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Atei, Bavagli, Carrozzoni?
30.7.2010

INFO SOCIALISTA 30 LUGLIO 2010
a cura di n.zoller@trentinoweb.it tel. 338-2422592
Trento/Bolzano:www.socialistitrentini.it /www.socialisti.bz.it Quindicinale - Anno VII
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o Un libro per cominciare:“Atei o credenti?” di Paolo Flores d’Arcais – Michel Onfray - Gianni Vattimo.
Recensione di Nicola Zoller pubblicata sul n.6/2010 di MONDOPERAIO,pp.88/90

o Legge bavaglio:NO ALLE CONDANNE PREVENTIVE -di Nicola Canestrini.Giornale l'ADIGE del 17/7/2010, pp. 1 e 55

o Comunità di Valle:UNITI PER EVITARE ALTRE SCATOLE VUOTE -di Alessandro Pietracci.Giornale TRENTINO del 30/7/2010 pp. 1 e 50
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Un SAGGIO per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges)

o Autori: Paolo Flores d’Arcais – Michel Onfray - Gianni Vattimo
o Titolo: “Atei o credenti?”
- Fazi ed., Roma, p. 173, € 15,00

Recensione pubblicata sul n.6/2010 di MONDOPERAIO,rivista socialista fondata da Pietro Nenni, pp.88/90

E’ assai problematico riassumere il confronto che tre filosofi - Paolo Flores d’Arcais, Michel Onfray e Gianni Vattimo – hanno svolto sul tema riferito dal titolo del libro “Atei o credenti?” edito da Fazi. Proverò dunque ad assemblare – secondo la mia sensibilità partigiana - vari passaggi, sperando di dare comunque un senso alla ricognizione proposta.
Secondo il magistero di Paolo Flores d’Arcais gli atei possono riassumere così il loro pensiero: 1) Siamo in grado di affermare apertamente che Dio e l’immortalità dell’anima non esistono. 2) Sappiamo chi siamo: delle scimmie appena modificate, benché questo “appena” abbia aperto l’animale-uomo a possibilità sconvolgenti. 3) Sappiamo da dove veniamo: da un inizio che chiamiamo Big Bang e da uno svolgersi ricostruito con sempre maggior precisione dalla scienza, senza alcun bisogno di far intervenire l’ipotesi–creazione da parte di una ipotesi-Dio. 4) E sappiamo dove andiamo: da nessuna parte, poiché nessun destino è già iscritto nel nostro futuro; il futuro umano è tale perché in-prevedibile, in-certo, in-determinato.
Continua a spiegare Michel Onfray: il vero ateo non è Sade che insulta Dio e che, per fare ciò, ha bisogno di lui per poterlo insultare, ma colui che dice “Dio esiste, certo, ma ciò che voi chiamate Dio è una finzione costruita a partire dalle vostre impotenze”. Gli uomini non possono tutto, Dio può tutto; gli uomini non sanno tutto, Dio è onnisciente; gli uomini non possono essere dappertutto nello stesso tempo, Dio è ubiquo; noi siamo nati, Dio non è nato; noi moriremo, Dio non muore mai. Prendiamo l’uomo, vediamo la sua finitezza, constatiamo le sue impotenze e a partire da queste finitezze rovesciamo l’impotenza per costruire una potenza (fittizia) che permette di ottenere la sicurezza e la pace intellettuale; poi ci mettiamo in ginocchio davanti a questa figura che chiamiamo Dio e gli chiediamo aiuto per vivere: Dio è la trasfigurazione delle nostre impotenze davanti a cui ci inginocchiamo.Incalza inevitabilmente Flores d’Arcais: c’è incompatibilità tra gli attributi tradizionali di Dio, l’onnipotenza da una parte e l’infinita bontà e giustizia dall’altra: Dio non può essere allo stesso tempo onnipotente e infinitamente buono e giusto. Il male nel mondo è un fatto irrefutabile: un Dio infinitamente buono con la sua onnipotenza non lo consentirebbe; poiché lo consente – il male c’è – o non è onnipotente o non è infinitamente buono. Tanto un Dio impotente quanto un Dio niente affatto “clemente e misericordioso” è incompatibile sia con la tradizione giudaico-cristiana che con quella islamica.
Ora, le tre grandi religioni monoteiste hanno pervaso via via l’agire umano partendo da ben più di due millenni orsono. Ma c’è un grado di invadenza diversa. La prima di esse in ordine di tempo, la religione ebraica è nazionale e locale; gli ebrei – spiega Onfray - non praticano un proselitismo che miri alla conversione universale: essi difendono una terra che si pretende legittimata da un dono di Dio al suo popolo eletto. In nome di ciò, e dunque in virtù di principi teocratici, legittimano il massacro dei palestinesi. Eppure la limitazione geografica di questa intolleranza non genera nessun problema diretto sul resto del pianeta. Nessun ebreo ha voglia di dire che bisogna diventare ebrei, perché si tratta di una religione razziale nel senso originario del termine: è il sangue che la trasmette attraverso la madre. Questa logica impedisce la conversione e l’ebraismo non tende al proselitismo, mentre è il proselitismo che uccide. Quindi è una religione molto meno pericolosa per il pianeta degli altri due monoteismi.
Molto più pericolosa si è rivelata la religione cristiana distintasi per invasività tra crociate, teocrazia, guerre di religione ed è stato necessario l’Illuminismo “per ridurre la disuguaglianza prodotta da mille anni di cristianità”. Tuttavia – ammette Onfray – il testo sacro dei cristiani, la Bibbia, viene scritta nel corso di dieci secoli e da moltissime mani, e dal testo si può prelevare il meglio (l’amore del prossimo) e il peggio (la legge del taglione). E’ un libro molto più complesso del Corano, che è invece più breve e sintetico, dunque soggetto a minori contraddizioni. Onfray non crede che ci sia un islam buono, pacifico e un islam cattivo, traviato perché la questione di un islam antidemocratico è strutturale e non congiunturale. Se leggiamo per davvero il Corano o la biografia del Profeta troviamo numerose prescrizioni etiche e politiche incompatibili con la versione edulcorata di un islam religione di pace, di amore e di tolleranza. Libertà e uguaglianza non sono valori esaltati dall’islam, che insegna invece l’opposto: sottomissione, disuguaglianza e umma (comunità). Musulmano significa “colui che è sottomesso”: il libero arbitrio è negato e tutti devono obbedire ciecamente a ciò che deve accadere: inshallah. Non c’è libertà, quel che succede è sempre la decisione di Dio. Non c’è uguaglianza fra gli uomini: a differenza del primo cristianesimo secondo cui davanti a Dio siamo tutti uguali, per l’islam c’è da una parte la umma, la comunità dei musulmani, e dall’altra quelli che non vi appartengono. Ed esistono regole – come non uccidere – che riguardano i membri della comunità, ma non valgono al di fuori di essa.
Ecco perché anche per Flores d’Arcais non è possibile cedere ad un “multiculturalismo” che in nome dell’eguale dignità delle culture, sopprime l’uguale dignità degli individui. L’immigrazione musulmana attuale è influenzata da un’ideologia identitaria nutrita di valori tradizionali - dogmatismo religioso, maschilismo tribale, assoggettamento della donna, persecuzione dei “diversi” - incompatibili con la democrazia e l’autonomia individuale. E non ci sarà seria possibilità di “assimilazione” dei musulmani nelle società democratiche se non verrà da questi accettata (non solo dai fondamentalisti, ma anche dai supposti “moderati”) la separazione tra politica e religione con l’abbandono delle supremazie tradizionali dell’uomo sulla donna, dei genitori sui figli, della verità religiosa sulla libera opinione.
Esiste davvero un conflitto di civiltà e le democrazie repubblicane non possono accettare ciò che le distrugge. Gianni Vattimo è stato il garbato interlocutore filosofico dei due colleghi - atei impenitenti - per tutto il confronto, riassunto poi nel libro qui considerato. Eppure si prende – e gli va data volentieri - una parola quasi finale per “l’attesa” che prefigura. Egli riducendo il suo cristianesimo alla carità e alla fede nell’immortalità dell’anima, spera che un cristianesimo meno “religioso possibile” possa “diffondersi” – come la civiltà democratica occidentale - nel mondo. Per ciò è disposto a ridurre ancor di più - solo “all’osso della carità” - la sua religione, augurandosi che dall’Occidente possa contagiare tutte le altre. Occidentalizzare il mondo dunque, ma secondo una mite versione “europea” – distinta e distante dallo sfrenato Far West americano - che divulghi l’Occidente come terra dell’occaso, del tramonto, della “riduzione” oltre che della potenza anche del dogmatismo e della disciplina.
Nicola Zoller

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Legge bavaglio:
NO ALLE CONDANNE PREVENTIVE -di Nicola Canestrini

giornale l'ADIGE del 17/7/2010 da pag.1, poi a pag.55


Nel clima estivo, infuocato anche politicamente, vale la pena tentare di fare una riflessione (personale e di parte) sul tema caldissimo della cosiddetta
legge bavaglio e della correlata riforma sulle intercettazioni.È doveroso premettere che non esiste ancora una versione definitiva del disegno di legge, e dunque a oggi nulla è cambiato.Si tratta di una iniziativa fortissimamente voluta da «Cesare» (come, grazie alla libertà di informazione, si apprende il Presidente del Consiglio venisse appellato da certi signori non troppo raccomandabili), ispirata dalla necessità di assicurare impunità ai potenti, limitando i poteri di indagine di polizia e magistratura nel disporre le intercettazioni telefoniche e limitando la diffusione di notizie sul loro conto (e sui loro conti?). Iniziativa deleteria: la magistratura deve poter indagare anche mediante le intercettazioni. E i giornalisti devono poter scrivere, protetti dal diritto di cronaca sancito dalla pietra angolare del sistema democratico, cioè il diritto di libera manifestazione del pensiero. Si tratta di principi connaturati allo stato di diritto, caratterizzato dalla separazione tra poteri, con controllo dell’opinione pubblica sull’esercizio del potere per l’insostituibile tramite dei mezzi di informazione.

Ciò detto e ribadito a scanso di equivoci, è inutile negare che vi siano storture che purtroppo rischiano di dare consenso a Cesare.Mi riferisco alla pratica delle forze di polizia di fare conferenze stampa a senso unico a manette ancora calde, presentando ipotesi investigative come se fossero sentenze definitive, fornendo particolari e foto degli arrestati anche quando sono coinvolti minorenni, senza alcun contraddittorio con le difese, che nella migliore delle ipotesi vengono interpellati nei giorni successivi, dovendo affrontare una opinione pubblica prevenuta, e senza aver nemmeno visto tutti gli atti; dette notizie sono purtroppo troppo spesso recepite acriticamente da parte degli operatori dell’informazione, ridotti a megafoni della ipotesi investigativa, senza che i giornalisti esercitino alcun controllo critico delle affermazioni. La sentenza, specie se ridimensiona i fatti o addirittura assolutoria, non farà notizia come la proclamazione urbi et orbi degli arresti: chi in paese dimenticherà la foto del nipote, o del vicino di casa, presentato dai media come spacciatore perché coltivava alcune piantine di cannabis sul balcone?
Il malcostume delle conferenze stampa a senso unico stride ancora di più con i nostri principi quando gli stessi articoli elogiativi vengono poi raccolti e diffusi a mo’ di trofeo anche in attività pubblicitarie della polizia giudiziaria (penso ad esempio all’opuscolo del 158 anniversario della fondazione della Polizia, «Un anno di attività, Questura di Trento» che giace nei corridoio degli enti pubblici).E dunque pare legittimo il sospetto per il quale le conferenze stampa a senso unico, purtroppo tollerate da chi possiede ben altra sensibilità giuridica e deontologica, non siano fatte per (dubbie) necessità di «prevenzione generale» ma per meri fini pubblicitari, a danno dei diritti fondamentali delle persone, in primis il diritto a non essere giudicati in «anteprima» (per usare un termine che abbassa la giustizia ad uno spettacolo cinematografico) dai e per il tramite dei mezzi di informazione.Il punto è che i rapporti fra giustizia ed informazione necessitano di un ragionevole bilanciamento di valori. Il processo è infatti un insieme molto complesso e molto sofisticato, caratterizzato da precise regole che l’azione indiscriminata dei mezzi di informazione sovente fa andare in frantumi. La fase investigativa, quella che culmina nelle conferenze stampa «spettacolo», è appunto solo una fase del processo, che solo cronologicamente precede le altre fasi: non è affatto la più importante delle fasi processuali. È il dibattimento il luogo della formazione della prova, il momento del convincimento del giudice, è il dibattimento il luogo del contraddittorio, delle deposizioni dei testi che dovranno rispondere ad entrambe le parti processuali, è il dibattimento che con la sua pubblicità garantisce un processo equo. La fase investigativa deve poter ipotizzare, supporre, insinuare: ma solo se tali sospetti, illazioni, supposizioni reggeranno il vaglio del processo si formerà la verità processuale.Ma i tempi della giustizia sono lunghi, e dunque la resa giornalistica dell’arresto è maggiore di quella della sentenza, che interviene a distanza di tempo rispetto al fatto reato.È stato efficacemente scritto che più il processo si dilata cronologicamente e più il principio della presunzione di innocenza, che trova altissimo fondamento nell’articolo 27/2 della Costituzione, tende fatalmente a sbiadire nella coscienza collettiva, influenzata da «sentenze di colpevolezza giornalistiche», alimentate da ipotesi investigative presentate come accertamento definitivo, con linguaggio poco sorvegliato e dunque percepite dalla collettività in chiave negativa, di stigmatizzazione sociale, lasciando spazio ad anticipati giudizi di reità, i quali si ripercuotono a loro volta sulla vicenda giudiziaria. Nel processo virtuale condotto sui mezzi di informazione, l’accusato è costretto a discolparsi se vuole contrastare la deriva giustizialista. In dubio contra reum, dunque. A nulla sono valse le normative costituzionali o internazionali: si pensi all’articolo 111 della Costituzione che sancisce il diritto ad essere informati «riservatamente» dei motivi dell’accusa, ma anche alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che già nel 1995 statuì come l’attività dei mezzi di informazione debba essere svolta «con tutta la discrezione e con tutto il riserbo imposti dalla presunzione di innocenza»; del resto, nel 2003 il Consiglio d’Europa emanava una raccomandazione in tema di diffusione di notizie relative a procedimenti penali, stabilendo che tali notizie possono essere diffuse solo se le stesse non rechino pregiudizio alla presunzione di innocenza, imponendo alle forze di polizia di fornire solo «informazioni verificate» o «basate su assunti ragionevoli».Il diritto dovere di giudicare è dei giudici, non degli operatori di polizia giudiziaria, non dei giornalisti: se tutti gli attori di questo complesso meccanismo chiamato giustizia, in cui certamente anche l’opinione pubblica ha una sua importanza correlata all’interesse pubblico della notizia, si attenessero ai loro compiti, il risultato sarebbe un processo più giusto. Con buona pace di Cesare.

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Comunità di Valle:UNITI PER EVITARE ALTRE SCATOLE VUOTE -di Alessandro Pietracci

giornale TRENTINO del 30/7/2010 pp. 1 e 50

Tra poche settimane, alla ripresa dell’attività autunnale, la politica trentina si troverà di fronte ad un appuntamento di un certo rilievo quale quello dell’elezione delle Comunità di valle. La proposta del Pdl di spostare la data prevista per ottobre non sembra trovare consensi e, in effetti, la soluzione migliore sarebbe stata quella di abbinare questa tornata con le elezioni comunali della primavera scorsa.
Al di là della data, la questione vera a nostro giudizio è un’altra e riguarda il “cuore” del problema istituzionale del Trentino, vale a dire l’interrogativo se sarà possibile con il varo concreto delle Comunità aprire una nuova fase costituente per questi organismi intermedi, dopo la pluridecennale e deludente esperienza dei Comprensori, per operare finalmente quel decentramento di funzioni verso il basso del potere provinciale e per introdurre forti elementi di semplificazione nei sin troppo complessi e soffocanti meccanismi procedurali e burocratici – soprattutto per i singoli cittadini - della dimensione pubblica della nostra autonomia. L’unico modo per evitare il ripetersi dell’esperienza del vecchio Comprensorio e della costruzione di nuovi mostri/carrozzoni burocratici, utili solo per soddisfare le esigenze delle terze o quarte linee della politica, resta quello di mettere i nuovi enti nella condizione di poter realmente svolgere, da subito, funzioni diverse da quelle svolte da Provincia e Comuni. Solo così queste nuove realtà potranno essere percepite e praticate dai cittadini quali enti utili che semplificano invece che complicare il rapporto oggi tanto difficile con le istituzioni.Ma questo appuntamento elettorale può rappresentare anche un’occasione per una sorta di verifica sui rapporti tra le forze politiche, soprattutto quelle che si riconoscono, tra alti e bassi e tra non pochi distinguo, nella coalizione del centro sinistra autonomista. Lo scenario che si profila dai primi passi non sembra davvero dei più incoraggianti, visto che sembrano riemergere, da un lato la tentazione dei partiti più forti – Pd e Upt – di “fare cappotto” utilizzando i meccanismi elettorali che in effetti finiscono per premiare – e di molto – i partiti più grandi e, dall’altro di innescare per converso sterili atteggiamenti di ritorsione nelle forze cosiddette “minori” che finirebbero per tradursi in corse solitarie destinate ad un probabile insuccesso.I socialisti trentini rivolgono quindi un appello a tutte le componenti del centro sinistra autonomista ad operare uno scatto di generosità, privilegiando nell’agenda e nelle scelte politiche le opzioni che uniscono rispetto a quelle che dividono, con l’obiettivo di dare vita, ovunque possibile, a “liste di coalizione” che contribuiscano a rappresentare la ricchezza e l’articolazione del centro sinistra e a rafforzare nell’opinione pubblica la percezione di una comune e salda identità programmatica.


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Preghiamo gentilmente i nostri lettori di scrivere una e-mail a n.zoller@trentinoweb.it con il semplice oggetto "CANCELLAMI" se le nostre "info" risultano indesiderate. Grazie per la cortese paziente attenzione



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