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Napoleone,Giolitti,Craxi contraddittori
10.3.10

INFO SOCIALISTA 10 marzo 2010
a cura di n.zoller@trentinoweb.it tel. 338-2422592
Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it / www.socialisti.bz.it
Quindicinale - Anno VII
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o Un saggio per cominciare: MA ANCHE...Né angeli né demoni di fronte alla storia -di Pierluigi Battista
o LA DEMOCRAZIA: Distrutti i partiti, la politica è moralismo e retorica -di Lorenzo Passerini
o QUALE FUTURO PER LA RICERCA TRENTINA? Ci vuole più pluralismo -di Claudio Fontanari
o CIME SEMI-TEMPESTOSE: "Il diritto non si sa ben su cosa si fondi"
o Leggi AVANTI! e MONDOPERAIO sul sito www.partitosocialista.it

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Un SAGGIO per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges)

o Autore: Pierluigi Battista
o Titolo: MA ANCHE...Né angeli né demoni di fronte alla storia
- Corriere della Sera, 21 febbraio 2010, pp.32-33


SOMMARIO: L'opera di personaggi come Napoleone, Giolitti o Craxi presenta aspetti contraddittori e deve essere valutata nella sua irriducibile complessità. Irrigidire il giudizio nella fissità di una sola dimensione significa smarrire il senso autentico degli avvenimenti. La società che premia il compromesso, la sintesi, la mediazione, non esercita alcun richiamo emotivamente forte. George Steiner definisce la nostra epoca democratica come anti-tragica, dove la tragedia non rappresenta più la forma del racconto.

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Non si può più dire «ma anche»: altrimenti si rischia la parodia ecumenica e indecisionista raffigurata da Maurizio Crozza nella sua crudele imitazione di Walter Veltroni. Oramai bandita dal lessico corrente, «ma anche» appare espressione politicamente sospetta. Sa troppo di compromesso, di riluttanza patologica alle scelte nette e impegnative. Peccato, perché «ma anche» avrebbe bisogno di una robusta cura di riabilitazione semantica. Senza il generoso soccorso del «ma anche» non si capirebbero infatti tante cose e sarebbe molto più difficile interpretare la storia, la politica, la società, la vita quotidiana, persino l' ambiguità dei sentimenti. Certo, la cattiva reputazione del «ma anche» è in gran parte meritata. Ma anche no. Sul «Sole 24 Ore» Sergio Luzzatto sostiene che siamo stati travolti da un' ondata di «ma-anchismo» nella discussione che ha accompagnato il decennale della morte di Bettino Craxi. Craxi è stato giudicato un grande leader politico, ma anche un uomo inchiodato al destino delle sue condanne giudiziarie. Statista, ma anche colpevole di malversazioni legate al suo ruolo politico. Male, secondo Luzzatto. Forse un bene, invece: giacché nella vita, nella storia e nella realtà Craxi fu, insieme e inscindibilmente, l' una e l' altra cosa. Una bandiera del socialismo riformista, ma anche un leader responsabile (ma anche non l' unico) del sistema di finanziamento illecito dei partiti. È la sua figura storica ad essere contrassegnata dal «ma anche», non lo schema deplorato da Luzzatto. «Ma anche» serve per capire, per dar conto di una complessità, per non appiattirla con il semplificante dell' unilateralità e dell' unidimensionalità. Luzzatto, che è un formidabile polemista ma anche un severo studioso di storia, sa per esempio benissimo che Giovanni Giolitti fu uno statista che plasmò con la sua azione politica una tappa decisiva dell' Italia liberale, sabauda e post-risorgimentale, ma si macchiò (anche) con lo scandalo della Banca Romana. Senza il «ma» anche Giolitti ne uscirebbe amputato, la sua immagine irrimediabilmente monca e perciò falsa: o solo il «ministro della malavita» di Gaetano Salvemini, o solo una figura angelicata. Il «ma anche» coglie nella storia la molteplicità contraddittoria di tutti gli aspetti che ne fanno la ricchezza. Solo l' agiografia e la demonologia, discipline opposte ma gemelle, possono farne a meno, irrigidite nella loro fissità unidimensionale. Qualche altro esempio, parziale ma anche, forse, significativo. Napoleone Bonaparte fu un formidabile condottiero, ma anche il responsabile di atroci scorrerie. Diede vita al codice civile più progressista, ma anche a un asfissiante sistema di controllo poliziesco sulle libere opinioni. Il fascismo garantiva la puntualità dei treni ma era anche un regime fondato sull' impossibilità per i ferrovieri di tutelarsi attraverso l' adesione a liberi sindacati. L' impero austro-ungarico era un esempio luminoso di coesistenza (relativamente) pacifica di nazionalità, etnie e religioni, ma anche un sistema autoritario sempre più anacronistico nell' età delle democrazie. «Ma anche», ovviamente, non significa per forza l' indefinita sospensione di un giudizio, il non prender posizione su Craxi o sul fascismo, su Napoleone o sul giolittismo, l' impossibilità di imboccare una strada anziché un' altra. Nella vita di tutti, peraltro, le scelte molto spesso non si possono aggiustare con l' abuso o con l' espediente del «ma anche»: non si può essere sposati ma anche scapoli; non si può essere iscritti a un partito ma anche al partito concorrente; non si può essere credenti ma anche atei (sebbene gli atei devoti e i credenti scettici provvedano, come al solito, a complicare il quadro). Qualche volta, nelle questioni importanti dell' esistenza di ciascuno di noi, il «ma anche» è una triste necessità, che solo superficialmente può essere spacciata per ipocrisia. Si può essere per principio (come chi scrive) contro l' eutanasia, «ma anche» sperare che un giorno, quando la propria vita sarà solo dolore per sé e per gli altri, qualche mano pietosa possa mettere fine a inutili sofferenze. È solo intollerabile e ipocrita «doppiezza»? Difficile stabilirlo. Resta il fatto che il discredito pregiudiziale e incondizionato del «ma anche», sia pur ingentilito dalla felice ironia di una trovata satirica, è lo specchio di una visione della storia e della politica troppo fitta (fino all' autocompiacimento eroicizzante) di bivi fatali, alternative irriducibili, momenti supremi della verità, antagonismi non negoziabili, scontri che si svolgono in temperature incandescenti che escludono ogni genere di mediazione. Una visione non estremista, bensì gradualista e «riformista» della politica è invece necessariamente incardinata su una modica quantità di «ma anche»: non una fuga dalle scelte, ma essa stessa il frutto di una scelta. La scelta socialdemocratica che cos' è se non un' idea della politica che accetta le leggi fondamentali dell' economia di mercato ma anche una soluzione agli squilibri sociali che l' economia di mercato, abbandonata a se stessa, inesorabilmente produce? Oppure: la scelta liberaldemocratica non è forse l' accettazione del principio democratico della maggioranza, ma anche la ricerca di limiti, confini, argini, contrappesi che impediscano alla democrazia maggioritaria di trasformarsi in tirannide democratica? La «volontà generale» di Rousseau non contempla il ma anche, rapita e incantata com' è dal mito della propria unicità e indivisibilità. La divisione dei poteri di Montesquieu invece sì: articola e distribuisce i poteri, affinché i loro detentori (pro tempore) possano esercitarne le funzioni «ma anche» siano obbligati a rispettarne i limiti e le condizioni. La visione liberale è l' essenza del «ma anche»: vuole uno Stato che assolva ai suoi compiti, «ma anche» che rispetti e tuteli la libertà degli individui. Vuole che i cittadini si occupino della cosa pubblica «ma anche» che le cose pubbliche lascino in pace le cose private, non interferendo nella vita che ciascuno, grazie alla società aperta, liberamente decide di realizzare. Al contrario, sono le rivoluzioni che non ammettono il «ma anche». Nel 1793 «la legge sui sospetti» includeva tra i nemici del popolo chi non mostrava entusiastico «attaccamento» alla Rivoluzione: lo scetticismo come crimine, la mancanza di fervore come delitto. La soluzione poteva essere soltanto una: la ghigliottina, senza se e senza ma (anche). Il mito rivoluzionario detesta il «ma anche», considerandolo come il primo passo che conduce al tradimento o alla diserzione. Invece le società che non ripudiano il «ma anche» sono generalmente più miti, meno feroci, meno dispotiche, più benevole con i propri cittadini. Il guaio è che appaiono più scolorite, meno eroiche, più inclini alla mediocrità, alla povertà simbolica, all' afasia mitologica. Gli eserciti sono la negazione del «ma anche», ma con i loro inni, le mostrine, le uniformi, le decorazioni e il loro spirito battagliero galvanizzano lo spirito di corpo, si danno un' aria marziale che rinsalda la coesione e lo spirito d' appartenenza. La società che premia la medietà, la mediazione, il compromesso, la sintesi, la conciliazione non esercita invece nessun richiamo emotivamente forte. Per questo la modernità liberale (se si escludono gli Stati Uniti, che fanno storia a parte) non ha mai suscitato entusiasmo nell' epoca della democrazia di massa. Il fascino della tragedia antica classica, per esempio, sta nella raffigurazione delle gesta degli eroi e degli dèi, dove ogni momento concentra il massimo del destino e il Fato governa e scandisce vicende secondo un disegno che prevede alternative secche, non il dominio del «ma anche». E infatti il grande critico George Steiner definisce la nostra epoca democratica come essenzialmente anti-tragica, dove la tragedia è inconcepibile e non rappresenta più la forma del racconto. Anche Franco Moretti, un altro critico della letteratura e studioso della forma-romanzo, ha contato in Orgoglio e pregiudizio quante sono le vere svolte narrative raccontate da Jane Austen, i momenti supremi che rappresentano un bivio drammatico per i protagonisti, le tappe decisive che segnano il destino: soltanto due. Il resto, Moretti lo definisce un «riempitivo», nient' altro che lo scorrere della vita ordinaria, della quotidianità non illuminata dai bagliori della grande tragedia: due sole grandi svolte e il resto delle pagine un gigantesco e informe «ma anche». Per questo il romanzo moderno ha trovato i suoi lettori nella gente comune che nelle pagine vede rappresentata la sua vita, la sua routine, il suo «ma anche» quotidiano. Anche la democrazia è un «riempitivo», un interminabile intervallo tra i momenti supremi dove sono in gioco la vita o la morte, l' amico o il nemico, noi o loro. La democrazia è il romanzo della vita ed è l' antitesi della guerra, che è una tragedia. La democrazia amministra una società tenendo conto della pluralità, della complessità, della diversità degli interessi e delle forze, del «ma anche». La guerra si fonda invece sull' aut aut: o la vittoria o la disfatta. Nella guerra non si può vincere «ma anche» perdere. Così come nelle ideologie fondate su assoluti che non ammettono il «ma anche» del negoziato, ma solo la nettezza senza chiaroscuri della politica come prosecuzione della guerra. La democrazia è la neutralizzazione degli assoluti, chi vince non vince tutto e chi perde non perde tutto. Difficile immaginare un partito democratico che non ricorra alla virtù del «ma anche», e che non sia un partito che tenga conto degli interessi di una parte della società ,«ma anche» di un' altra. E non può essere solo uno scherzo del destino che la critica più aspra al «ma anchismo» abbia colpito il leader politico, Walter Veltroni, che più di altri aveva impresso la sua figura sull' atto di fondazione e sui primi passi di un partito chiamato, appunto, Democratico. Che poi quella definizione sia fatalmente diventata una fortunata formula derisoria, un modo geniale per svelare il «ma anche» come stratagemma per non decidere, come astuzia per non compromettersi troppo, è anche una prova delle difficoltà che ostacolano l' imporsi di una filosofia democratica e liberale (e gradualista e riformista) in Italia. In fondo, persino il democratico Barack Obama, negli Stati Uniti, ha vinto le elezioni su un messaggio che elettrizzasse la gente di colore «ma anche» rassicurasse l' elettorato bianco. Non è stata un' astuzia, ma la sintesi di un progetto politico che tenesse insieme le parti più diverse della società americana. La ricetta di una vittoria squillante, «ma anche» una lezione per le democrazie meno robuste.

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LA DEMOCRAZIA
Distrutti i partiti, la politica è moralismo e retorica

di Lorenzo Passerini - dal giornale TRENTINO del 24 febbraio 2010, p. 42

È con profondo interesse che ho seguito il dibattito sulla classe dirigente avviato dal direttore del Trentino e proseguito con gli interventi di Lucia Maestri, di Marco Boato e di Nicola Zoller.
Quello della formazione e della cultura politica è un tema infatti che da giovane “malato di politica” non può che appassionarmi.
Nel corso del Novecento i grandi partiti di massa – il Partito socialista, il Partito popolare prima e la Democrazia cristiana poi, il Partito comunista – non sono stati solo strumenti di lotta politica, ma anche luoghi di socializzazione e di formazione culturale e politica e quindi di selezione della classe dirigente a tutti i livelli, dai Comuni alle Provincie, dalle Regioni allo Stato, dai Sindacati alle Cooperative. Questo è il merito storico di questi partiti che la vicenda di “Mani pulite” non può e non deve oscurare: uomini come – solo per citarne alcuni – Alcide Degasperi e Aldo Moro, Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano, Pietro Nenni e Sandro Pertini, che non possono essere pensati senza i partiti in cui militavano, hanno avuto un ruolo rilevante nella costruzione dell'Italia contemporanea.
La svolta dei primi anni '90 (crollo del blocco sovietico e “Mani pulite”) con l'acqua sporca ha buttato via anche il bambino, delegittimando alla radice il sistema partitico esistente e quindi anche il ruolo positivo che i partiti di massa – gli artefici della Costituzione - avevano avuto nell'Italia repubblicana.
Distrutti i partiti, cavalcata la delegittimazione moralistica della politica e la retorica qualunquista si è imposta la personificazione della politica. Si è dimenticato che il leaderismo favorisce il populismo contro lo spirito critico, la demagogia contro il ragionamento politico.
In particolare la perdita di credibilità dei partiti politici ha prodotto due approcci alla politica solo apparentemente diversi ma in realtà entrambi conseguenza della mancanza di cultura politica e della partecipazione dei cittadini alla vita dei partiti.
Il primo approccio privilegia la ricerca da parte del singolo di visibilità personale senza, come scrive Boato, “il gusto dell’impegno ma anche dello studio, della militanza ma anche della ricerca culturale”: in realtà si tratta di “meteore” approdate a posti di potere saltando tutte le tappe e quindi privi di preparazione.
È invece necessario, come ricorda Zoller, “porre la cultura come fonte della politica, rifiutare il semplicismo, coltivare l’attaccamento alla memoria e alle idee”.
Una classe dirigente avrà più chiara la propria prospettiva se ha piena consapevolezza della propria storia, se ha capacità di riflettere sulle esperienze compiute e da esse trarre indicazioni per l’oggi e il domani.
La mancanza di cultura politica genera anche un secondo tipo di approccio: l'azione politica di molti soggetti è animata principalmente da uno sterile movimentismo e dall'”etica dell'intenzione” che -come aveva diagnosticato Weber- porta ad agire seguendo pedissequamente delle norme di valore assoluto senza preoccuparsi della reale incidenza della propria azione sul vissuto delle persone.
Al contrario l'impegno politico si deve tradurre in un fare visibile e misurabile, in strategie che indichino non solo gli obiettivi, ma anche le tappe intermedie e graduali con cui raggiungerli. Per dare sostanza a idee e progetti sono necessarie strutture e organizzazione. La politica infatti si cambia sporcandosi le mani, combattendo, raccogliendo consenso e traducendolo in rappresentanza in tutte le sedi decisionali. L'insoddisfazione per le condizioni generali di vita deve assumere una forma “politica”, tradursi in proposta.
Sicuramente però, nella società contemporanea, non sono solo i partiti ad aver perso radicamento sociale. Come ci insegna Zygmut Bauman con la formula della “Società liquida”, sono numerosi i campi nei quali si evidenzia una fragilità e una labilità dei rapporti umani: i partiti quindi hanno la necessità di adattarsi in un ambiente profondamente mutato. Come ebbe a dire Bronislaw Geremek, intellettuale polacco ed esponente di spicco di Solidarnosc, senza i partiti non c’è democrazia ed è preoccupante proprio la tendenza delle nuove generazioni ad allontanarsi dai partiti e dalla cultura politica.

*Lorenzo Passerini è studente universitario alla Facoltà di Economia di Trento

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QUALE FUTURO PER LA RICERCA TRENTINA?

Ci vuole più pluralismo

di Claudio Fontanari - dal giornale TRENTINO del 5 marzo 2009, p.1-48

“Però il problema esiste, e investe una questione non marginale: è possibile fare cultura in Italia (e in particolare in Trentino) senza ricorrere a strategie dilettantesche? Non è qui messa in discussione la necessità di innovare... Il problema è come modernizzare. Alcune soluzioni della nuova organizzazione mi sono apparse un po' ingenue... è stato preferito il criterio delle calls, delle chiamate dalle più celebri università straniere, forse nella speranza di una maggiore visibilità mediatica... La mia impressione è che alla guida dell' istituto si richieda una sorta di manager culturale, non uno studioso con il mio profilo. Per questo ho scelto di andarmene. Sono solo un intellettuale del tipo tradizionale, ma forse questo paese non sa che farsene”. Con queste parole sofferte ma lucidissime Gian Enrico Rusconi commenta su “la Repubblica” del 18 febbraio le proprie dimissioni dalla direzione del Centro per gli Studi Storici italo-germanici della Fondazione Bruno Kessler. La risposta di Lorenzo Dellai, affidata prima a una nota e poi a un’intervista sul “Trentino” del 26 febbraio, sebbene formalmente ineccepibile sembra però eludere la sostanza della questione sollevata da Rusconi. Dopo aver ricordato che la società sta vivendo cambiamenti profondi e osservato come non ci sia niente di male a valutare l’utilizzo delle risorse, Dellai riassume il dilemma in questi termini: “dobbiamo porci il problema di essere all’altezza dei cambiamenti in atto, o no?”
Certo che sì, ma non è questo il punto e pertanto il dibattito rimane aperto. I socialisti trentini hanno atteso invano una presa di posizione da parte del sindaco della città capoluogo. Da parte mia, ritengo che un intervento di Alessandro Andreatta potrebbe contribuire efficacemente a fare chiarezza sul futuro della ricerca a Trento. Nel programma elettorale suo e della coalizione di centrosinistra per le elezioni comunali del 2009 proprio su questo tema affermava infatti: “L’orientamento verso un’economia della conoscenza è probabilmente “il” tema delle strategie di sviluppo della città nel lungo periodo.” In un articolo sul “Trentino” del 23 aprile 2009 lo stesso sindaco si chiedeva in proposito: “Che significa questo? Significa che l’università ormai fa parte del dna di Trento. Che la città, senza gli studenti, sarebbe più povera, più spenta, più periferica e autoreferenziale.” Oggi invece, dopo le dimissioni di Rusconi, i trentini inevitabilmente si chiedono: ma quale idea di università e di ricerca scientifica è insita nel nostro dna? Per intenderci, riferendosi per semplicità alla dicotomia (magari schematica ma certo suggestiva) proposta dallo stesso Rusconi: quella dei manager culturali o quella degli studiosi di alto profilo?
La tradizione liberal-socialista non offre risposte preconfezionate per la politica universitaria locale, ma suggerisce di applicare anche in questo contesto un principio tanto semplice quanto generale: quello del pluralismo, che nel caso specifico si tradurrà nel sostegno a una fioritura di linee di ricerca indipendenti e non rigidamente pianificate, diverse ma trattate con pari dignità. “Conosco molte brave persone - afferma il filosofo Karl Popper affrontando la questione “A cosa crede l'Occidente?” - che considerano una debolezza dell'Occidente il fatto che non possediamo un'idea portante e unitaria... Quest'opinione largamente diffusa è ben comprensibile. Ma la reputo fondamentalmente errata. Dovremmo essere orgogliosi di non possedere un'unica idea, bensì molte idee, buone e cattive... E' un segno della superiore energia dell'Occidente il fatto che ce lo possiamo permettere.”

* Claudio Fontanari è ricercatore in geometria all’Università di Trento e membro della direzione del Partito Socialista Italiano del Trentino.


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CIME SEMI-TEMPESTOSE

"Il diritto non si sa ben su cosa si fondi"
afferma uno fra i giuristi più insigni come Francesco Galgano nell'opera "Il rovescio del diritto". E' una affermazione che purtropppo calza bene - oltre che con molte vicende storiche - anche con i casi odierni: il diritto è cioè tirato di qua e di là da chi approva, da chi applica e da chi è chiamato a rispettare le leggi. Amen.

Nicola Zoller -

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Preghiamo gentilmente i nostri lettori di scrivere una e-mail a n.zoller@trentinoweb.it con il semplice oggetto "CANCELLAMI" se le nostre "info" risultano indesiderate. Grazie per la cortese paziente attenzione





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