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Piero Fassino “Per Passione” Rizzoli, 2003 pag.10 (ultimo paragrafo) “Non si costriuisce il futuro, se si smarrisce il proprio passato e il senso del cammino percorso. Un movimento, un pratito, una coalizione avrà più chiara la propria prospettiva se ha piena consapevolezza della propria storia, se ha capacità di riflettere sulle esperienze compiute e da esse è in grado di trarre indicazioni per l’oggi e il domani.” pag.20 (secondo paragrafo) “E poi l’insegnamento più prezioso [del padre socialista]: «Essere laico significa riconoscere che negli altri, anche quando sono molto distanti da te, c’è un pezzo di verità che bisogna capire e riconoscere». Un principio che mi ha abituato a diffidare di ogni integralismo e a guardare con rispetto alle opionioni diverse dalle mie.” pag. 37 “(…) mi avvicino al Pci, nonostante la nostra sia una famiglia di tradizioni socialiste. Pur riconoscendomi nella sinistra riformista, la decisione dei socialisti di dar vita a un centrosinistra in alleanza con la Dc non mi è parsa convincente. Questa scelta, e poi l’unificazione tra Psi e Psdi, ha invece trovato l’adesione di mio padre, anche se non scevra da perplessità e inquietudine per la rottura a sinistra e, soprattutto, per i rischi di subalternità alla Dc. Io, invece, nel momento in cui entro in università scelgo il Pci. Non tanto per una piena adesione al corpo dottrinario e ideologico del comunismo: come tutti i giovani di quella fase, ho abbondandemente letto «fondamentali» - da Marx ed Engels a Lenin, da Trotzkij a Rosa Luxemburg – ma anche i «revisionisti» - da Kautsky a Bauer a Bernstein – con le cui riflessioni mi identifico assai di più. E non ho alcuna simpatia per i regimi comunisti, di cui rifiuto l’autoritarismo e l’oppressione. Al contrario, guardo con entusiasmo alla Primavera di Praga, che solleva tante speranze nella possibilità che il comunismo assuma un «volto umano» ed evolva verso un approdo democrativo. Tant’è che decido di aderire al Pci all’indomani della sua condanna dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia. Se il Pci non avesse condannato quel brutale atto di oppressione, forse non mi sarei iscritto e la mia vita sarebbe stata probabilmente un’altra.” pag. 41 “Per me l’impegno politico si deve tradurre in un fare visibile e misurabile; in strategie che indichino non solo gli obiettivi, ma anche le tappe intermedie e graduali con cui raggiungerli, ma anche le tappe intermedie e graduali con cui raggiungerli; obiettivi che diano sostanza a idee e progetti, perché l’adesione a un sistema di valori ideali richiede strutture e organizzazione. Per questo mi sono sempre riconosciuto nel gradualismo e nel riformismo, diffidando di ogni forma di integralismo culturale e di estremismo politico.” pag.80:sul compromesso storico “Vista ex-post, la strategia di Berlinguer, in quel momento utile al Paese ed efficace per la sinistra, maschera tuttavia una contraddizione non risolta del Pci: la lentezza e la resistenza ad assumere un compiuto profilo riformista di stampo socialdemocratico. Per accedere al governo, il Pci cerca la sua legittimazione puntando più sull’alleanza con la Dc che sulla credibilità di un programma riformistico alternativo. In altri termini: l’Italia non dovrà temere l’accesso della sinistra al governo, non tanto perché essa abbia un programma riformista, quanto perché chi la governa da sempre, la Dc, è garante della continuità democratica.” pag. 131 – 132 “(…) dalla drammaticità dello scontro emerge l’impossibilità per il sindacato e la sinistra di eludere o ignorare i temi della competitività e della produttività in un mercato sempre più globale. Con le nuove tecnologie si produce di più con un numero di occupati inferiore. Le imprese si organizzano sempre più in presa diretta con il mercato, senza produrre per il magazzino o per le scorte; le nuove tecnologie richiedono tempi di utilizzo e livello di produttività che consentano un rapido ammortamento dei loro costi; il mercato del lavoro diviene strutturalmente più mobile e flessibile. La possibilità stessa di tutelare fondamentali diritti dei lavoratori – in primo luogo quello al lavoro – non discende più dalla rigida difesa dell’acquisto, ma dalla capacità di adeguare diritti e condizioni acquisiti alle evoluzioni della struttura produttiva e dei mercati.” Da pag.155 a pag. 162 Craxi, tuttavia, coglie un punto di verità: l'Italia degli anni '80 ha un gran bisogno - e anche una gran voglia -di modernizzazione. Di innovare cioè la struttura produttiva, le forme dello Stato sociale, gli assetti istituzionali, il modo di essere e di vivere. E invece - seppure in tre decenni abbia conosciuto uno sviluppo tale da farne un membro del G7, il club dei grandi - il nostro, negli anni '80, è un Paese ingessato, con una struttura produttiva cresciuta al riparo di ombrelli protezionistici, un'organizzazione sociale statica e rigida, un sistema politico e istituzionale consociativo e privo di alternanze. «Bisogni e meriti»: questo lo slogan della conferenza programmatica del Psi a Rimini nell'82, con cui Craxi e Claudio Martelli lanciano la sfida per la modernizzazione. È una sfida lanciata su due fronti: alla Dc - di cui Craxi è alleato - per l'egemonia nel pentapartito; e al Pci per l'egemonia nella sinistra. Una strategia di movimento che coglie di sorpresa i due grandi partiti, abituati al sonnacchioso e statico sistema che dà all'uno il controllo del governo e all'altro dell'opposizione. Il conflitto con il Pci, in particolare, diviene subito aspro. La sfida di Craxi coglie i comunisti impreparati e mette a nudo il loro ritardo nel misurarsi con la modernità. Craxi interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica di stare al passo. Il Pci invece vede nei cambiamenti un'insidia, anziché un'opportunità, e si arrocca in un atteggiamento difensivo che ne ridurrà influenza e credibilità politica. Mi ha sempre colpito l'inspiegabile contraddizione per cui la sinistra nasce su un'intuizione di Marx - il movimento è il motore della storia - ma poi guarda spesso con timore e ostilità a tutto ciò che muove. In questa fase, massimo è l'ascendente di Craxi, che raccoglie nella società i frutti di un lavoro avviato con l'ascesa alla segreteria del Psi nel '76. E più lui stringe la presa, più noi soffriamo, perché il suo progetto è concorrenziale e in competizione con il nostro. Come poi si vedrà, sarebbe stato più saggio, per lui e per noi, dedicare meno energie a combatterci reciprocamente, perché quella «guerra civile» nella sinistra porterà alla distruzione di una prospettiva comune, travolgendo non solo il vinto, ma anche il vincitore. Sì, perché a ben vedere la sinistra, lungo tutto il Novecento, è stata minata da un «male oscuro»: la pretesa di ciascuno dei suoi due massimi partiti di volerla da solo rappresentare tutta, scommettendo sulla sconfitta e sulla sparizione dell'altro. Una maledizione che segna il conflitto Berlinguer-Craxi. Nel 75-'76 è il Pci, forte di una straordinaria avanzata elettorale, a scommettere su una bipolarizzazione del sistema politico che gli assegni la rappresentanza della sinistra, relegando il Psi a forza residuale. Una scommessa perduta, come si incaricheranno di dimostrare gli eventi successivi. Negli anni '80 è Craxi a scommettere sulla crisi progressiva del Pci, fino a negare nell'89 il valore della svolta di Occhetto. Anche in questo caso gli eventi si sono incaricati di dimostrare la miopia di quella scelta. E questo scontro investe anche il sindacato. Craxi riallaccia strettissimi rapporti tra il Psi e la Uil, la Cisl e una parte delle Acli, e attua una insidiosa strategia di isolamento della Cgil, anche se la direzione riformista di Luciano Lama offre minori margini a questa manovra a tenaglia. Lo scontro si acuisce, ovviamente, con la decisione di Craxi di intervenire sulla scala mobile. In realtà, quattro punti non sono grande cosa: ventiseimila lire circa a fronte di salari che oscillano tra il milione e il milione e duecentomila lire. E, tuttavia, é la prima volta che il governo interviene a regolamentare per legge un istituto contrattuale e la dinamica salariale. I rapporti tra Pci e Psi si fanno incandescenti. Berlinguer definisce il governo Craxi «pericoloso per la democrazia». Al congresso di Verona i socialisti, a loro volta, lo fischiano. Nonostante la Cgil mobiliti milioni di lavoratori in un'imponente manifestazione a Roma nella primavera dell'84, Craxi tiene duro. Il Pci annuncia allora che raccoglierà le firme degli italiani per sottoporre il decreto a referendum. È nel pieno di questo scontro che muore Berlinguer. Gli succede Alessandro Natta, chiamato a una difficile eredità. Il gruppo dirigente del Pci è consapevole che il referendum è un azzardo. Ma non ha la forza di revocare un impegno assunto da Berlinguer: si teme che un cambio di rotta venga vissuto come il tradimento di un lascito morale, tanto più vincolante di fronte all'emozione enorme suscitata dalla morte di Enrico. E così - ancorché senza convinzione - nell'estate '84 il Pci avvia la raccolta delle firme. Sebbene ci si impegni tutti a fondo, non mancano voci di dissenso o perplessità sulla via intrapresa: si paventano ulteriori lacerazioni in un tessuto già strappato, con il rischio che il nostro isolamento divenga drammatico in caso di sconfitta, come poi avverrà. Insomma: ci si sente impegnati a onorare il lascito morale di Berlinguer, anche se ciascuno cova in cuor suo dubbi sempre più grandi. Ricordo bene la riunione in direzione in cui si decide l'indizione del referendum, così come le riunioni successive, con la rassegnata consapevolezza di una battaglia inevitabile, ma destinata a non essere vincente, come infatti non sarà. Anche a Torino il Pci si impegna su questo nuovo fronte. Vengono raccolte migliaia e migliaia di firme, non senza discussioni e riserve, anche nel nostro gruppo dirigente. Sergio Chiamparino, che è sempre stato un riformista lucido e coraggioso - pronto anche a pagare di persona la coerenza delle sue posizioni - non condivide la strada referendaria e si dimette. Sergio è uno dei miei più cari amici; con lui ho sempre avuto una forte sintonia umana, prima che politica; ed è in quel momento il mio braccio destro in segreteria. Anzi, lo vedo come il mio possibile successore. Il suo distacco è quindi molto faticoso per me. Ho in testa un chiodo fisso: non perderlo, trovandogli una collocazione temporanea che permetta una decantazione. Con l'attiva collaborazione di Bruno Ferrero - ex segretario regionale e deputato europeo - riesco a «collocare» Sergio a Bruxelles, al nostro gruppo al Parlamento europeo, da dove tornerà nell'87, forte di un'esperienza di largo respiro che avrà ancor più consolidato il suo profilo politico. Come scrive Montale in Satura, «La storia non e poi / la devastante ruspa che si dice. / Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli». Non è quello peraltro l'unico segnale di difficoltà. In una riunione sul referendum, nella nostra sezione dell'Aeritalia - l'attuale Alenia - me li trovo tutti contro. Eppure lì noi siamo sempre stati fortissimi: la maggioranza del consiglio di fabbrica è non solo costituita da delegati Cgil, ma da iscritti al Pci. In quella azienda costruiscono aerei, satelliti e apparecchiature spaziali: la gran parte dei lavoratori è di quinto o sesto livello, con salari agganciati a un'alta professionalità. «Ma di che stiamo parlando?» mi obiettano. «Di quattro punti di scala mobile? Ma mi dici che cosa sono ventiseimila lire per la gente che lavora qui?» Mi corre un brivido freddo lungo la schiena: quei quattro punti dividono non solo il mondo del lavoro dipendente da quello dell'autonomo, ma creano contraddizioni anche all'interno dello stesso mondo del lavoro subordinato. Ciononostante conduciamo fino in fondo tutta la campagna elettorale, anche se in un clima di scarsa motivazione. Ricordo un comizio di Alfredo Reichlin in piazza San Carlo, con militanti incerti e perplessi. Alla vigilia del voto, commissiono anche un sondaggio, che ci dà vincenti a Torino con il 55%. Sono preso dal panico: Torino è una città con una quantità di lavoratori dipendenti più alta della media nazionale. Chiamo subito Reichlin, Chiaromonte, Napolitano; parlo anche a Natta: «Se a Torino vinciamo col 55%» dico loro «il referendum in Italia è perso». Ma non si possono più fermare le macchine, e forse non se ne ha nemmeno voglia. Il sondaggio si rivela esatto: il «Sì» ai referendum ottiene a Torino il 56%. E a livello nazionale si ferma al 47%. Sono anni molto difficili. Il Pci è su un binario morto: l'esaurimento della strategia del compromesso storico non ha portato all'elaborazione di una alternativa. Una maggioranza di sinistra non è possibile; e d'altra parte la rottura con i socialisti non consente neanche di pensarla o di prospettarla politicamente. Simbolo di questa impasse è la proposta politica dell'«alternativa democratica» varata da Berlinguer nel novembre dell'80, non solo assolutamente vaga nei contenuti, ma anche equivoca nel lessico, perché quell'aggettivo «democratica» lascia quasi intendere che il governo di pentapartito metta in discussione la democrazia, concetto estremo peraltro affermato da Berlinguer in uno dei suoi ultimi discorsi. È la deriva identitaria e solipsistica di un partito che - di fronte alle difficoltà del presente - non sa opporsi al richiamo delle sirene del passato. Un partito che si rifugia in una autoconsolatorìa riaffermazione di identità, di cui si rivendica la «diversità»: come se la differenza tra noi e gli altri partiti fosse un fatto genetico, e non più semplicemente programmatico. Un partito che si esilia, così, in una malinconica e solitaria navigazione senza bussola. Questo è quello che penso in quegli anni, e ho sempre avuto l'idea che lo stesso Berlinguer ne fosse consapevole. Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione dì scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita: la partita dura ormai da molte ore; sta giungendo alle battute finali e guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l'avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l'altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l'impatto con la crisi della sua strategia politica. In realtà, la crisi politica del Pci era già in atto da qualche anno, ma fa personalità e l'autorevolezza politica di Berlinguer l'avevano occultata. E quando Berlinguer muore, viene a cadere il precario equilibrio nel quale ha operato il Pci dopo la fine della solidarietà nazionale. Il partito si scopre orfano, non solo di un leader carismatico e autorevole, ma anche di una strategia, di una politica, di una prospettiva. Ci sarebbe bisogno di uno scatto, di un colpo di reni, di quella «svolta» che invece arriverà soltanto nell'89. Manca un leader della forza di Berlinguer. E nel gruppo dirigente prevale la preoccupazione di non stressare, con altri strappi, un partito già piegato dall'isolamento e dalla improvvisa scomparsa della sua guida. Sono queste le ragioni per cui si sceglie Alessandro Natta, preferendolo a Luciano Lama. Per continuità Lama viene guardato con sospetto perché troppo «riformista». Natta è l'ascoltato consigliere di Berlin-gue e ne ha raccolto l'eredità. Non stupisca. In politica - e non solo in politica - si commette spesso l'errore di subordinare i tempi della realtà a quelli dell'organizzazione. E così, se una scelta appare troppo radicale o di rottura, e quindi rischiosa, si preferisce rinviarla, attutirla, graduarla, anche oltre ogni limite ragionevole. Prevalgono, insomma, l'autoreferenzialità, lo spirito di conservazione, l'arroccamento. E si perdono occasioni, credibilità e consenso. In realtà Natta è tutt'altro che un conservatore: anzi, è un antidogmatico, uno spirito laico, un colto interprete del pensiero illuminista e razionalista, che ha dato un sensibile contributo all'evoluzione del Pci. Tuttavia, non ci sono uomini buoni per tutte le stagioni. E la forza e l'esperienza di Natta sono anch'esse legate a una stagione politica ormai in via di esaurimento. Di fronte alle difficoltà di una situazione interna bloccata, Natta percorre la stessa strada scelta da Berlinguer: punta sulla dimensione internazionale per accreditare un profilo europeo del comunismo italiano. «Pci: parte integrante della sinistra europea» è lo slogan del congresso dì Firenze nella primavera '86. L'obiettivo è consolidare ulteriormente quella nuova collocazione internazionale del Pci che dal 1981, dopo il golpe di Jaruzelski in Polonia, ha visto il partito consumare lo «strappo» denunciando, con un famoso discorso di Berlinguer, «l'esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d'Ottobre». É un cammino avviato da Berlinguer con «l'eurocomunismo» già alla metà degli anni '70, gli stessi anni nei quali si sperimenta la solidarietà nazionale. Le due scelte si corrispondono. pag. 186-187 “Ho sempre considerato un grave errore far prevalere i propri tempi rispetto a quelli della società, non solo perché si rischia di scivolare nell'irrilevanza, ma perché si accumulano ritardi che richiederanno poi cesure assai più laceranti. Insomma, la svolta di Occhetto, nonostante sia stata pensata, ragionata e pianificata molto prima, avviene tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino. Anche se così a lungo maturata, la svolta è sofferta. Basti un episodio di due mesi prima. Alla fine di settembre arrivano al Pci due inviti: il primo viene da Pechino per le celebrazioni del 40° anniversario della rivoluzione cinese; il secondo da Berlino per il 40° anniversario della Repubblica Democratica Tedesca. Riuniamo la segreteria con Rubbi e Napolitano. Sull'invito cinese la risposta è chiara e netta: non possiamo andare a Pechino, dopo quello che è accaduto in piazza Tien An Men. Sull'invito tedesco, invece, Rubbi ci informa che alle celebrazioni sarà presente anche Gorbaciov e ciò può giustificare una nostra partecipazione, per dare sostegno a chi nell'Rdt lavora per un'evoluzione democratica. La discussione e piuttosto tesa: Petruccioli, Veltroni, Mussi, D'Alema e io diciamo di no, non c'è nessuna ragione per andare in Germania. Mi ricordo che per rendere più chiaro il mio pensiero ricorro a una battuta: «È tutta l'estate che milioni di tedeschi vengono da là a qui; Occhetto sarebbe l'unico che va da qui a là». Anche Napolitano, Rubbi e Occhetto concordano. Decliniamo perciò l'invito. Ma - particolare significativo! - accampando il pretesto che l'anniversario è un appuntamento istituzionale, e noi non siamo uno Stato. Una reticenza che prova quale sia il nostro tormento. pag. 197 “nella sinistra la tentazione di risolvere le contraddizioni e le diversità di opionioni ricorrendo alla categoria del «traditore» è antica e dura a morire. È un brutto e maligno retaggio dello stalinismo, per cui la contraddizione non esiste mai in sé, ma è sempre la conseguenza di un tradimento. E, dunque, eliminato il traditore è eliminata la contraddizione. Quel che colpisce è che questa tentazione persiste nel tempo e si produce periodicamente.” da pag. 258 a pag. 263: “Si è molto discusso in questi dieci anni - tanti ormai ne sono passati da quel periodo così drammatico - su che cosa abbia rappresentato davvero Tangentopoli e sul modo in cui abbia travolto il sistema politico italiano. A dieci anni di distanza, le cose appaiono più chiare. Intanto, Tangentopoli non fu un'invenzione. Quelle inchieste, comunque si valuti il modo con cui sono state condotte, misero in luce l'esistenza di rapporti illeciti tra imprese e partiti e di finanziamenti occulti al sistema politico. Non solo singoli episodi, ma un sistema, oserei dire un costume, largamente accettato dal ceto politico dirigente. Ciò non significa affatto ritenere che ogni inchiesta sia stata sempre fondata; ne condividere qualsiasi comportamento di questo o quel magistrato. Personalmente credo che il suicidio di Gabriele Cagliari - il presidente dell'Eni che, esasperato da una carcerazione preventiva lunghissima, si diede la morte infilando la testa in un sacchetto dì plastica e lasciandosi soffocare - richiami responsabilità su cui a tutt'oggi non si è andati fino in fondo. E non c'è dubbio che un certo spirito giustizialista finì per prendere il sopravvento, anche grazie alla pressione di un'opinione pubblica indignata. La prassi, in quei mesi largamente praticata da alcuni giudici inquirenti, di utilizzare la carcerazione preventiva per ottenere, in ogni caso e comunque, confessioni dagli imputati, solleva più di una perplessità in chi crede nelle garanzie e nello Stato di diritto. Una tesi, invece, mi è sempre sembrata infondata: e cioè che l'opposizione, e in particolare il Pds, perseguisse la demolizione giudiziaria del governo e dei suoi partiti. O che ci fosse un'intesa con i magistrati inquirenti. Essendo stato nel vertice del Pds in quegli anni, posso testimoniare per conoscenza diretta che non vi erano rapporti tra il partito e i magistrati; anzi, le indagini sorprendevano ogni volta anche noi. Peraltro in quegli anni né Occhetto, né alcuno di noi guarda con favore a quella destabilizzazione giudiziaria del sistema politico. Non voglio dire che in quei mesi nell'opinione pubblica progressista non fossero presenti forti sentimenti antipolitici e una simpatia per l'azione della magistratura. Intendo che non era questo l'atteggiamento dei dirigenti dell'opposizione, assolutamente consapevoli dei rischi politici e istituzionali a cui il sistema era esposto. Se mai, una analisi critica andrebbe condotta sulla incapacità - che tutti in quel momento manifestano di una seria riflessione su come il sistema politico sia giunto a quel punto di degenerazione. E in particolare sul mai risolto nodo dei finanziamento della politica. E vale la pena ricordare che quando, il 3 luglio '92, Craxi pronuncerà un vigoroso discorso nel quale, non sottraendosi alle proprie responsabilità, denuncerà il distorto sistema di finanziamento dei partiti chiamandoli in causa tutti, le sue parole cadranno in un silenzio generale che la dice lunga sulle ambiguità del ceto politico di quegli anni. Onestà intellettuale vuole che si riconosca, almeno oggi, che in quegli anni il sistema politico accettò metodi di finanziamento assai disinvolti, in una osmosi di relazioni tra partiti e imprese facilmente esposta alla degenerazione e alla illiceità. In tutto questo periodo, l'impegno per portare il Pds nell'Internazionale socialista mi dà l'opportunità di frequentare in modo più continuo la dirigenza socialista, e soprattutto Bettino Craxi. Mi sforzo di farlo senza preconcetti. Del resto, non mi è difficile: pur avendo aderito al Pci, non ho mai nutrito ostilità o pregiudizi verso una tradizione socialista a cui anche la mia storia famigliare appartiene. Bettino ha conosciuto mio padre, dirigente socialista, e tra noi la comunicazione e più facile. Forse anche per questo, con me, salvo in un'occasione già ricordata, non è mai scontroso. Certo, Craxi non è un uomo che ispiri immediata simpatia, anche per quel modo di parlare lento, con lunghi silenzi, con lo sguardo rivolto all'orizzonte, una forma di timidezza che ne accresce la solitudine. Craxi è profondamente uomo di sinistra, figlio di socialisti e dirigente socialista lui stesso sin dall'immediato dopoguerra. Autonomista, anche all'epoca dei Fronte popolare, ha uno spiccato senso di un'identità socialista distinta rispetto all'anima maggioritaria della sinistra italiana, quella comunista. E rifiuta ogni forma di subalternità del Psi al Pci. Ma soprattutto Craxi ha colto prima di altri, e tra non poche incomprensioni, un'esigenza di modernizzazione. Per primo pone l'esigenza di una riforma istituzionale che prenderà l'avvio, dieci anni dopo, con le leggi elettorali maggioritarie ed è tuttora incompiuta. E lui, con la conferenza programmatica di Rimini, a porre all'inizio degli anni '80, da uomo di sinistra, il tema della modernità, mentre il Pci è piegato su se stesso, timoroso di raccogliere le domande di innovazione che si elevano da settori ampi della società. Certo, Craxi non esita a fare della modernità un terreno di competizione a sinistra, puntando ad accrescere le difficoltà del Pci, inducendoci a reagire nel modo peggiore, cioè con un più alto livello di conflittualità. Ma testa il fatto che il Pci non appare capace, negli anni '80. di affrontare il tema della modernizzazione dell'Italia, spingendo così ceti innovatori e produttivi verso chi, come Craxi, dimostra di comprenderla. Tutto ciò nulla toglie alla gravità di Tangentopoli: le inchieste hanno dimostrato, con corpose prove, quanto fosse diffuso e pervasivo il sistema di corruzione. Bisogna però evitare di cadere nella lettura opposta, negando cioè che la politica di Craxi sia stata elemento di innovazione e dinamizzazione del sistema politico. Scrivono giustamente Emanuele Macaluso e Paolo Franchi che l'incertezza ideologica e organizzativa del Psi ha anche rappresentato «una estrema apertura e sensibilità al nuovo: cosicché a lungo in molti hanno considerato il Psi una sorta di sismografo della società italiana». Piaccia o non piaccia, Craxi ha posto problemi veri, anche se spesso ha dato risposte sbagliate. In uno dei colloqui che ho con lui - un appuntamento di quelli consueti, sulla nostra adesione all'Internazionale socialista - lo trovo inquieto. Si vede lontano un miglio - lui così passionale e amante della politica - che quel pomeriggio non gliene importa granché dell'Internazionale. «Prima parliamo un po' di questa cosa,» mi dice, appena mi siedo di fronte a lui «questa storia del referendum di Segni.» E la tarda primavera del 1991, e di lì a poco si voterà il referendum che abolisce la possibilità per l'elettore di dare più voti di preferenza. «È per la preferenza unica» rispondo. «D'altra parte il sistema delle preferenze plurime sappiamo tutti a quali degenerazioni dà luogo.» Al che Craxi esplode. « È tutto sbagliato, voi andate dietro a tutti questi che sono l'antipolitica, che vogliono distruggere i partiti! Voi» mi incalza, senza prendere fiato e puntandomi un dito contro «vi illudete di cavalcarli, ma ne sarete travolti! Adesso ce l'hanno con me, ma quando mi avranno tolto di mezzo» e abbozza un ghigno «poi se la piglieranno anche con voi! E poi la gente non gli dà retta...» e la voce si affievolisce fino a spegnersi dei tutto. Craxi insegue i suoi pensieri, come se il discorso continuasse fra sé e sé sottotraccia. Aveva l'abitudine, conversando, di scarabocchiare a caratteri molto grandi su un bloc-notes. «Quanti andranno a votare secondo te? Io dico che ci vanno non più di cinque milioni» e scrive in grande sul suo blocco «cinque milioni», «e tutti gli altri andranno al mare e anzi» - è giovedì e si vota domenica - «io domani dirò: "Andate al mare".» Gli replico: «Bettino, guarda che è un errore, perché secondo me la gente ci va, a votare». «Non è vero» risponde alterato. «Non avete capito niente, la gente dà retta a me perché la gente ne ha le scatole piene di voi, dei giudici, e di tutti gli amici vostri.» Come poi sia andata a finire, lo sappiamo: proprio la scelta di esporsi così frontalmente contro quel referendum segna una rottura nel rapporto tra Craxi e l'opinione pubblica. Inizia lì la frana che finirà con il travolgere tutto il pentapartito. pag. 270 “«discesa in campo» dell’imprenditore milanese a capo di Forza Italia, un partito nuovo di zecca costituito, con tempestiva analisi di mercato, per dare una dimora ai tanti elettori di quei partiti le cui case sono state terremotate da Tangentopoli.” torna in alto |