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Dal moralismo al riformismo
15.8.09

INFO SOCIALISTA 15 Agosto 2009
a cura di n.zoller@trentinoweb.it mTel. 338-2422592

Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it / www.socialisti.bz.it
Quindicinale - Anno VI
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o Un libro per cominciare: Quinto Antonelli, = “I dimenticati della Grande Guerra” - commento di N. Zoller

o Memento per il centro-sinistra DAL MORALISMO AL RIFORMISMO - di Angelo Panebianco

o VERDI, SINISTRA E LIBERTA' - di Matteo Salvetti

o PARTITO DEMOCRATICO: “Non si costruisce il futuro, se si smarrisce il proprio passato" - di Lorenzo Passerini

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Un libro per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges)

o Autore: Quinto Antonelli
o Titolo: “I dimenticati della Grande Guerra”
o il Margine, Trento, 2008

(articolo riportato dal giornale TRENTINO il 3 agosto 2009, p.6 sotto il titolo: "Le ferite della storia- QUEI TRENTINI TROPPO AUSTRIACI O TROPPO ITALIANI")

Nella discussione in corso attorno a Cesare Battisti, gli Alpini e gli Schützen, proverei ad inserire il consiglio di una illuminante lettura. Parlo del libro di Quinto Antonelli “I dimenticati della Grande Guerra” edito recentemente da “Il Margine”. L’autore racconta la prima guerra mondiale (1914-1918) dal punto di vista dei 55.000 trentini arruolati sotto l’esercito austro-ungarico e inviati nell’estate del 1914 sul lontano fronte russo: di essi 10.500 caddero in guerra, e la gran parte ancora nei primi mesi del conflitto (alla fine del 1914 l’esercito austro-ungarico aveva perso 994.000 uomini, quello russo più di un milione), mentre i feriti trentini raggiunsero il numero di 14.000; infine i dispersi in guerra e in prigionia in Russia e in Siberia risultarono un numero imprecisato.
Dopo la guerra, conclusasi con la sconfitta dell’Austria-Ungheria, i sacrifici di questi nostri nonni vennero ignorati in Italia dalla propaganda nazionalista e poi fascista, che finiva per considerare “troppo austria ci” i trentini – ora diventati cittadini italiani – che avevano combattuto dalla parte perdente. Ma questi nostri nonni avevano già subito anche la pena di essere considerati “troppo italiani” dai comandi austriaci, tanto da essere usati – come racconta una delle testimonianze esaminate da Antonelli – “come bestie da macello, buttati come vermi sul nudo terreno”. Con buona pace dei mai sopiti sentimenti nostalgici austriacanti – che ora vengono direttamente alimentati anche da fronti istituzionali – i soldati trentini non manifestarono un patriottismo filo asburgico esultante, mentre di fronte ai maltrattamenti subiti dalle gerarchie militari coltivarono un odio “vero e profondo” verso gli ufficiali austro-ungarici.
E’ un discorso che coinvolge anche la società trentina nel suo complesso: tanto che durante il conflitto l’apparato imperial-regio austriaco giunse ad “internare” tra i 1.700 e 2.000 trentini, considerati “inaffidabili” e “sospetti”: tra questi – teniamo ben a mente tali fatti – “Valeriano Malfatti, podestà di Rovereto, nonché per tre decenni deputato e per anni vicepresidente del Parlamento di Vienna, fu accusato di alto tradimento, così come il podestà di Trento Vittorio Zippel. Con loro – rileva Antonelli – la quasi totalità della élite politica cattolica, liberale e socialista, che all’epoca dello scoppio della guerra con l’Italia si trovava ancora nei territori dell’Impero, venne internata e confinata. Lo stesso vescovo di Trento, monsignor Celestino Endrici, fu accusato dal Comando supremo dell’esercito austriaco di fomentare il movimento nazionale e irredentistico”.
Da queste tristi note, ritorna str uggente il richiamo alle lotte per l’Autonomia del Trentino sostenute nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi anni del ‘900 da un ampio fronte di forze trentine, affinché fosse riconosciuto al Trentino un trattamento non vessatorio e discriminatorio rispetto alla privilegiata parte di lingua tedesca del Tirolo. Se l’Austria-Ungheria avesse aderito per tempo al programma strutturalmente “federalista” che la Socialdemocrazia aveva proposto nel famoso Congresso di Brünn del 1899, forse i popoli della Mitteleuropa si sarebbero trovati a collaborare invece che a scannarsi. E probabilmente non sarebbe stato necessario un “interventismo” di marca democratica – come quello di Salvemini, Bissolati e Battisti – che con sentimenti non nazionalisti si batterono contro l’oppressione degli Imperi centrali sognando “una federazione europea di libere nazioni”.

Nicola Zoller

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DAL MORALISMO AL RIFORMISMO

di Angelo Panebianco

- Corriere della Sera, 3 Agosto 2009, p. 1

Analizzando la situazione creatasi in Puglia a seguito delle inchieste sulla sanità che vedono coinvolti i partiti di centrosinistra, Antonio Macaluso (Corriere, 31 luglio) si è chiesto maliziosamente «… se i pesanti attacchi di tutto il fronte dell’opposizione nei confronti del presidente del Consiglio e dei suoi comportamenti - sicuramente discutibili - non abbiano talvolta voluto coprire i timori per quello che l’inchiesta avrebbe potuto portare alla luce». È probabile che sia così. Ma la vicenda pugliese, se non fosse usata come mezzo per regolamenti di conti interni, potrebbe diventare la dimostrazione del fatto che non tutto il male viene per nuocere. A patto che ci sia un leader abbastanza coraggioso per prendere di petto il vero problema che attanaglia il Partito democratico, la tara che impedisce a quel partito di darsi una credibile identità riformista. Mi riferisco al fatto che esso non è mai stato in grado di impostare in modo sano e corretto, di fronte a se stesso e all’opinione pubblica, la questione del rapporto fra morale e politica.

Detto così, lo riconosco, suona tutto un po’ astratto e accademico ma, in realtà, mi riferisco a due concretissimi problemi di cui, non casualmente, nessuno parla nel confuso dibattito precongressuale del Pd. Il primo riguarda il fatto che la debolezza politico-culturale del Pd lo condanna a essere un partito «eterodiretto», un partito che, nelle scelte che davvero contano, subisce il pesante condizionamento di alcuni «giornali di riferimento». Il secondo riguarda l’incapacità di sbarazzarsi dell’alleanza con Di Pietro : come potrebbe sbarazzarsene, tenuto conto che il Pd non dispone al momento delle armi culturali necessarie per combattere quello che è ormai il suo più insidioso competitore? Le domande che il congresso del Pd dovrebbe porsi sono le seguenti: quale futuro politico può avere un partito che si presenta come riformista ma la cui componente identitaria principale, quella che trasmette soprattutto di sé, è il moralismo? E, ancora: è il moralismo una risposta giusta o sbagliata ai delicati problemi di etica pubblica che la democrazia deve quotidianamente fronteggiare?

All’origine della grande tara, della scelta del moralismo come elemento ideologico dominante della identità della sinistra italiana, ci sono probabilmente gli eventi del quinquennio 1989-1994, il periodo che va dalla caduta del Muro di Berlino all’ingresso in politica dell’Uomo Nero, Silvio Berlusconi, passando per Mani Pulite. Orfana del comunismo, la sinistra non seppe far altro, anche aggrappandosi agli aspetti peggiori dell’eredità di Berlinguer (la diversità antropologica, l’austerità), che mettersi a gridare «al ladro». In parte, per blandire le procure impegnate nelle inchieste sulla corruzione, offrendo loro una alleanza politica di fatto (e sperando così di limitare i danni) e in parte perché non aveva altra identità a cui aggrapparsi.

Oltre a tutto, il passaggio dal comunismo al moralismo, dalla rivoluzione comunista alla «rivoluzione dei Santi», favorì il matrimonio dell’ex Pci con la sinistra democristiana, anch’essa allo sbando dopo la fine della Dc. La ciliegia sulla torta fu l’arrivo di Berlusconi: di fronte all’Orco, simbolo di tutti i vizi e le turpitudini del Paese, occorreva che i buoni, i san ti, gli incorrotti, facessero blocco insieme: per lo meno, questa è stata la favola raccontata per quindici anni agli elettori del centrosinistra. Ma le favole funzionano solo se le si riconosce come tali. Se le si scambia per descrizioni della realtà portano alla rovina.

Ancora una volta, quel genio della comunicazione che è Berlusconi, pur in grave difficoltà a causa della sua disordinata e sconsiderata vita privata, li ha battuti usando quattro paroline magiche: «non sono un santo». Tutti sanno infatti che di santi, su questa terra, ne circolano davvero pochi, e nemmeno i moralisti lo sono (anche se fingono, per convenienza politica, di esserlo). Sposando il moralismo, quali che siano i vantaggi politici a breve, ci si scotta sempre. In primo luogo, non si possono affrontare correttamente le questioni di etica pubblica. In termini di etica pubblica, il problema non è mai «combattere i corrotti» (l’accertamento dei reati di corruzione spetta alla magistratura penale). Il problema è invece incidere sulle condizioni, sulle circostanze, che accrescono o diminuiscono la propensione alla corruzione. Persino Madre Teresa di Calcutta, santa donna (uno dei pochi santi in circolazione nel XX secolo), avrebbe probabilmente avuto problemi con la giustizia se le avessero affidato un assessorato regionale alla Sanità in certe zone del Mezzogiorno.

In secondo luogo, sposando il moralismo, riducendo la politica a una questione di santi e di reprobi, ci si imbatte sempre, prima o poi, in qualcuno che si dichiara più santo di te. La principale ragione per cui il Pd subisce da mesi e mesi, senza reagire, l’offensiva di Di Pietro, è che, dopo quindici anni di confusione fra moralismo e etica pubblica, esso si ritrova con buona parte dei suoi elettori e militanti i n sintonia ideologica con il dipietrismo.

Eppure, prendere di petto queste questioni è vitale per il Pd. L’occasione per fare un salto dal moralismo al riformismo, per affrontare a muso duro il «partito moralista», potrebbe consistere nell’accoglimento della richiesta del presidente della Repubblica di un accordo bipartisan sulle intercettazioni. La politica moralista è sempre stata intrecciata con le questioni di giustizia. Imboccando la strada di un accordo con il centrodestra sulle intercettazioni, il Pd potrebbe cominciare a sciogliere quell’intreccio. Scegliendo di porre fine a una ventennale, opportunista, politica di fiancheggiamento della Associazione Nazionale Magistrati, scegliendo di non chiudere più gli occhi di fronte agli eccessi dell’attivismo giudiziario, il Pd comincerebbe a regolare i suoi conti anche con il dipietrismo e le sue finte virtù. In nome e per conto di una identità riformista finalmente in cantiere.

In un mondo di peccatori, quel poco di etica pubblica che è possibile salvaguardare richiede lucido e pragmatico riformismo. Lasciando alla Chiesa il compito di proclamare i santi.



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VERDI, SINISTRA E LIBERTA'

di Matteo Salvetti

Rovistando per altre ragioni nella piccola biblioteca del sindacato mi sono imbattuto per caso in un piccolo libro- “Conservare l'ambiente, cambiare la politica: la “questione verde” - che raccoglie la trascrizione degli atti di un convegno internazionale tenutosi a Trento nell'ormai lontano dicembre 1982, riunito per discutere le prospettive legate alla nascita di un movimento /partito verde in Italia. Tra gli autori dei vari interventi riproposti troviamo personalità politiche di grande valore destinate a vario titolo a lasciare un segno nella storia politica italiana: Gianni Baget-Bozzo, Alexander Langer, Marco Pannella, Enrico Deaglio e Marco Boato, solo per citare i più noti. Mi voglio tuttavia soffermare sul contributo di Alberto Tarozzi, oggi professore di Sociologia dello Sviluppo a Bologna, del quale curiosamente sono stato pure allievo. Tarozzi si interrogava all'epoca su quale potesse essere la compatibilità politica tra “rossi” e “verdi”: una domanda che ritorna spesso e volentieri nel dibattito politico italiano.
Oggi la stragrande maggioranza dei politologi in Italia è concorde nel far rientrare i Verdi nella famiglia politica della sinistra; a ben guardare tuttavia Verdi e socialdemocratici definiscono il loro agire politico sulla base di presupposti distanti, se non in aperta contraddizione. I Verdi si muovono con la parola d'ordine del “Bewahren”(custodire) mentre i progressisti-i socialdemocratici-si distinguono per preferire il “Bewirken”(realizzare). Gli ambientalisti ritengono in buona sostanza i socialisti e i progressisti europei colpevoli di voler perseguire un modello di sviluppo legato a prospettive crescita infinita ignorando volutamente le tematiche ambientali concentrandosi unicamente su quelle occupazionali.
In tal senso sono interessanti le osservazioni fatte nello stesso convegno da Willi Hoss, delegato operaio alla Daimler- Benz di Stoccarda, poi eletto nel marzo 1983 a deputato nel Bundestag. Secondo Hoss la divergenza maggiore tra Socialdemocratici tedeschi e Verdi si gioca attorno all'importanza data al concetto di “crescita” : “Quando noi discutiamo nelle nostre assemblee sulla crescita ci domandiamo che cosa ci comporterebbe un'ulteriore crescita, per esempio dell'industria chimica che per noi &egr ave; un ramo decisivo: già vediamo che i prodotti fin qui esistenti dell'industria chimica hanno comportato l'inquinamento dell'aria e dell'acqua. Allora ci chiediamo che cosa significherebbe in questo caso un'ulteriore crescita (…) “. Nelle sue posizioni più radicali, essendo tra l'altro delegato sindacale in una delle più importanti industrie automobilistiche mondiali, Hoss metteva pure in discussione l'automobile come mezzo individuale di trasporto, colpevole a suo modo di vedere del 505 dell'inquinamento atmosferico e di 13 mila morti annuali da traffico nella sola Germania occidentale di allora, criticando il ruolo di un sindacato reo di accontentarsi della linea ufficiale dell'uovo oggi (la piena occupazione) piuttosto che quella della gallina di domani: visto che noi del sindacato non possiamo modificare il sistema capitalistico complessivo, è prioritaria la lotta per l'occupazione.
A seguito della tragica esplosione del reattore nucleare di Chernobyl i Verdi, giustamente convinti delle loro ragioni, riproposero con forza le critiche di sempre al concetto di “crescita” collegandole ad una critica sempre più aspra verso i regimi totalitari. Il sistema economico del socialismo reale infatti, rincorrendo l'utopia di una modernizzazione da raggiungere a tutti i costi e in tempi brevi, e trovandosi di fronte a Paesi prevalentemente agricoli, aveva risposto sin dalle origini puntando sullo sviluppo dell'industria pesante, decidendo quindi deliberatamente di sacrificare la conservazione dell'ambiente agli ideali della Rivoluzione del proletariato. Là dove non esisteva una classe operaia vera e propria vennero realizzati ad hoc distretti industriali altamente inquinanti, come il quartiere staliniano di Nowa Huta a Cracovia per costruirla artificialmente dal nulla. Anche l'agricoltura doveva rispon dere ai ritmi di produzione imposti dalla Rivoluzione e dalle logiche di contrapposizione della Guerra fredda. Si diffuse l'uso dei pesticidi, la coltivazione intensiva di monocoluture nell'Asia centrale (cotone), la deviazione di corsi d'acqua che portarono in tempi rapidi alla desertificazione di intere regioni e dello stesso Lago d'Aral, come ricordato da Duilio Giammaria nel suo “Seta e Veleni- Racconti dall'Asia Centrale”. Come non bastasse, l'Unione sovietica – così come peraltro gli Stati Uniti fecero nei loro deserti interni del New Mexico/Nevada- - cominciò a sperimentare armi atomiche nei deserti del Kazakhistan. Non è un caso quindi che la critica verde al modello di sviluppo comunista- stalinista sia stata spesso determinante nel favorire la caduta dei regimi comunisti dell'Europa orientale, come accaduto in Bulgaria grazie al sindacato autonomo “Ecoglasnost”.
Agli occhi dei Verdi in fondo, quanto accaduto a livello ambientale nei Paesi Est-europei rappresentava solamente l'esasperazione della logica socialdemocratica di intendere la “crescita” unicamente come espansione industriale e conseguente ricerca della piena occupazione. Per motivi radicalmente differenti oltretutto, sia i partiti filo-capitalisti che quelli socialdemocratici pensavano una società basata sull'industrializzazione massiccia del territorio. Di qui la necessità di fare dei Verdi un partito autonomo: una sorta di terzo polo.
A distanza di 20 anni dalla caduta del Muro di Berlino, l'opinione pubblica vive con allarme gli effetti spesso imprevisti del Riscaldamento globale: dai cambiamenti climatici a quelli visibili nella vegetazione. Io stesso, quando vengo punto da una zanzara tigre, non posso non ricordare quanto letto nel geniale libro di Marco Di Domenico “Clandestini. Animali e piante sen za permesso di soggiorno” e chiedermi se questo insetto proveniente dall'Indonesia sarebbe riuscito a sopravvivere agli inverni roveretani di trent'anni fa. Non posso nemmeno chiudere gli occhi di fronte alla moria del pino nero, al diffondersi dei nidi di processionaria – più rari in passato- e all'innalzarsi per latitudine e altitudine dei limiti vegetativi dell'olivo, oramai presente un po' dappertutto nella Valle dell'Adige, fino a Chiusa! Ecco quindi tornare attuali i temi classici del “Bewahren” caratteristici dei Verdi che incontrano oggi il favore di ampi strati della popolazione europea tanto che, a fronte di un arretramento dei partiti socialdemocratici europei abbiamo assistito alle recenti Elezioni europee all'affermazione del movimento verde anche in Paesi nei quali prima d'ora non aveva avuto che una rappresentanza sporadica.
In Italia il movimento verde si è distinto negli ultimi anni per una politica improntata al più rigido conservatorismo ambientale che ha dimostrato tutte le sue debolezze e contraddizioni proprio sotto il Ministero di Pecoraro Scanio. I Verdi italiani a parole si schieravano per incentivare l'uso delle energie rinnovabili, ma non riuscivano a realizzare quanto promesso nella pratica poiché, secondo una visione distorta, anche le pale eoliche e i pannelli solari andavano a deturpare l'ambiente, almeno da un punto di vista “visivo”. Così, mentre i Verdi tedeschi puntavano sull'eolico e sul solare e cominciavano assieme ai Socialdemocratici della SPD ad avviare un piano di smantellamento delle centrali nucleari, i colleghi italiani rimasero politicamente paralizzati dai loro stessi “niet”. Oggi il governo di centro-destra di Berlusconi può così rilanciare il nucleare in Italia in un clima di apparente indifferenza degli italiani.
La “questione verde” è peraltro tutt'altro che esaurita, come testimonia l'alta partecipazione degli italiani alle fiere di settore, là dove si parla di risparmio energetico, case clima, pannelli solari per non parlare del crescente numero di autovetture alimentate a GPL e metano. Gli italiani quindi sembrano apprezzare l'adozione di politiche verdi, rimanendo invece insofferenti verso la politica espressa dal partito dei Verdi.
Per tutti questi motivi le istanze socialdemocratiche di crescita e piena occupazione possono andare oggi di pari passo con quelle del movimento verde senza particolari contraddizioni. Il “Bewahren” e il “Bewirken” possono convivere in una logica di sviluppo sostenibile, nel rilancio dell'industria legata alla produzione di energie alternative che potrebbe portare vantaggi all'ambiente conciliando tale risultato con l'altrettanto importante conservazione e creazione di posti di lavoro, obbiettivo d'ogni partito progressista che si rispetti. Senza contare il fatto che, l'indipendenza dall'utilizzo dei combustibili fossili, renderebbe le democrazie europee meno ricattabili dagli autoritari regimi ai quali appartengono, andando ad innescare un meccanismo virtuoso di democratizzazione nei Paesi del Nord Africa (Libia, Algeria) e in quelli di area ex sovietica (Russia, Kazachistan). La recente crisi finanziaria e quella economica ancora in atto mettono poi in seria discussione tutti i paradigmi economici che fanno perno sul dogma della crescita infinita e sull'espansione dei consumi. Anche esponenti socialisti e socialdemocratici, confrontandosi con le mutate esigenze di una società post-industriale con un'economia basata principalmente sui servizi, hanno parlato della necessità di introdurre logiche alternative a quelle del mercato. Alcuni parlano già liberamente di &ld quo;decrescita felice”. La sinistra socialista e socialdemocratica ha imparato quindi la lezione, e non è un caso che recentemente Stoccolma – capitale del modello di sviluppo socialdemocratico scandinavo- sia stata eletta come la città più verde d'Europa. Là dove i verdi rappresentano una forza politica residuale come in Portogallo- a governo socialista- sono stati fatti i passi in avanti più evidenti verso l'adozione di politiche in favore della produzione di energia rinnovabile. Il governo di Lisbona in pochi anni è infatti ha raggiunto la quasi totale autosufficienza energetica, grazie allo sfruttamento dell'energia solare ed eolica. Per contro i Verdi italiani non avranno futuro nell'isolazionismo e nel perpetuare quella politica dei no che sta alla base delle loro recenti sconfitte politiche.
La vera sfida per il futuro per il movimento verde e quello progressista democratico socialista e socialdemocratico europeo sarà quella di lavorare assieme per promuovere una nuova qualità della vita, per una produzione decentrata e per consentire all'individuo di organizzare in modo diverso la propria esistenza costruendo assieme un paradigma diverso e credibile di interpretazione della realtà da quello oggi dominante della destra populista europea.

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PARTITO DEMOCRATICO: “Non si costruisce il futuro, se si smarrisce il proprio passato"

di Lorenzo Passerini (dal "Corriere del Trentino" dell' 8 agosto 2009)

“Non si costruisce il futuro, se si smarrisce il proprio passato e il senso del cammino percorso. Un movimento, un partito, una coalizione avrà più chiara la propria prospettiva se ha piena consapevolezza della propria storia, se ha capacità di riflettere sulle esperienze compiute e da esse è in grado di trarre indicazioni per l’oggi e il domani.”

Si può certamente dire che questa idea di Fassino, riportata in “Per passione”, è la stessa che ha portato Pierluigi Bersani ha porre lo slogan Un senso a questa storia al centro della campagna elettorale per la segreteria del Pd. Dare un'identità riconoscibile al partito è infatti l'obiettivo del candidato segretario, il quale ritiene che “le nostre radici affondano là dove tantissimi anni fa si è pensato che mettendosi dalla parte dei più deboli, di chi lavora, dei subordinati, di chi produce si potesse fare una società migliore per tutti; questa ancora oggi davanti al secolo nuovo è la fondamentale aspirazione di questo partito”.

Bersani ha infatti chiaro quali debbano essere le radici culturali: “quelle socialiste e quelle cattolico popolari”, vuole infatti un “partito che sia a sinistra, democratico e liberale”.

Negli ultimi mesi invece alla definizione di una riconoscibile identità politica si è preferita spesso la suggestione mediatica e “un eclettismo che vuole afferrare da molte parti e poi non coagula da nessuna”. I risultati delle recenti elezioni sono una prova evidente dell'inadeguatezza di questo modo di porsi. Le forze che hanno contribuito a formare il Partito Democratico possono rendere più saldo il loro incontro solo attingendo al meglio dei valori ideali delle tradizioni riformiste del Paese, ponendole alla base dell'azione politica del partito. Penso alla tradizione popolare dei cattolici democratici, che Guido Gonella – al primo Congresso nazionale democratico cristiano il 25 aprile del 1946 – definiva "progressista", mettendola a confronto con il liberalismo ed il socialismo e polemizzando con "quanti si illudono di conservare le loro situazioni di privilegio". Si dichiarò infatti energicamente in favore di un "riformismo rigorosamente impegnativo". Penso ai valori della tradizione e della cultura liberale-democratica di cui è profondamente permeata la civiltà europea ed ai valori sociali e di libertà del socialismo democratico, con tutta l'efficacia e profetica attualità del loro messaggio.

Il Partito Democratico deve essere quindi fatto di radici e di ali. Le radici stanno nella tradizione riformista del nostro Paese, fondata sulla congiunzione dei valori socialisti, liberali e cristiani. Le ali stanno nelle mire e nei sogni che devono essere più presenti e più visibili per proporsi alle nuove generazioni.

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