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Krugman e l'economia depressa
10.6.2009

Krugman e l'economia della depressione

di Carmine Pinto - dalla rivista MONDOPERAIO 2/2009

Paul Krugman ha vinto il Premio Nobel per l’economia nel settembre del 2008, mentre iniziava a delinearsi il grande crac ora al centro della politica mondiale. Il suo nuovo saggio, pubblicato qualche mese dopo, ha aggiornato le analisi sulle dinamiche del sistema finanziario internazionale, sui caratteri delle crisi degli anni Novanta e su quella dei nostri giorni. Il suo obiettivo, scrive l’autore, è comprendere le cause della catastrofe, per contribuire a promuovere la ripresa ed evitare la ripetizione di quelli che giudica gli errori più gravi degli anni Novanta.
Krugman parte dal presupposto che i problemi dell’economia della depressione non sono venuti meno nel mondo moderno, sviluppando una critica radicale alle teorie monetariste e liberiste, una linea che segna tutto il saggio. Un giudizio che a volte coinvolge economisti e politici non riconducibili direttamente a questi filoni culturali ma comunque convinti che il problema di prevenire la depressione è stato risolto, in tutte le sue implicazioni pratiche. Krugman parte dal collasso dell’Unione Sovietica. Finisce in quel momento e per sempre la visione di un’alternativa politica ed ideologica all’economia capitalista. Già negli anni Settanta (è il caso della Cina) e negli anni Ottanta si erano aperte crepe vistose tra i sognatori di economie pianificate. Ma è quello l’evento fondamentale e da quel momento il capitalismo domina incontrastato il mondo. Nel frattempo, scrive l’economista, era iniziato uno sviluppo complesso e spesso drammatico di paesi arretrati o addirittura del terzo mondo che aveva integrato molti di questi paesi nella società del capitalismo globale.
Krugman sostiene che questa sequenza di eventi aveva convinto gran parte dei politici e degli osservatori che le speculazioni valutarie non avrebbero prodotto grandi crisi né si sarebbero più registrati crolli o recessioni durature nella produzione e nella occupazione. In realtà le vicende degli anni Novanta avrebbero dovuto indicare il contrario. Krugman le esamina approfonditamente nel parte più ampia del suo libro. Il Messico e l’Argentina, la Thailandia e la Malesia, l’Indonesia e il Giappone, la Corea e il Brasile hanno conosciuto una serie di crack. Una sequenza che ha avuto a volte caratteristiche simili, in altri casi profonde differenze, ma ha segnato l’età della transizione. Krugman scrive che tanto le economie dei paesi di recente sviluppo quanto giganti ritenuti imbattibili come il Giappone si trovati di fronte al fallimento di tradizionali politiche monetarie e fiscali. Se è così, dice l’autore, questi esempi potevano preparare al crack del 2008. Nonostante contesti diversi, terapie originali da paese a paese, per Krugman vi è un filo comune, un elemento decisivo che unifica tutti e si ritroverà poi nelle sue conclusioni: la necessità di mantenere elevato il livello della domanda per uscire dalle crisi.
E’ questo l’elemento polemico e contemporaneamente la premessa della proposta operativa dello studioso. La critica è diretta alle scelte ultraliberiste di molti governi o ai padroni dell’universo, le nuovi grandi lobby di speculatori finanziari internazionali e nazionali di cui Krugman traccia un secco profilo. Ma uno degli obiettivi più espliciti della sua polemica è l’ex presidente del Board of Governors della Federal Reserve Alan Greenspan. Osannato fino a qualche mese fa, molto meno dopo i crack dell’autunno, Greeenspan, per l’economista liberal, non fece nulla per prevenire l’esuberanza irrazionale dei mercati finanziari. Krugman scrive che non furono alzati i tassi d’interesse né limitate le operazioni a riporto. Stessa critica svolge per la seconda bolla dell’era Greenspan, quella del mercato degli immobili. Si arriva ai giorni nostri, all’esplosione del problema dei sub-prime, con la catena dei fallimenti bancari e con il profilarsi di una crisi che si pensava limitata solo alle economie asiatiche o sudamericane.
Krugman parla della vulnerabilità del sistema bancario e dell’ascesa della globalizzazione finanziaria con le conseguenti interconnessioni internazionali degli azionisti. Quella del 2008 diventa la peggiore crisi mai vista da trent’anni. L’autore descrive un processo che si moltiplica dopo il fallimento della Lehman Brothers allargandosi poi ai mercati emergenti e a buona parte del sistema creditizio americano. Una valanga in cui quello che emerge con maggiore forza è l’inefficacia della politica monetaria. Si giunge così alla conclusione polemica: se è vero che i mercati difficilmente possono sopravvivere alla scarsità di domanda, allora sbaglia clamorosamente chi rifiuta la sintesi keynesiana, gli sforzi del governo volti a stimolare proprio la domanda.
Il tema emerso con le crisi degli anni novanta ritorna infatti prepotentemente in quella americana dei nostri giorni. Krugman non vuole negare i successi della globalizzazione che ha prodotto immensi risultati né abbracciare retoriche radicali o terzomondiste. Rinunciare all’esaltazione del libero mercato significa rifiutare alcune interpretazioni della crisi, che ne attribuiscono le radici a singoli errori di paesi o di leader, a processi di corruzione o a politiche sbagliate, negando ogni ipotesi interventista. Occorre invece combattere la deregulation e la finanza allegra respingendo le dottrine obsolete che annebbiano le menti degli uomini. E per fare questo scrive Krugman serve affrontare direttamente la crescita della disoccupazione, le crisi industriali, stimolando la domanda per favorire la ripresa: insomma rinnovare la vecchia sintesi keynesiana.

IL LIBRO: P. Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008, Garzanti, Milano 2009.



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