libri famosi (“La fattoria degli animali”, “1984”) ci racconterà di aver a cuore “soprattutto la libertà dell’individuo”. Simone Weil (1909-1943) dice basta con la “grandezza” storica. Chiunque intenda contestare o riformare l’ordine dei cose esistente, deve elaborare un’idea di grandezza completamente diversa da quella dominante. Il castigo più grande per Hitler sarebbe quello di escluderlo dalla grandezza! La vera grandezza sarebbe dunque riconoscere il “prestigio” della debolezza, che qualsiasi uomo – anche il più potente e il più ricco – intuisce al fondo della condizione umana. La forza – attraverso cui si è manifestata l’azione singola e collettiva nel corso dei secoli – è una male “monotono”, ripetitivo : eppure alle fonti della nostra civiltà - nella Bibbia e nell’Iliade – si capisce che la debolezza è nascosta dentro la forza. Achille, barbarico e collerico, cede di fronte a Priamo che gli chiede il corpo di Ettore. E lì, in questa delicatezza, ricorda le parole di Peleo, il padre lontano: “Essere miti, questo è essere forti!”. Il mondo contiene la distruzione, la catastrofe, l’infelicità ma ogni giorno possiamo anche riscoprirne la misteriosa gentile bellezza. Procediamo con Albert Camus (1913-1960), grande dilettante del pensiero, filosofo senza sistema, l’autore che – secondo La Porta – gli adolescenti percepiscono come fraterno, rispondente alla loro “esigenza di purezza” per il suo oltranzismo morale poco propenso all’ironia. In verità Camus riesce a coniugare amore per la vita e disperazione dell’esistenza, piacere e rigorismo morale. L’importante è scegliere, non farsi scegliere da ideologie, chiese, partiti, corporazioni. Quando la rivolta individuale spontanea si fa organizzata e diventa tattica e strategia, essa si corrompe, si trasforma in rivoluzione politicante. E la rivoluzione predilige l’uomo che ancora non c’è e in nome del futuro organizza e coarta gli individui. Camus diffida di ogni alienante rinvio utopico, invita a “vivere” il nostro unico tempo presente (il nostro tempo è così breve che il provvisorio copre tutta la nostra vita!). Come? Con severità giansenistica verso se stesso, ma avvertendo nella propria umanità “il gusto della felicità”, l’inclinazione per un edonismo solare che spiazza i moralisti pronti ad incasellarlo in una icona penitenziale. Camus resta a noi carissimo per la sua “devozione alla verità” e per l’impegno concreto a favore della libertà - che lui associava alla difesa dei ceti oppressi e poveri da cui proveniva - declinandolo sia in senso antifascista che antistalinista. Con Arthur Koestler (1905-1983) ritorna – come in Orwell – il tema della “decenza”, ammantata da una sensibilità scettica che nell’azione del libero pensatore dà per scontata una dose “né troppa né poca” di frustrazione, di moderata infelicità: per un impegno umano e politico coerente, anche fino all’estremo sacrificio, non occorrono utopie grandiose, ideali solenni, visioni palingenetiche, ma solo un senso geloso, inscalfibile del proprio decoro. Ma come Camus, anche Koestler saprà addolcire rigore e austerità con un culto epicureo della buona tavola e del buon vino: meglio essere imperfetti che “costretti alla felicità”, meglio essere infelici ma liberi di sbagliare e di peccare. Per Carlo Levi (1902-1975), anch’egli scrittore “non professionale”, la politica – da tecnica per conquistare e gestire il potere – diventa soprattutto “rinnovamento di civiltà”, creazione di un contropotere, esperienza formativa ed educatrice, manifestazione concreta di democrazia partecipativa. Profetizza: “ci si libererà della politica attraverso la politica”. La visione “libertaria” di Levi è un antidoto fecondo all’antipolitica volgare: c’è progresso se si dà più importanza all’individuo che alle organizzazioni, più al potere esercitato dal basso, più agli stili di vita che alle formule di governo. Il suo è un “azionismo” senza i miti delle rivoluzioni proclamate dall’alto, il suo è un socialismo di base, che si innesta sull’amore per la civiltà contadina; afferma che è impensabile una modernità che non consideri anche i valori della visone “contadina”, proponendo un tema di pertinente attualità: si “sopravvive” allo sviluppo celebrando la bellezza antica della vita, col suo senso elementare di giustizia, col suo senso naturale del diritto. Giunti ad Hannah Arendt (1906-1975) ci fermiamo subito a rimeditare il nostro ’68, la nostra rivoluzione giovanile. Quei giovani progressisti erano animati dalla critica alla diplomazia e al tatticismo, insistevano sulle questioni di principio e sulla “autenticità” del loro impegno. Quel sogno collettivo - degenerato da un lato verso la lotta armata e dall’altro nella cooptazione di capi e capetti ex- rivoluzionari nella nuova spregiudicata classe dirigente borghese – dimostra per la Arendt (come per Camus) che l’iperpoliticizzazione fu uno dei demoni più insidiosi di un movimento la cui grande originalità consisteva esattamente nel contrario: nella ricerca di una libertà personale non garantita dalla politica conformista o dottrinaria, ma emergente da un dialogo tra uguali, da una comunicazione interpersonale disinteressata, come succede nelle fasi libertarie della rivolta prima che questa si istituzionalizzi diventando rivoluzione statolatrica oppure degeneri nel terrorismo o nel ritorno al conformismo. Come uscirne? “Pensare da soli” è il consiglio della Arendt: come per Socrate, anche noi possiamo vivere nella polis solo se impariamo a vivere con noi stessi, ad autoesaminarci. Se pensiamo con la testa degli apparati, se ci atrofizziamo nelle fazioni politiche, ci impediamo una vita “normale”. Da soli dovremmo capire quali sono i compromessi accettabili per vivere nella città ideale proposta da Jefferson: “una comunità di cittadini capaci, responsabili e in grado di governarsi”. Una società formata da cittadini pensanti funziona molto meglio di una organizzata nel dettaglio ma con cittadini passivi e acritici. C’è l’esempio illuminante di Eichmann, il boia nazista: il suo male era banale, non c’era grandezza, mancava di idee, voleva solo “fare carriera” eseguendo da burocrate il losco compito commissionatogli. Con Christopher Lasch (1932-1994), storico americano, giungiamo alla contestazione antiprogressista della ideologia consumista: non bisogna “educare al successo”, viene prima la “vocazione” della carriera, bisogna far capire che l’insuccesso e le delusioni fanno parte della vita. Occorre recuperare una civiltà del “limite”: una nuova idea di uguaglianza implicherà proprio un riconoscimento dei propri limiti. Una posizione naturalmente contrapposta ad una destra spregiudicata che non ci vieta nulla, che ci spinge all’iperconsumismo, a godere delle merci, ma anche diversa da una sinistra che si indigna su temi laterali, ma coltiva gli stessi idoli sociali costituiti: culto del successo, del denaro, della fama, del potere. E’ un Lasch che si ispira alla tradizione puritana fatta di famiglia, comunità, patriottismo, etica dei limiti, diffidenza verso il successo: temi da prendere con le molle ma che finiscono per arricchire la nostra critica alle illusioni del progresso. Una critica che prosegue possente con Pier Paolo Pasolini (1922-1975) quando si chiede: e se ci fosse qualcosa di più sovversivo della rivolta? Se l’assoluta alterità fosse proprio la rassegnazione, quel non ribellarsi al potere perché non lo riconosco, mi è estraneo, non voglio sostituirmi ad esso? Ritorna qui quell’elogio della “debolezza” già cantato da S. Weil: l’eroe vero è Ettore e il più alto destino è finire trascinati da un cocchio sotto le mura di Troia. Messaggio anticonvenzionale: la felicità consiste nel non pensare al futuro, nel non credere di poter possedere qualcosa, nel non accumulare denaro e merci, nel non illudersi di controllare e gestire la vita; la felicità è inventarsi ogni giorno una battuta, è sorridere e cantare. L’austriaco Ivan Illich (1926-2002) ci reca infine l’elogio dell’austerità non penitenziale, ma edonistica. L’autonomia dell’individuo dipende da tutte le cose di cui può permettersi di fare a meno, come annunciava Socrate al rientro dal mercato di Atene. E’ una frugalità eversiva che sperimenta un diverso e meno frustrante stile di vita. Non siamo degli asceti, facciamo rinunce gioiose ed equilibrate! Nicola Zoller @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ Eresie - Bruno Pellegrino racconta in un saggio l' esperienza del Psi negli anni di Craxi SOCIALISMO, LA MEMORIA NEGATA - di Pierluigi Battista Corriere della Sera del 13 aprile 2010 Ma come è possibile che il trionfo del lessico del socialismo riformista in Italia abbia coinciso con la morte politica dei socialisti? È per via di questo paradosso che sulla storia della cultura riformista italiana ristagna ancora un' atmosfera da damnatio memoriae. Grava su di essa il silenzio intimidatorio di un interdetto storiografico. La sua memoria è stata cancellata, la sua storia espunta dalle vicende politiche e culturali della Prima Repubblica. Quando, nella legislatura nata nel 1996, gli ex comunisti della coalizione prodiana andarono al governo, si parlò di una prima volta della «sinistra a Palazzo Chigi»: come se il centrosinistra con i socialisti nella «stanza dei bottoni» non fosse mai esistito, come se a Palazzo Chigi non fosse già entrato il socialista Bettino Craxi. Vittorio Foa, racconta Bruno Pellegrino nel suo L' eresia riformista in uscita presso Guerini e Associati (pagine 224, 19,50), si stupì molto con Paul Ginsborg che gli aveva dato da leggere i primi capitoli del dattiloscritto della sua Storia d' Italia dal dopoguerra ad oggi: «C' era un vuoto: non si parlava dei socialisti. E Paul: "Non ne parlano perché non c' erano"». La storia del socialismo italiano come un «guscio vuoto». Ecco il frutto della strabiliante amnesia collettiva di cui ha sofferto, e continua a soffrire, la nostra Seconda Repubblica. Il libro di Pellegrino ricostruisce con puntiglio le tessere del mosaico riformista annegate nell' oblio. Non il riformismo antico di Filippo Turati e di Anna Kuliscioff, che pure è ricordato in queste pagine come la sorgente prima, la matrice originaria perduta e rinnegata negli anni del frontismo e della subalternità culturale nei confronti dei comunisti. Ma la rinascita di un orgoglio riformista che politicamente prende fiato e forma con l' ascesa di Craxi ai vertici del Psi, Midas 1976. Negli anni in cui il Pci mieteva il massimo dei suoi consensi elettorali e stuoli di intellettuali sentivano il richiamo irresistibile dell' egemonia culturale esercitata dalle Botteghe Oscure, la cultura socialista ritrovava se stessa e portava un nuovo vento di orgoglio riformista nel cruento «duello a sinistra» descritto da due protagonisti del nuovo corso culturale come Giuliano Amato e Luciano Cafagna. Nascevano associazioni, centri culturali; una rivista come «Mondoperaio» (allora diretta dal giolittiano Federico Coen) prese un posto di primo piano nella discussione ideologica; il Club Turati rendeva ancora più smagliante il suo blasone di voce di un socialismo milanese che aveva nel riformismo la sua bandiera: le glorie antiche della Società Umanitaria, la fierezza del municipalismo, la solidità del pragmatismo meneghino. Nasceranno su quel tronco espressioni vivaci di un rinnovato spirito riformista: dal Club dei club, di cui Pellegrino è stato promotore e forza motrice, all' associazione Politeia. Impossibile menzionare tutti i nomi coinvolti in questa nuova primavera riformista restituita nelle pagine di Pellegrino. Ma non un comparto della cultura fu risparmiato da questa ondata di riflessioni e innovazione: dalle nuove professioni all' informazione, dal cinema all' arte, dall' architettura alle scienze giuridiche, dalla storiografia alla politologia. Era un nuovo lessico che si imponeva nella cultura, come chiusura e ripudio dei plumbei anni Settanta Quella fioritura conobbe però una fine traumatica con l' inabissarsi dell' esperienza politica dei socialisti italiani, a cominciare da quella, anche personale, di Bettino Craxi. Ma questo inaspettato tramonto ne ha messo in luce, necessariamente, anche la fragilità e la debolezza. Tanto che la storia raccontata da Pellegrino finisce per somigliare in qualche passaggio al lavoro certosino dell' archeologo che si china trepidante sui reperti ormai fossilizzati di una civiltà scomparsa. E infatti proprio quando, con la caduta del muro di Berlino, la guerra culturale riformista sembra prendere il sopravvento sulla cultura di derivazione comunista, sempre più esausta, ossificata, senza più nessuna fiducia in se stessa, le convulse vicende politico-giudiziarie segnano un paradosso: la scomparsa dei riformisti e la contestuale vittoria nella sinistra di chi, ingiuriato il riformismo fino a un minuto prima, ha cominciato a farsene all' improvviso interprete e vessillifero (insincero). Al di là delle accuse, dei rimpianti e dei rancori, sarebbe il caso di cominciare a spiegare questo paradosso. Bruno Pellegrino traccia le linee, i volti e le tendenze di una storia vivace, interessante e gloriosa. Per capire perché questa storia non solo abbia subìto una drammatica interruzione, ma addirittura sia stata fagocitata, depotenziandola, dagli ex nemici, si rende necessaria una spiegazione. Oppure, domanda complementare, ci sarebbe da chiedersi perché la cultura di governo, l' attenzione alla modernità, il rifiuto dei pregiudizi ideologici, il gradualismo, il garantismo, il rifiuto dell' autoritarismo, insomma tutto il meglio del riformismo socialista, sia stato così dimenticato nella nuova stagione politica: come dimostra la desolante parabola dei partiti che pure hanno voluto esibire le insegne del riformismo senza però riconoscersi fino in fondo nella sua cultura. Domande che presuppongono la riscoperta di un filone cuturale che ha conosciuto momenti migliori e di cui il libro di Pellegrino è una prima, per fortuna molto dettagliata, ricognizione. Una storia da studiare. Perché il socialismo riformista, malgrado le perplessità di Paul Ginsborg, è esistito davvero. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ Bruno Pellegrino L'ERESIA RIFORMISTA La cultura socialista ai tempi di Craxi di Bruno Pellegrino. Pubblicato da MONDOPERAIO n.4/2010 in anteprima il capitolo introduttivo. «Quando Paul Ginsborg mi diede da leggere il dattiloscritto con i primi capitoli della sua Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi gli dissi che li trovavo molto belli ma che c’era un vuoto: non si parlava dei socialisti. E Paul:‘Non ne parlano perché non c’erano’. Ed io: ‘Come non c’erano? Nel 1946 erano più numerosi dei comunisti e degli azionisti messi insieme’. Ma Paul insistette:‘Non c’erano’. Rimasi un po’ turbato; dal 1947 ero stato con i socialisti, fui persino un loro deputato alla Camera per tre legislature; come si faceva a dire che non c’erano. Molti anni dopo ne parlai con Vittorio Rieser e Carlo Ginzburg. Carlo fu esplicito, per lui il partito socialista era come una scatola vuota, priva di continuità sociale e anche politica, da riempirsi a seconda delle convenienze, una specie di residuato. Io insistevo: per me i socialisti rappresentavano (e potevano ancora rappresentare) un’oasi libertaria nel grande mare collettivista del movimento operaio. Ma Vittorio Rieser negò questa tesi, quel libertarismo era invisibile». In poche, efficaci battute Vittorio Foa ripropone(1) nel 1991 l’accusa mossa ai socialisti di un’identità carente. Il Psi, sostengono i suoi interlocutori, è un «guscio vuoto». Un niente di cui non vale neanche la pena parlare. È proprio così? Questa domanda ne trascina una seconda: se il Psi è uno zero, allora è il Pci a rappresentare l’unico punto di riferimento a sinistra? È lui il «pieno» contrapposto al «vuoto» socialista? Il duello fra i due partiti inizia con la scissione di Livorno, nel 1921, ma riprende in tutta la sua ampiezza dopo l’8 settembre del 1943. Allora, la sfida non era più a due ma a tre: vi prendeva parte anche il Partito d’Azione, che però a seguito d’insuccessi e divisioni decise di sciogliersi Il primo confronto, nel 1946, lo vincono i socialisti: in quella tornata elettorale sono i più forti.Ma dura poco.Aldilà dei voti conquistati, Pietro Nenni e i suoi compagni sono in realtà molto più deboli dei cugini comunisti. Non hanno una forza strutturata, sono divisi e litigiosi. Il Pci oltretutto, può contare su un potente referente internazionale che siede al tavolo dei vincitori della guerra, l’Unione Sovietica. L’Urss esercita in quegli anni una grande capacità attrattiva: l’antifascismo europeo, debole e isolato, ha vissuto la stoica resistenza di Leningrado e di Stalingrado ai tedeschi come un’epopea eroica che ingigantisce il mito del primo stato socialista, rivelatosi il fattore decisivo per la vittoria finale della guerra. Il fascino che promana da Mosca è fortissimo se, come racconta Nina Berberova, in un’assemblea d’intellettuali a Parigi Jean Paul Sartre arriva a proclamare che «non si può più descrivere l’amore e la gelosia senza parlare del proprio atteggiamento nei confronti di Stalingrado». Prima viene l’eroica resistenza, quella prova straordinaria di forza, di compattezza, di spirito di sacrificio, poi segue tutto il resto. Il comunismo occidentale trova nello Stalin vincitore una fonte potente di attrazione. Si può immaginare l’effetto di ciò in un paese sconfitto e a pezzi come l’Italia di allora. Il Pci ha nel rapporto con l’Urss un elemento vincente. Il Psi al contrario non ha referenti internazionali importanti: non l’Urss né tanto meno gli altri grandi trionfatori nel conflitto mondiale, a partire dagli americani con cui i socialisti nemmeno tentano un dialogo. Se le alleanze internazionali favoriscono i comunisti, senza che i socialisti provino a risalire questo punto di debolezza, il Pci riesce a spuntarla anche all’interno del paese. Togliatti, come nota Luciano Cafagna(2), aveva impostato la sua intera battaglia per egemonizzare la sinistra, piantando le tende per una lunga guerra di posizione che i comunisti italiani devono sostenere in partibus infidelium, e cioè in quella parte del mondo finita nella sfera d’influenza anglo-americana. Il nuovo partito togliattiano sa di non poter conquistare il potere in Italia e, in attesa di tempi migliori, cerca di costruire un proprio radicamento forte nella società. Inesorabilmente, la prima vittima di questa guerra di posizione finisce con l’essere l’area politica più vicina e concorrente, quella socialista. Togliatti con abilità porta avanti questa strategia, inaugurata con la svolta di Salerno e coronata col voto sull’articolo sette della Costituzione. In quegli anni è il Pci a condurre il gioco a sinistra, a essere, e ad apparire, il partito più spregiudicato. Nelle elezioni del 1946 il Psi è ancora la prima forza politica della sinistra, ma già nel 1948 l’equilibrio si rovescia. Quel voto, ricordato principalmente per la sconfitta senza appello del fronte popolare, segna anche il sorpasso comunista sui socialisti. Il Pci gode di un terzo vantaggio: è un partito ben organizzato sul territorio, monolitico nell’indirizzo e nel comando, una macchina senza democrazia interna, efficiente ed efficace. Il Psi non riesce a giocare le frecce al suo arco: la grande tradizione prefascista e la sua maggiore democrazia. L’azione di logoramento ai danni del Psi è continua, uno stillicidio incessante. Viene scalzato nell’area emiliana che aveva visto fiori- re le cooperative socialiste e qui cede anche una fetta di finanziamento autonomo. La conquista da parte comunista della supremazia porta con sé una condizione d’insuperabile e permanente impossibilità di vincere per la sinistra italiana: quello che Alberto Ronchey chiamerà il «fattore K». Per anni l’unità d’azione fra i due partiti mostra un rapporto in cui il dominus è quasi sempre il partito di Togliatti. Questo spaventa una larga parte dell’elettorato anche progressista non disponibile ad assecondare l’egemonia del partito diMosca. Per lungo tempo i socialisti non si staccano dal Pci. Anzi Rodolfo Morandi, che ebbe un ruolo di primissimo piano nel partito socialista degli anni Quaranta e Cinquanta, non solo imita il modello organizzativo autoritario dei comunisti, ma stigmatizza i tentativi di espressione autonoma che fanno capolino nella cultura e nella politica socialista. In casa socialista le tensioni fra intellettuali e apparato sono continue, perché anche negli anni della più ferrea egemonia stalinista i socialisti non si appiattiscono mai completamente sul Pci. La cattività babilonese Le responsabilità di quel lungo torpore investono lo stesso Nenni, il leader che solo nel 1957, dopo la tragedia ungherese, al congresso di Venezia affrancherà il Psi dal patto di unità d’azione con i comunisti. Luciano Cafagna(3) ha osservato che «anche quando il partito socialista uscì dalla sua ‘cattività babilonese’ nei confronti dei comunisti non seppe – nemmeno allora – valorizzare a fondo quel che aveva di specifico, e cioè la sua dimensione culturale aperta». Accanto a quanto di sbagliato, d’incompiuto, di sfortunato vi è nel Psi in quegli anni di cattività babilonese, il partito riesce comunque a rappresentare un approdo possibile per quella che legittimamente può essere definita la resistenza socialista. Nonostante il peso della sudditanza e delle sconfitte, per Cafagna «l’eredità spirituale socialista era dura a morire e conservava nonostante tutto una solida consistenza elettorale […] un miracolo e un’anomalia di contro a quella sorta di bipartitismo più perverso che imperfetto, che si viene affermando e che è potenzialmente consociativo». La tenuta socialista segna il profilo culturale e la natura politica aperta di un partito in grado di rappresentare uno spazio agibile per molta parte della sinistra non comunista. Cafagna osserva: «Il Partito socialista, resistendo come partito di massa alla propria malasorte e ai propri errori, divenne l’unica speranza di riorganizzazione indipendente della democrazia italiana. […] È questo il significato di successive convergenze: frange importanti del Partito d’Azione, gli intellettuali comunisti della crisi del 1956, i gruppi cattolici in evoluzione. Quelle convergenze simbolizzano le aspettative per un Psi uscito da una tremenda esperienza critica, depauperato di gran parte del suo passato e tuttavia con un minimo critico di radici indistruttibili». Nell’Italia del Pci e della Dc, due partiti sui quali pesano fortemente i condizionamenti da Mosca per i comunisti, e dalla Chiesa cattolica e dagli Usa per i democristiani, si compie il miracolo di uno spiraglio per la sinistra critica e antidogmatica. Nella casa socialista possono convergere personalità di diversa formazione e di grande spessore intellettuale. Questo tratto distintivo, che rende originale il socialismo italiano post-bellico, non è sufficientemente difeso e valorizzato. Il carattere aperto e problematico della cultura socialista sarà rivendicato con orgoglio solo più avanti nel corso di alcuni convegni che si svolgono quasi a ridosso della svolta del Midas del 1976. Da quelle assise le prime risposte alle critiche degli storici comunisti alla presunta vacuità socialista riferite da Vittorio Foa. I convegni di Milano del dicembre 1975 e di Roma del gennaio 1976 affrontano il rapporto fra i socialisti e la cultura. «L’area culturale socialista è la zona della libertà a sinistra» afferma con nettezza Furio Colombo nel suo intervento(4) «La grande chance del Psi consiste nel non avere confini negativi. In altre parole è un’area politica che si definisce nelle sue battaglie, nelle sue iniziative, nel suo tipo di presenza, nelle sue proposte, nelle sue scelte. Ma si priva di rigorose definizioni perché accetta una certa misura empirica nella ricerca di soluzioni. E si priva anche – ed è la sua grande qualità positiva – di demarcazioni che escludono come una cavia, anatemi che squalificano il dissenso. Come dire che c’è per ragioni naturali nel Psi la più alta tolleranza di differenza e di dissenso che un aggregato politico possa concepire. E questo autorizza a costatare e più ancora a sperare, in quel moto di accostamento […] nell’area del Psi di chi chiede immaginazione e riforme, ma non vuole scavare trincee e alzare muraglie». Luciano Cafagna aggiunge: «Del socialismo se ne parla come di una cosa dal significato pacifico, mentre è, invece, un problema aperto di elaborazione culturale». Sulla stessa linea si muove l’intervento di Roberto Guiducci: «Di fronte alla cultura cattolica, sempre disposta a fuggire nella Città celeste per evitare di rendere umana la Città terrena, e di fronte alla cultura comunista, sempre disposta al trasformismo e alla doppia verità […] e di fronte a quella cultura contestativa che si attarda a credere che, per miracolo dialettico, la Città umana possa uscire semplicemente dalla negazione della Città disumana, è stata e sta la cultura socialista, che non cerca di fuggire o rendere ambigue le proprie possibilità concrete, ma propone una programmazione democratica, cioè che sia la maggioranza della società civile oppressa a esprimere, in forme sempre più dirette, le sue realizzazioni». Gli orizzonti e i confini dello spazio aperto socialista sono esplorati anche da Bettino Craxi, ancora vicesegretario del partito, che usa il bisturi del filosofo polacco Leszec Kolakowski per un brillante gioco di negazioni, elencando soprattutto ciò che non è socialismo(5): «Uno Stato in cui i propri soldati entrano per primi nel territorio di un altro paese; uno Stato che possiede delle colonie e che controlla e opprime altre nazioni; uno Stato che pretende di determinare l’opinione pubblica politica di tutta l’umanità; uno Stato che trasferisce nel suo ambito popolazioni intere da una zona all’altra contro la loro volontà; uno Stato che confonde rivoluzione sociale e aggressione armata; uno Stato che pretende da tutti i cittadini opinioni uguali e imposte in materia di filosofia, storia, politica interna ed estera, economia, letteratura, morale[…]; uno Stato che controlla i cittadini, negando ai cittadini il diritto a controllare lo Stato; uno Stato ove i risultati delle elezioni possono sempre essere sicuramente previsti prima delle elezioni stesse; uno Stato occupato a elogiare la sua opera e a impedire la libera espressione del pensiero dei dissidenti; uno Stato ove i lavoratori non hanno strumenti per influenzare la politica del governo; uno Stato in cui le differenze di trattamento delle diverse categorie sono ancora enormi; uno Stato che fabbrica buoni armamenti e cattive calzature; uno Stato in cui la gente vive in densa coabitazione; uno Stato in cui esistono ancora distinzioni di ordine razziale; uno Stato dove impera la tristezza». In questo lungo catalogo è contenuto più di un tratto distintivo della politica craxiana, la critica ai paesi comunisti, l’aiuto ai dissidenti e una risposta sferzante a quell’accusa di vuoto di contenuti alla cultura e all’azione dei riformisti italiani avanzata con antistorica supponenza e ipocrisia da molti intellettuali comunisti. Dieci inverni Perché per i socialisti la piena consapevolezza del proprio valore e delle proprie ragioni giunge a maturazione così tardi? Quali vincoli avevano impedito l’affermarsi di quest’approccio politico culturale? I socialisti erano rimasti impaniati in un complesso sistema di condizionamenti. Oltre al mito dell’Urss e della rivoluzione d’Ottobre, l’esito della guerra e il peso dei blocchi che ne erano usciti, oltre all’egemonia organizzativa del Pci, gravavano l’organicità e la forza del leninismo, del gramscismo e del togliattismo, e il rilievo imposto dallo stesso Togliatti alla questione meridionale, e l’ottica nazionalpopolare codificata da De Sanctis, Croce, Gramsci. E soprattutto il timore di rompere l’unità d’azione anche nel mondo della cultura. Nonostante ciò, pur muovendosi in modo non lineare, con accelerazioni e brusche frenate, la cultura socialista non cede al pieno conformismo. Maurizio Degl’Innocenti analizza con puntualità(6) quella stagione culturale della sinistra e in particolare di quella socialista. C’erano gli «organismi culturali di massa» in cui gli intellettuali dei due partiti collaboravano, pur con la preponderanza del Pci anche per effetto dello sforzo straordinario di quel partito nell’aggregare gli uomini di cultura. I socialisti non erano pochi né privi d’idee originali né di capacità polemica. In sostanza scrive Degl’Innocenti «non fu la notte o l’inverno che tutto omologava e rendeva privo di vita». Il finire degli anni Quaranta aveva visto a sinistra la ripresa delle attività associative culturali, ricreative e sportive prima sotto le insegne politiche dell’unità antifascista, poi sotto quelle della democrazia progressiva. Era il periodo del Fronte della Gioventù e dell’Unione Italiana Sport Popolare, dell’Unione Donne Italiane, dell’Associazione Pionieri d’Italia. Tra gli organismi culturali di massa il primo e forse il più importante era l’Alleanza per la Difesa della Cultura creata nel febbraio del 1948(7) in funzione della campagna elettorale del Fronte popolare. Così come funzionale era stata l’organizzazione in aprile, su proposta di Emilio Sereni, del Congresso della Cultura Italiana a Palazzo Vecchio(8). L’anno prima, presso la sede della casa editrice Einaudi si erano tenuti i convegni sul sistema educativo che portarono alla creazione dell’Associazione per la Scuola Libera. L’attività diventa frenetica. Nel 1950 nascono il Centro Popolare del Libro, il Cen- tro del Teatro e dello Spettacolo Popolare e l’Associazione Amici del Cinema. Nel gennaio del 1956, prima del terremoto provocato dal Ventesimo Congresso del Pcus, si svolge a Livorno il terzo Congresso della Cultura Popolare, con relazione introduttiva di Norberto Bobbio. Infine, su proposta di Giulio Trevisani viene creato il Centro nazionale per la Diffusione della Cultura. Anche qui collaborano personalità di spicco dell’area comunista, socialista ed ex azionista ma quel progetto e quella collaborazione hanno vita breve. Ormai il vento sta cambiando. Infatti, se fino a poco tempo prima gli intellettuali socialisti avevano convissuto con quelli comunisti in tanti organismi culturali, la parte più vivace e autonoma comincia a incontrare non poche difficoltà non solo con i “cugini ”, ma anche all’interno del proprio partito. Scorrendo le pagine dell’Avanti! e di Mondo Operaio fra il 1950 e il 1953 emerge la pochezza della politica culturale del Psi in quegli anni. Il quotidiano, tradizionalmente luogo di circolazione delle idee, è scaduto a bollettino di comunicati ufficiali e circolari di partito. L’adesione all’ufficialità cominformista e stalinista lo pone accanto, anzi al di sotto dell’Unità. L’allineamento di Mondo Operaio ai contenuti e ai temi degli organi di stampa del Pci e dei vari organismi unitari è totale, soprattutto per quanto riguarda l’Urss. Anche in questo periodo decisamente buio non tutto ristagna. Nel 1951, al convegno degli intellettuali socialisti della Lombardia, Franco Fortini, fra le personalità più vivaci del Psi, autore della drammatica testimonianza sulle degenerazioni staliniste nel Psi nel suo libro Dieci inverni, indirizza strali critici contro la politica dei comunisti e contro il gruppo dirigente morandiano. Di quel convegno Fortini dirà(9) poi cose raggelanti: «Avveniva nella discussione sulla cultura quel che era pratica quotidiana della politica: per i comunisti – e per i dirigenti socialisti assimilati – i socialisti erano compagni finché dicevano di sì, ma cominciavano a non esserlo più quando dicevano di no. Lo spirito di partito diventava lo schermo e l’alibi di quei problemi politici – come ideologici – che impegnavano l’intera classe. E non c’era autorizzazione a procedere verso un’ideologia della pluralità dei partiti proletari ». Le reazioni a quella che lo stesso Fortini considera una provocazione sono di disinteresse o di contrarietà. Morandi non tarda a manifestare la sua ostilità e rivolgendosi, dopo la fine del convegno, ai quadri socialisti locali accusa il poeta scrittore di aver voluto «sottrarre l’elaborazione ideologica del Partito al suo insieme per riservarla al corpo speciale degli intellettuali». Ne segue l’emarginazione di Fortini dalla cultura ufficiale socialista almeno sino alla fine del 1954. Ma il fuoco del dissenso cova sotto la cenere dell’unanimismo stalinista estraneo alla cultura e alla tradizione socialista. «In effetti – annota in proposito Pasquale Amato – così come irriducibili erano le resistenze nella base operaia, altrettanto consistente fu il dissenso di settori intellettuali decisi a restare nell’area socialista ma anche a sottoporre a revisione critica il dogmatismo stalinista e a rifiutare la pratica zdanovista della partitarietà della cultura». Spuntano le prime, piccole riviste dove quest’orientamento si va esprimendo: La Verità diretta da Delfino Insolera e edita a Milano, che si chiama così in contrapposizione alla falsità della Pravda staliniana; e il foglio semiclandestino La Cittadella di Bergamo diretto da Salvo Parigi. Collaboratori assidui di questi organi di stampa con diffusione inevitabilmente limitata sono intellettuali socialisti di spessore(10) che pongono al centro della loro ricerca il recupero di alcuni filoni del marxismo quali i Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’approfondimento dell’economia politica keynesiana, l’introduzione trasgressiva della sociologia, della psicanalisi, della psicologia. Il recupero di parti del marxismo non ufficiali perché non consone al leninismo, e il riconoscimento di nuove discipline scientifiche rappresentano scelte di rottura verso l’ortodossia marxista- leninista vigente e persino verso un certo conservatorismo cattolico che non vede di buon occhio la psicanalisi. Nonostante l’ostilità degli apparati e il clima di guerra fredda trionfante, intorno a Roberto Guiducci si aggrega un gruppo d’innovatori che lavora intensamente dal 1949. L’entusiasmo e la voglia di nuovi percorsi di ricerca si scontrano con grandi difficoltà pratiche: la rivista Discussioni esce ciclostilata. Mentre al Nord si vanno organizzando questi gruppi di avanguardia, al Sud nasce l’esperienza di Rocco Scotellaro, sindaco poeta che intraprende lo studio di figure contadine geniali e abnormi non riconducibili ad alcuna ortodossia. Ci sono poi gruppi non legati direttamente al Psi che coltivano comunque idee socialiste e liberali: i sodalizi intellettuali e politici di Critica Sociale, de Il Ponte di Calamandrei, dei redattori e collaboratori di Comunità di Adriano Olivetti. Un’area ampia ha come punto di riferimento Il Mondo di Pannunzio che denuncia «lo strapotere democristiano e confindustriale, il dogmatismo comunista, la clericalizzazione dello Stato e […] gli intrallazzi». Il Mondo conta su un gruppo di collaboratori di notevole qualità(11). Vi scrive anche Gaetano Salvemini, parlando del «suo socialismo» come «apparentato» con quello di Jaures, dei riformisti italiani alla Turati, alla Bissolati, alla Battisti piuttosto che con quello «degli arcivescovi, vescovi, parroci e sacrestani della chiesa stalinista». L’apparato del Psi non è particolarmente attento a queste posizioni che trovano ascolto solo in Riccardo Lombardi e Fernando Santi. La considerazione mostrata da Pietro Nenni non è sufficiente a legare al Psi quest’area composita e battagliera. Nel partito è ancora molto forte la componente che difende in modo tetragono la politica di unità col Pci, una linea in piena rotta di collisione con l’ispirazione salveminiana, laica e socialdemocratica. Va detto con chiarezza: il vertice dominante del partito socialista, almeno sino al 1956, lavora per il radicamento fra i suoi intellettuali del marxismo leninismo e per diffondere il mito della rivoluzione bolscevica. Ogni anno la ricorrenza dell’Ottobre rosso è celebrata con enfasi, si scrivono pagine di ossequio verso «il genio di Lenin», Mosca è definita la «ville lumiére». In quest’opera si distinguono Rodolfo Morandi e Lelio Basso, ma non solo. Anche Nenni paga più volte il suo tributo all’ortodossia sino a scrivere(12) in morte di Giuseppe Stalin: «La Direzione del Psi inchina le proprie bandiere [...] davanti alla salma del costruttore dello Stato sovietico, dell’amico dei lavoratori di tutto il mondo, del difensore e garante della pace». Bosio e “Movimento operaio” Eppure i fermenti critici non risparmiano nemmeno l’entourage dei dirigenti monolitici. Un giovane collaboratore di Lelio Basso, Gianni Bosio nel 1949 fonda Movimento operaio. La rivista avanza proposte strategiche quali la democrazia di base e il socialismo libertario, capaci di andare oltre la tradizione socialista e quella comunista. Dopo i primi due numeri, usciti dattiloscritti, suscita l’attenzione degli intellettuali socialisti e di area. Piacciono il suo rigore filologico e l’approccio critico. Nonostante l’esiguità dei mezzi, il successo è immediato e la rivista si guadagna la stima di Gaetano Salvemini che aveva iniziato, fin dal periodo fascista, una ricerca attenta e meticolosa sulle origini del movimento socialista italiano. Inevitabile che si accendano anche forti diffidenze. Proprio la capacità di aggregazione nelle università e fra gli intellettuali anche non socialisti rende sempre più forte il fastidio dell’ortodossia marxista-leninista e del Pci contro l’esperienza di Movimento operaio. Cominciano le polemiche condotte con asprezza da numerosi intellettuali comunisti, e anche da socialisti ortodossi. Ad accendere la miccia nel 1951 è la rivista Emilia, diretta da Renato Zangheri, subito seguita dall’intera stampa ufficiale del Pci e da quella fiancheggiatrice delle organizzazioni unitarie. Partono le distinzioni fra piccola storia e grande storia, fra cronaca e sintesi, fra subalternità ed egemonia. Dopo una prima ondata di polemiche condotte spaccando il capello in quattro ma conservando un certo stile, ne segue una seconda ben più dura e capziosa. La rivista è accusata apertamente di «erudizione», di «filologismo» e alla fine di «corporativismo», critiche che sono lo schermo per nascondere le vere ragioni dell’ostilità per Bosio e la sua iniziativa. Quello che il Pci e i socialisti «unitari» non sopportano è la volontà di approfondire in chiave storica le diversità, le specificità del movimento socialista, anche indagandone gli errori. La filologia, così come la storia locale, sono gli strumenti per raggiungere questo fine e restituire identità e capacità autonoma al Psi. È questo il tentativo da osteggiare fino a eliminarlo. Dopo successive ondate di accuse, su richiesta del Pci Giangiacomo Feltrinelli, che ne è l’editore, estromette Bosio da Movimento Operaio. I fermenti revisionisti del marxismo in senso consiliare, oltre che da Bosio sono sviluppati da Raniero Panzieri, combinandosi in una prima, anche se contraddittoria, riscoperta della tradizione socialista. La riflessione trova spazio nel partito al Congresso del 1952, che cade nel sessantesimo anniversario della fondazione. Sull’Avanti! in vista di quell’appuntamento esce un contributo collegiale sotto il titolo Sessant’anni di lotte per la Repubblica dal Risorgimento al Socialismo che tende a stabilire una continuità fra risorgimento e socialismo soprattutto attraverso la figura di Garibaldi, e poi quelle di Pisacane, di Cattaneo e di Ferrari. Un ruolo fondamentale è assegnato ai martiri socialisti dell’antifascismo: Buozzi e Matteotti. Si va così costruendo una sorta di pantheon di riferimento, mentre il sessantesimo anniversario segna una forte mobilitazione di massa sfociata in una imponente manifestazione a Genova. Nell’insieme, sottolinea Degl’Innocenti(13), la celebrazione della ricorrenza rappresenta «la prima vera grande manifestazione di autonomismo». Cominciano a riprendere corpo la vocazione libertaria e quella autonomista del socialismo italiano, entrambe preservate dall’appiattimento sull’Urss e sul Pci. È in questo contesto che nel 1953 rinascono le Edizioni Avanti! e il protagonista è di nuovo Gianni Bosio. L’avvio è difficile ma il ruolo dell’iniziativa cresce col tempo a partire dal 1957. Le Edizioni Avanti! danno alle stampe inchieste e analisi che segnano quegli anni, come quella di Giorgio Bocca sul boom economico e quella di Aris Accornero sulla Fiat. Comincia a comporsi un quadro dei filoni culturali interni al Psi che, numerosi e variegati, non coincidono con la componente ortodossa. È una realtà complessa e ricca di stratificazioni. Si può partire dal nucleo liberale legato in larga misura all’innesto di una parte importante dell’azionismo. Giuseppe Petronio, esponente del Partito d’azione, chiosa: «I socialisti sono eredi del liberalismo, ma introducendo in esso l’aspetto sociale». Nonostante la rilevanza di questa tradizione e il fatto che gli azionisti siano entrati nelle file socialiste portando come riferimento la figura di Carlo Rosselli, è soltanto dopo il 1957 che il martire antifascista e teorico del liberalsocialismo entra a pieno diritto nel pantheon del partito. «La confluenza della maggioranza del Partito d’Azione non fu sufficiente a frenare l’involuzione massimalista del Psi» annota Paolo Vittorelli(14) a dimostrazione che la componente azionista, pur assicurando molti dirigenti al Psi, incontra serie difficoltà di attecchimento nel tessuto complessivo del partito. Nell’insieme comunque, quello azionista resta il tentativo più generoso – e perdente – di correggere la soggezione socialista verso il Pci. Le riforme di struttura Tutt’altro capitolo è quello che riguarda il socialismo di sinistra, molto presente nei paesi dell’Est, che ha un peso anche in Italia e si muove su due linee guida: pacifismo in chiave rigorosamente filosovietica e politica di unità di classe. «In questo quadro – scrive Degl’Innocenti(15) – un rilievo peculiare aveva in Italia il richiamo alle riforme di struttura inserito in un’ottica pianificatrice, dove il mito dell’esperienza realizzatrice del potere sovietico e poi della ‘democrazia progressiva’ dei paesi dell’Est europeo svolse un’influenza tutt’altro che marginale, ora sovrapponendosi ora contrapponendosi, comunque sempre convivendo con le tematiche relative all’interventismo statale occidentale, specificamente keynesiano ». All’interno del Psi il socialismo di sinistra, che coinvolge personalità diverse, intende accreditarsi come un movimento d’idee che, rapportandosi criticamente sia con il comunismo sia con la socialdemocrazia, cerca di realizzare una sorta di terza via. Di particolare interesse è il dibattito sulla strategia economica che si sviluppa nel 1947 fra Rodolfo Morandi, Riccardo Lombardi e Vittorio Foa. Il confronto ruota intorno alle riforme di struttura, all’industrialismo morandiano, all’importanza per Lombardi degli investimenti esteri e all’insistenza di Foa sulla politica monetaria. C’è in questi apporti un’origina- lità notevole e la discussione sulle riforme di struttura finisce col coinvolgere anche i comunisti. A questi contributi dopo il 1957 si aggiungono quelli di Antonio Giolitti che, abbandonato il Pci dopo la tragedia ungherese, è entrato nel Psi. A Giolitti e al suo gruppo si deve un forte impulso al revisionismo socialista e nuove elaborazioni per il governo dell’economia. Oltre ai giolittiani in senso stretto, dopo l’Ottavo Congresso del Pci nel dicembre 1956 si stacca un’altra consistente costola comunista rappresentata da coloro che avevano firmato il Manifesto contro la repressione sovietica in Ungheria( 16). Molti dei firmatari entrano nel Psi, altri diventano simpatizzanti, altri ancora contribuiscono a infittire la schiera dei cosiddetti cani sciolti. La casa socialista costituisce anche per loro uno spazio agibile, mentre le porte del Pci si chiudono definitivamente alle loro spalle nell’ortodossia stalinista. Complessivamente dalla Liberazione e sino alla seconda metà degli anni Cinquanta anche nei periodi di conformismo imperante a sinistra il Psi riesce a difendere la sua natura di organizzazione aperta, di complesso mosaico in cui riescono a convivere accanto alle idee e apparati conservatori una vivace ricerca culturale e posizioni politiche originali e autonome. Un mondo variegato non sempre in grado di dispiegare compiutamente la propria creatività, dove gli slanci di autonomia cozzano sovente contro la subalternità al Pci della componente maggioritaria del partito. I comunisti, dal canto loro, non trascurano nulla per tenere sotto controllo i cugini socialisti e per ridurre gli spazi di elaborazione e dibattito. Si deve a Giampiero Mughini una raccolta di testi, scritti fra il 1955 e il 1962, che ne tratteggiano le caratteristiche culturali( 17). Nella prefazione titolata «La cultura domanda la parola » Mughini rende conto d’intellettuali e riviste che avevano animato la discussione descrivendo quel movimento in questi termini(18): «Non appena si spegne l’eco delle mitragliatrici di Budapest, la società civile presenta in Italia il conto alla politica, cioè all’ideologia, cioè alla promessa escatologica. Che non è stata mantenuta. A presentare i conti nell’Italia della metà degli anni Cinquanta sono gli umanisti. Perché essere intellettuali, in quell’epoca voleva dire fare di professione lo studioso di letteratura o il filosofo, scrivere romanzi (vedi il dibattito sul Metello) o girare film. È un fiorire di riviste, d’iniziative decentralizzate. AMilano, Roma, Bologna, comunisti e socialisti discutono, stendono verbali, programmano linee di ricerca, scrivono. Tutto è rimesso in discussione, dall’estetica al Risorgimento, dall’egemonia della lingua sul dialetto al neorealismo letterario e cinematografico». L’antesignana di questo movimento è la rivista milanese Ragionamenti del 1955, poi Officina di Roberto Roversi, quindi Città aperta di Tommaso Chiaretti, ancora Opinione a Bologna e a Roma Passato e Presente di Giolitti e Carlo Ripa di Meana. Oltre alla mappa dei luoghi del dibattito revisionista, Mughini chiama in ballo le personalità di Lombardi, Foa e Panzieri ed elenca alcuni dei libri più importanti dell’epoca. Riferisce anche dello scontro fra i revisionisti più pugnaci quali Fortini, Guiducci, Giulio Preti e gli ortodossi come Cesare Cases e i teorizzatori della capacità totalizzante del marxismo. Proprio alla presentazione del libro di GiampieroMughini, nel dicembre 1975, il vicesegretario Bettino Craxi parlerà del periodo che va dal 1955 al 1962 come del momento in cui nasce un revisionismo socialista teso a stabilire una nuova analisi del nesso fra socialismo e libertà. Craxi spiega in modo chiaro(19) l’esito politico che l’apertura di quella discussione aveva provocato nel suo partito: «La critica socialista contro il socialismo autoritario e degenerato trovò difficoltà a conciliarsi con una posizione comunista che, pur avendo spunti interessanti nel suo dibattito interno, fu sostanzialmente caratterizzata dall’approvazione dell’intervento sovietico in Ungheria. Togliatti parlò di errori, persecuzioni e repressioni ingiustificate, ma restavano inconciliabili una critica socialista che voleva andare a fondo della questione e una posizione comunista che su questo terreno era assai più rispettosa della solidarietà di principio con l’insieme del campo comunista». Craxi stabilisce un nesso stretto fra revisionismo socialista e ingresso del Psi nel primo governo di centrosinistra. Gerardo Chiaromonte, che pure era uno dei dirigenti del Pci più incline al dialogo col Psi, gli risponde(20) contestando quella scelta: «Ecco la debolezza iniziale, congenita del centro-sinistra: pensare a una qualsiasi azione di rinnovamento di questo Stato, senza puntare all’unità delle forze democratiche, delle forze di sinistra, anzi operando in una logica che era, oggettivamente, una logica di divisione». Chiaromonte individua nel congresso socialista di Venezia, quello dopo i fatti d’Ungheria, il punto di rottura fra Pci e Psi: «In quella sede tutti i leader socialisti furono unanimi in quest’attacco contro di noi. Ricordo un dirigente di rilievo dire che si trattava addirittura di salvare i quadri comunisti dal naufragio del movimento comunista. Quel compagno si chiamava Riccardo Lombardi». Lo scambio polemico tra Craxi e Chiaromonte testimonia l’acutezza dello scontro fra i due partiti, proprio mentre il Pci toccava elettoralmente il suo massimo storico. Chiaramonte si lamenta nel 1975 delle espressioni usate vent’anni prima da Riccardo Lombardi, nonostante che già dal 1957, con il congresso di Venezia, il Psi si sia proposto e affermato come l’unico spazio agibile di libertà a sinistra. Quanto la ricerca e il bisogno di tale spazio siano diffusi dopo i fatti di Ungheria lo conferma un appello d’intellettuali e di uomini della Resistenza uscito su Il Punto alla vigilia del congresso di Venezia. Premesso che «tutto il mondo operaio è oggi in crisi», una crisi «direttamente connessa a quella del mondo comunista», i firmatari affermano che «oggi vi è un problema centrale, che preme su tutti gli altri, ha carattere d’urgenza e interessa l’intera sinistra italiana: il problema della riorganizzazione in forme nuove della sinistra, che ripudi ogni tipo di dittatura, di classe o di partito, e che sia assolutamente indipendente da ogni politica di potenza». L’appello sostiene che «la via dell’unificazione socialista era stata accolta con entusiasmo perché era apparsa lo strumento più adatto a tale evoluzione» e che a «tutti coloro, uomini o partiti, che si muovono in questa direzione, devono andare la solidarietà e il concorso dei socialisti e dei democratici di buona volontà». Questo testo è sottoscritto da centinaia di personalità di grande caratura, molti senza tessera, e molti intellettuali che avevano abbandonato il Pci(21). L’aspirazione all’unità segna per anni la vita del socialismo italiano raccogliendo sempre il sostegno della cultura progressista. L’attesa e la speranza tornano a riaccendersi nel 1966 in vista dell’unificazione tra socialisti e socialdemocratici. Anche in questo caso la mobilitazione degli intellettuali è ampia e sincera. Ancora un appello, ancora una volta il gruppo è folto e di grande qualità(22), a sottolineare il bisogno di un contenitore di diversità, di un luogo politico che sappia riconoscere la libertà e l’individualità, il sogno dell’eresia riformista.(23) V.TUTTE LE NOTE SU MONDOPERAIO 4/2010 @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ Preghiamo gentilmente i nostri lettori di scrivere una e-mail al mittente con il semplice oggetto "CANCELLAMI" se le nostre "info" risultano indesiderate. Grazie per la cortese paziente attenzione torna in alto |