|
INFO SOCIALISTA 25 febbraio 2010 a cura di n.zoller@trentinoweb.it tel. 338-2422592 Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it / www.socialisti.bz.it Quindicinale - Anno VII --------------------------------------------------- o Un libro per cominciare: "La politica è vocazione" commento a: MAX WEBER,“POLITIK ALS BERUF” - di N.Zoller (dal giornale TRENTINO) o Ricorrenze:IL DIBATTITO SULLE RADICI DELLA CORRUZIONE -di Ernesto Galli della Loggia (CORRIERE DELLA SERA) o LA FINE DI MANI PULITE, secondo il procuratore Borrelli - da LIBERO, 17 febbraio 2010 o UN HIGHLANDER NEL PSI -di Alessandro Pietracci, nuovo segretario del PSI trentino- AVANTI DELLA DOMENICA o LA NUOVA DIREZIONE PROVINCIALE DEL PSI TRENTINO eletta dall'Assemblea del 6 febbraio 2010 o OPINIONI E COMMENTI/ARCHIVIO del sito www.partitosocialista.it @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ Un libro per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges) o Autore: MAX WEBER o Titolo: “POLITIK ALS BERUF”- Oktober 1919 La politica è vocazione - di Nicola Zoller giornale TRENTINO,sabato 20 febbraio 2010, p.1/42 Il dibattito sulla “classe dirigente” avviato da Alberto Faustini sul “Trentino” ha messo in luce che l’impegno politico va collegato alla formazione e alla ricerca culturale. Al proposito ho pubblicato anni or sono un libretto intitolato “Breviario di politica mite”, con questa premessa: siamo stati educati ad accompagnare l’azione politica -che molti di noi svolgono nei tempi liberi dal lavoro e dai normali impegni della vita- con tante letture; siamo così cresciuti seguendo l’insegnamento “a porre la cultura come fonte della politica, a rifiutare il semplicismo, a coltivare l’attaccamento alla memoria e alle idee”. Con questo non si vuol asserire che la qualità della politica era migliore nel passato più o meno recente rispetto ad oggi. Preferisco raccomandare un’opera senza tempo che leggevamo allora e che andrebbe riletta oggi: qui proverei a riproporla come viatico discreto per l’azione di chiunque voglia impegnarsi nella politica democratica. Parlo di “Politik als Beruf”: questo è il titolo originario del saggio di Max Weber tratto da una serie di lezioni tenute nell’inverno 1918 - 1919 a giovani militari rientrati dalla Grande guerra, un titolo che rimanda al doppio significato del temine tedesco “Beruf”: professione ma anche vocazione. Si era, allora, in una fase rivoluzionaria, quando la politica aveva una “tragica grandezza”, mentre oggi sembrerebbe “declinante”, annota il curatore italiano della pubblicazione, Carlo Donolo. Però si resta colpiti dalle affinità tra passato e presente e dalle analogie che interessano tutte le fasi di trapasso, più o meno, rivoluzionarie. C’è “il desiderio di voler costruire un mondo nuovo”, e ci sono “le trappole in cui facilmente si cade”. C’è la voglia di “darsi alla politica nella forma dell’impegno personale”, e c’è anche la ricerca più prosaica del “possibile sbocco di una precarietà esistenziale”, del “procacciarsi da vivere spesso con mezzi eticamente discutibili”. La prima giovane democrazia americana - in una certa fase - avrebbe sbrigativamente risolto il dilemma dando per scontato il disprezzo verso i politici, ma assicurandosi con il voto diretto un potere di controllo mancante nello scenario europeo: “preferiamo avere come funzionari gente su cui sputiamo piuttosto che, come da voi, una casta di funzionari che sputa su di noi”. Ma Weber constata che ora tale situazione non viene comunque più tollerata e tornerebbe dunque d’attualità generale il contrasto fra la politica come professione con la politica come vocazione, intendendo quest’ultima “come perseguimento del potere allo scopo di realizzare fini”. Weber allora - ritenendo irrisolvibile questo confronto (ci sarà sempre chi vive ‘ di’ politica e contemporaneamente ‘ per’ la politica) - sposta l’attenzione sulle modalità di raggiungere i fini. Si viene dunque all’altro dilemma vero: l’azione politica è attraversata dal contrasto di principio tra etica della responsabilità ed etica dell’ intenzione. Quest’ultima è un’etica assoluta, che si affida a “princìpi” intoccabili e non si preoccupa delle conseguenze. Weber esemplifica: “Avete voglia a spiegare a un militante sindacalista convinto seguace dell’etica dell’intenzione che le conseguenze del suo fare saranno l’aumento delle possibilità della reazione, aumento della repressione della sua classe, freno al miglioramento della sua condizione. Non gli farete nessun effetto. Se le conseguenze di un agire in base a pura intenzione sono cattive, ritiene responsabile di ciò non chi agisce, ma il mondo, la stupidità degli altri uomini, oppure la volontà del dio che lo ha creato così”. Seguendo invece l’etica della responsabilità, si è - appunto - “responsabili delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire”, e - facendo i conti con i difetti medi dell’uomo - non ci si prende il diritto di rovesciare su altri le conseguenze del proprio agire. L’etica dell’ intenzione - aggiunge Weber - ha veramente solo una possibilità logica: rifiutare ogni agire che impieghi mezzi eticamente pericolosi. Ma nel mondo reale - scrive il nostro autore - facciamo continuamente l’esperienza che l’etico dell’intenzione si trasforma in profeta avventuristico: chi predica “amore contro violenza”, “bene contro male”, “onestà contro immoralità”, l’attimo dopo chiama alla violenza, anzi, all’ultima violenza, che porterà poi all’annientamento di ogni ricorso alla violenza. La storia è piena di questi “pacifici sanguinari” e di “incorruttibili” propugnatori di giustizia trasformatisi in disumani giustizieri. Ed anche quando la loro fede sarà soggettivamente ‘seria’, essi avranno uno stuolo di seguaci che cercheranno solo la “legittimazione etica della voglia di vendetta, di potere, di bottino, di prebende”: si proclama di voler fare “piazza pulita”, intendendo più prosaicamente applicare il motto “via tu, che mi metto io”! Come uscirne, visto che il desiderio di abbandonarsi alla ‘causa’ per cui si parteggia è sempre ardente? La vocazione politica si manifesta con la capacità di reggere la tensione inevitabile tra intenzione e responsabilità. La politica vien fatta con la testa, non con altre parti del corpo. Eppure la dedizione ad essa, se non si tratta di mero e frivolo gioco intellettuale, ma di autentico agire umano, può essere generata ed alimentata solo dalla passione. Così Weber descrive il “politico appassionato”, il quale si distingue dal mero dilettante politico “sterilmente eccitato”, perché ha la capacità - nella calma del raccoglimento interiore - di valutare le cose e gli uomini e di assumersi la responsabilità verso i risultati generati dalla sua passione per la ‘causa’. La vocazione per la politica sta qui: tenere sotto controllo le due ottiche – intenzione e responsabilità - con un maturo baricentro interno, fatto di passione e precisione insieme. Nicola Zoller -socialista dal 17° anno d’età @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ "La corruzione e le sue radici" -di Ernesto Galli della Loggia -CORRIERE DELLA SERA 17 febbraio 2010 Si accontenti chi vuole di credere che «il problema è politico» e riguardi quindi la destra e la sinistra. Sì, questa volta a essere presi con le mani nel sacco sono stati esponenti del Pdl, ma in passato la stessa cosa è accaduta con esponenti del Pd: ma anche dando per scontato che le imputazioni a loro carico siano domani convalidate da una sentenza, davvero la corruzione italiana si riduce a quella dei politici? Davvero in questo Paese la sfera della politica è malata e il resto della società è sano? Non è così, con ogni evidenza. Ognuno di noi sa bene che non è così, e non bisogna smettere di dirlo, anche se i soliti moralisti di professione grideranno scandalizzati che in questo modo si finirebbe per occultare «le precise responsabilità politiche». Ma figuriamoci: cosa volete mai che si occulti, con tutta la stampa ormai scatenata dietro Monica e Francesca, dietro Bertolaso, Balducci, e compagnia bella? Proprio perché non ha alcuna natura propriamente politica ma affonda radici profondissime nel corpo sociale - cosicché nella politica essa si riversa soltanto, essendo uno degli ambiti dove più facile è la sua opera - la corruzione italiana sfugge a ogni facile terapia. Come si è visto quando, convinti per l’appunto del suo carattere politico, abbiamo creduto che almeno per ridurne la portata bastasse mutare il sistema elettorale, o fare le privatizzazioni, o cambiare la legge sugli appalti, o finanziare i partiti in altro modo dal finanziamento diretto; o che l’esempio di «Mani pulite», di cui proprio oggi è paradossalmente il 18mo anniversario, potesse segnare una svolta. Invece è stato tutto inutile. La corruzione italiana appare invincibile. Rinasce di continuo perché in realtà non muore mai, dal momento che a mantenerla viva ci pensa l’enorme serbatoio del Paese. La verità, infatti, è che è l’Italia la causa della corruzione italiana: lo si può dire senza rischiare l’accusa di lesa maestà? Chi si ostina a credere che «il problema è politico», che tutto si riduca a destra e sinistra, lo sa che le tangenti continuano a girare vorticosamente anche nel privato: che dappertutto qui da noi, quando ci sono soldi in ballo, non si dà e non si fa niente per niente? Lo sa che i concorsi più vari (non solo le gare d’appalto!) sono sempre, in misura maggiore o minore, manipolati? Riservati agli amici e ai protetti quando non direttamente truccati in un modo o nell’altro dai concorrenti con la complicità delle commissioni, e il tutto naturalmente in barba a ogni credo politico? E che colore politico pensa che abbia l’evasione fiscale dilagante? O i tentativi a cui si dedicano incessantemente milioni di italiani di violare i regolamenti urbanistici ed edilizi in tutti i modi possibili e immaginabili (spessissimo riuscendoci grazie all’esborso di mazzette)? E a quale schieramento politico addebitare, mi chiedo, il sistematico taglieggio che da noi viene praticato da quasi tutti coloro che offrono una merce o un servizio al pubblico, come le società autostradali, quelle di assicurazione, le compagnie telefoniche, le compagnie petrolifere, quelle aeree, le banche, le quali tutte possono a loro piacere fissare tariffe esagerate, imporre contratti truffaldini, balzelli supplementari, clausole capestro, sicure dell’impunità? Sì lo so, tecnicamente forse non è corruzione. Ma so pure che in molti altri Paesi comportamenti del genere sono severamente sanzionati anche sul piano penale. Da noi no, sono considerati normali. Perché? La risposta è nella nostra storia profonda, nei suoi tratti negativi che i grandi ingegni italiani hanno sempre denunciato: poca legalità, assenza di Stato, molto individualismo anarchico, troppa famiglia, e via enumerando. Perciò l'Italia è apparsa tante volte un Paese bellissimo ma a suo modo terribile. E lo appare ancor di più oggi, dopo aver perso anche gli ultimi pezzi delle sue fedi e dei suoi usi antichi. Più terribile e incarognito che mai. Più corrotto. Spesso queste cose le capisce per prima l'arte, e in particolare il cinema, il nostro cinema, a cui tanto deve la conoscenza di ciò che è stata ed è l'Italia vera. Quell'Italia vera che riempie, ad esempio, le immagini dell'ultimo film di Pupi Avati, Il fratello più piccolo, in arrivo proprio in questi giorni nelle sale cinematografiche. Un ritratto spietato di che cosa è diventato questo Paese: una società dove gli unici «buoni» sembra non possano che essere dei disadattati senz’arte né parte; dove, nell'ultima scena, dal volto pur devastato e ormai annichilito di un grandissimo De Sica, ladro e canaglia ridotto all'ozio forzato su un terrazzino di periferia, non cessa tuttavia di balenare il guizzo di un’inestinguibile mascalzonaggine. È di una lucida resa dei conti del genere che abbiamo bisogno; di guardare a fondo dentro di noi e dentro la nostra storia. Non di credere, o di fingere di credere, che cambiare governo serva a cambiare tutto e a diventare onesti. "L'Italia ipocrita e quelle domande alle quali non si vuole rispondere" -di Ernesto Galli della Loggia - CORRIERE DELLA SERA 21 febbraio 2010 Di chi può mai essere la colpa della corruzione italiana se non della politica? Di chi se non dei politici - beninteso di quelli per cui votano gli “altri”? Si mettano dunque l’una e gli altri sul banco degli accusati per la meritata, inevitabile condanna. Così la pensano oggi moltissimi italiani i quali non vogliono sentirsi dire che la corruzione di questo Paese - anche quella pubblica - è invece qualcosa che viene dal profondo, che rimanda alla storia vischiosa, oltre che del nostro Stato, della nostra società; ai suoi meccanismi e vizi inveterati. No, guai a dirlo: si è subito sospettati di voler cancellare le responsabilità individuali, di voler “salvare i ladri”. Che c’entriamo noi con la corruzione? La colpa è solo della politica. In questo modo sta per ricominciare oggi il circolo perverso avviatosi nel ’92-’93. Infatti, se si mettono così le cose è fatale che agli occhi dell’opinione pubblica l’immagine di tutta la politica e di tutti i politici ne esca complessivamente a pezzi. Con l’ovvia conseguenza, che più ciò accadrà e più solo i mediocri o gli spregiudicati accetteranno di entrare nell’arena pubblica, e che quindi, alla fine, la politica risulterà ancora di più inetta e/o corrotta, accrescendo ulteriormente la sfiducia e la disistima generali. Sta per ricominciare alla grande, insomma, il meccanismo implacabile dell’antipolitica. Il meccanismo che si mise in moto all’epoca di “Mani pulite” e i cui risultati nonostante l’avvicendarsi di governi di destra e di sinistra, sono sotto gli occhi di tutti: allora svergognata e vilipesa la politica non si è rinnovata per nulla, la qualità dei suoi protagonisti è anzi in media peggiorata, ed essa non è stata capace né allora né poi di correggere un bel nulla del sistema che aveva portato a Tangentopoli. Non è questione di pensare che la corruzione sia “connaturata” alla società italiana. Bensì di convincersi che essa è innanzi tutto della società italiana. Di convincersi cioè che, in Italia, in tanto la politica può ospitare un così alto numero di traffichini e di lestofanti, in tanto può rappresentare un ambito d’elezione per un così gran numero di scambi e guadagni più o meno loschi, in quanto, e solo in quanto, ha come sponda, come interlocutrice permanente, una società moralmente opaca come la nostra. Perché alla fine delle due l’una, insomma: o si nega che quella italiana sia una società di tal fatta (e mi sembra davvero difficile), o si deve sostenere che tra lo standard morale della politica e lo standard morale della società non c’è alcun rapporto necessario (e si dice una palese assurdità). Naturalmente c’è sempre una terza possibilità (che sospetto sia proprio quella fatta ipocritamente propria da molti abitanti della penisola): e cioè credere, o fingere di credere, che in una società di diavoli i politici, non si sa per quale miracolo, possano - anzi debbano – essere degli angeli; e la politica, di conseguenza, una specie di anticamera del paradiso terrestre. Tutti coloro che, come Marco Vitale, rimproverano alla politica in genere, e dunque anche alla sinistra, di non aver preso le misure necessarie per una vasta e radicale opera di moralizzazione pubblica, dovrebbero innanzi tutto chiedersi: ma siamo sicuri che quel partito o quello schieramento che lo avesse fatto avrebbe avuto il consenso degli elettori italiani? O non sarà forse che un’opera del genere - per come è l’Italia, il suo mercato del lavoro, i suoi rapporti patrimoniali, per come sono abituati i suoi pubblici dipendenti, per come sono le sua abitudini diciamo così fiscali - non sarà forse che un’opera del genere avrebb e suscitato molte più opposizioni che consenso? E perché altrimenti nessun partito, nessuno schieramento, ha mai preso questa strada? Di fronte agli scandali in cui è coinvolta la politica (anche o soprattutto la politica) molti uomini e donne impegnati nelle attività private, nel mondo del fare come oggi si dice, amano invocare rispetto delle regole, meritocrazia, presenza di poteri contrapposti, trasparenza, orgoglio di ruolo. Lo ha fatto l’altro giorno anche Franco Bernabè su queste colonne. Confesso di non aver ben capito a chi fosse rivolto di preciso una tale astratta invocazione - che anche in questo caso come in altri casi, di altri autori, evita di fare nomi e cognomi - ma spero che comunque il presidente della Telecom mi perdonerà se gli rivolgo una domanda impertinente: in che misura a suo giudizio il sistema delle imprese italiane e quello bancario - e la stessa Telecom, aggiungo, toccando davvero il colmo dell’impertinenza - si attengono alle prescrizioni da lui messe nero su bianco? Personalmente penso che lo facciano parecchio meno di quanto dovrebbero e di quanto accada di solito in altri Paesi, a cominciare per esempio dagli Stati Uniti. Basta vedere l’accanimento tenace con il quale tutto quel mondo si è opposto ad un’efficace legislazione sulla “class action”; e se non sbaglio senza che nessun suo esponente alzasse la minima voce contraria. Non è solo la politica, insomma, a non avere le carte in regola. Se non cominceremo una buona volta con il dirci tutto questo, con il dircelo ad alta voce e dircelo di continuo, potremo pure mandare periodicamente all’ergastolo tutti i “marioli” e i “birbantelli” del caso, potremo pure in un raptus suicida nominare Marco Travaglio ministro della giustizia, ma rimarremo sempre quello che siamo: una società malandrina, spietata e al tempo stesso accomodante, un Paese sostanzialmente senza legge e senza verità. @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ LA FINE DI MANI PULITE, secondo il procuratore Borrelli Ci si dovrebbe chiedere perché Mani pulite a un certo punto ebbe fine. Il procuratore Borrelli la mise così: «Finché si trattò di colpire i partiti che stavano sullo stomaco a tutti, non ci furono grandi reazioni contrarie. Anzi. Ma quando, con l’indagine sulla Guardia di finanza, si andò oltre, apparve chiaro che il problema della corruzione in Italia non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma che investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso. A quel punto il cittadino medio ebbe la sensazione che questi moralisti della Procura di Milano volessero davvero passare lo straccio bagnato su tutta la facciata del paese, sulla coscienza civile di tutti gli italiani. Parlo del cittadino medio, che vive spesso di piccoli espedienti, amicizie, raccomandazioni, mancette per poter campare e rimediare all’inefficienza della pubblica amministrazione. A quel punto, ho l’impressione che la gente abbia cominciato a dire: adesso basta, avete fatto il vostro lavoro, ci avete liberato dalla piovra della vecchia classe politica che ci succhiava il sangue, ma adesso lasciateci campare in pace». -da LIBERO, 17 febbraio 2010 @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ UN HIGHLANDER NEL PSI di Alessandro Pietracci, nuovo segretario del PSI trentino- AVANTI DELLA DOMENICA 21 febbraio 2010 Pietracci “highlander”? Ma andiamo. Stiamo parlando qui – se non ho capito male – non di immortalità fisica ma di quella politica, insomma dell’arte di sopravvivere in posizione di potere. Così, stando le cose, la vicenda dei nostri “highlanders” ci ricorda che per rinascere occorre cambiare e costantemente trasformarsi, che so, da guerrieri scozzesi in dignitari saraceni, mercanti italiani o finanzieri newyorkesi. E’quello che, appunto, hanno fatto tanti tra noi socialisti dopo la grande catastrofe dei primi anni novanta, mettendo la loro capacità e la loro esperienza a servizio di progetti e di strutture di potere altrui.Noi abbiamo invece fatto una scelta diversa: quella di rimanere nella vecchia casa, anche se isolata e poco frequentata, anche se costantemente esposta alle aggressioni e alle interferenze esterne. E lo abbiamo fatto spinti dalle più varie ragioni ma anche da una motivazione comune, che vorrei esporre qui con la massima sobrietà e chiarezza possibile (per evitare il rischio di un discorso puramente autoreferenziale o, peggio, della mozione degli affetti). Dico subito che la nostra non è stata una scelta facile,come ci siamo resi conto ben presto, Tangentopoli non era stata una tempesta passeggera, ma un evento che aveva portato a cancellare, nel nostro Paese, non solo i socialisti come forza organizzata, ma la stessa cultura socialista all’interno della sinistra italiana. E allora chi era rimasto, sapeva di avere davanti a sé una più o meno lunga traversata del deserto, e sapeva anche o, almeno, avrebbe dovuto sapere, che qualsiasi strategia di sopravvivenza poteva trovare forza e giustificazione solo nella convinzione che al di là dell’orizzonte, ci fosse una terra, un ambiente politico/culturale dove il pensiero socialista avrebbe potuto rifiorire e rinvigorirsi. Rassicuratevi. Non vi voglio ammannire paroloni come giustizia, libertà ed eguaglianza né disquisire sui valori (per questo, purtroppo, c’è oggi Di Pietro con i valori suoi), né esibire le foto di Pertini, di Nenni e di Cesare Battisti. Vorrei ricordarvi piuttosto un modo di essere che ci ha accompagnato nel bene e nel male: l’anticonformismo e lo spirito liberale e libertario, la tendenza costante a rimettersi in discussione, il gusto per la revisione e la riforma, la rivalutazione del ruolo delle minoranze, l’impegno alla solidarietà internazionalistica senza strumentalismi e senza condizionamenti ideologici, uno spirito laico perché autenticamente liberale. Tornerà, nella sinistra e nella società italiana, questo universo socialista? Io ne sono profondamente convinto, ma so anche che non basta evocarlo per farlo riemergere. E allora noi socialisti, noi socialisti organizzati e visibili nei più diversi, ma comunque faticosi e ingrati ruoli, (compreso quello di segretario di federazione,…) non ci sentiamo “rappresentanti autorizzati” né aspiriamo ad essere padroni, gestori ed interpreti di alcunché e men che meno della (nostra) storia. Siamo semplicemente dei testimoni del passaggio tra il passato e il futuro di una grande idea. E anche, diciamolo ad alta voce, di una grande comunità di esperienze e di persone. Vogliamo che le giovani generazioni ci trovino al nostro posto, quando vorranno ricominciare il cammino. Potranno allora, se dovranno, rimproverarci per un’infinità di cose ma non per aver abbandonato il campo. *********************** LA NUOVA DIREZIONE PROVINCIALE DEL PSI TRENTINO eletta dall'Assemblea del 6 febbraio 2010: Agostini Graziano – TRENTO Armici AnnaRosa – ROVERETO Bacchi Riccardo – TRENTO Baldessari Mauro – TRENTO Baldessari Sergio – LAVIS Baroni Federico – ROVERETO Benuzzi Gianni – DRO Bertolini Nuvoloni Marilena – ROVERETO Bertolini Renato - MORI Bosetti Stefano – TRENTO Capra Zanetti Carla – VILLAZZANO TRENTO Costa Andrea – TRENTO Degasperi Bruno – TRENTO Degasperi Giacobbe – SARDAGNA TRENTO Dorigatti Rossano – MARTIGNANO TRENTO Filippi Mattia – GARDOLO TRENTO Fontanari Claudio – TRENTO Gretter Graziano – PERRGINE Guarino Fernando – TRENTO Leveghi Mauro – TRENTO Morelli Ivan – TRENTO Noldin Ivano - MEZZOLOMBARDO Ognibeni Rinaldo - BORGO V. Oss Andrea - PERGINE Pasini Celso – TRENTO Patton Liberio - CIVEZZANO Pegoretti Renato – TRENTO Penasa Lauro - CLES Pietracci Alessandro – TRENTO Postal Lamberto – LEVICO Riccadonna Ugo – TRENTO Ricci Tomaso – ARCO Sala Cristian – ROVERETO Salvetti Matteo - ROVERETO Sangalli Riedmiller Ilda – TRENTO Sartori Carla - PERGINE Scarpari Loris – TRENTO Sebastiani Lorenzo - VILLAZZANO TRENTO Soraperra Enzo - Canazei Tasin Claudio - PERGINE Vassallo Massimo – TRENTO Visintainer Claudio – NOVALEDO Visintainer Lorenza – TRENTO Zanella Aldo – PERGINE Zoller Nicola - BRENTONICO @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ Leggi alla voce OPINIONI E COMMENTI/ARCHIVIO del sito www.partitosocialista.it -10/02/2010 - DELLA GELMINI O DELLA FINTA RIFORMA EPOCALE (Maria Squarcione*) All'indomani dell'approvazione di una riforma che, a dire del premier, permetterà alle nostre scuole di essere "comparate a quelle dei paesi europei più avanzati", essendo stata definita "epocale" dalla stessa ministra che l'ha varata, una qualche riflessione che non ammicchi esclusivamente alle tematiche sindacali è d'obbligo. In questa riforma, la presunzione di cambiamento radicale dell'andazzo scolastico italiano si definisce intorno al..... -09/02/2010 - LE RAGIONI DEL SOCIALISMO (ED IL VALORE LEGALE DEL TITOLO DI STUDIO) (Simona Bonfante*) Se un laureato guadagna meno di un diplomato significa che l’investimento in sapere è improduttivo. In realtà non è proprio così. Improduttiva è la spesa che si affronta per mantenere un figlio parcheggiato per qualche anno in un esamificio qualunque che non produce sapere ma titoli con cui compilare, più o meno inutilmente, il CV...... @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ Preghiamo gentilmente i nostri lettori di scrivere una e-mail a n.zoller@trentinoweb.it con il semplice oggetto "CANCELLAMI" se le nostre "info" risultano indesiderate. Grazie per la cortese paziente attenzione torna in alto |